Russia-Svezia 2-0
La socialdemocrazia scandinava è stanca
Gli adoratori della sacra rotula non avevano occhi che per quella: un patema a ogni scatto, a ogni torsione, a ogni smorfia del faccione iperespressivo di Sua Genialità Zlatan Ibrahimovic. Il ginocchio ha retto fino alla fine, bene così. Ma per la causa dei suoi fanti stanchi, Ibra ha fatto quel che ha potuto, davvero pochino, come un Riccardo III appiedato.
Russia-Svezia 2-0
Gli adoratori della sacra rotula non avevano occhi che per quella: un patema a ogni scatto, a ogni torsione, a ogni smorfia del faccione iperespressivo di Sua Genialità Zlatan Ibrahimovic. Il ginocchio ha retto fino alla fine, bene così. Ma per la causa dei suoi fanti stanchi, Ibra ha fatto quel che ha potuto, davvero pochino, come un Riccardo III appiedato. Mentre i russi imperversavano tutt'intorno come ussari al galoppo nella steppa. Fin qui per chi ama guardare le partite di calcio come battaglie di eserciti in campo, nobili e tanto più belle quanto più c'è da soffrire. Ma all'occhio più freddo e spassionato del sociologo che sonnecchia dentro i più avvertiti di noi – e che tende a risvegliarsi ogniqualvolta la voce flautata di Stefano Bizzotto dispensa erudizione, snocciola statistiche e competenza come se invece di un telecronista di Raisport fosse uno sherpa di Renato Brunetta – insomma l'occhio del sociologo applicato al calcio ha potuto vedere qualcosa di più. A giocarsi l'ultimo posto per i quarti di finale, a Innsbruck mercoledì sera non c'erano in campo due eserciti, ma due modelli di organizzazione sociale. Va da sé uno pimpante, e l'altro bolso come un cavallo da tiro. Ai tempi del Colonnello Lobanovski (sempre sia onore), il modello della sua nazionale sovietica, che poi era quello della sua Dinamo Kiev (che ovviamente è in Ucraina: per eventuali chiarimenti intervistate Lucio Caracciolo), la squadra degli Zavarov, dei Belanov e dei Blokhin e che forse era ancora più spettacolare del calcio totale olandese, era pura velocità, pensiero, azione. Però l'organizzazione sociale e del lavoro era quella della caserma (per forza di cose, chiedete sempre a Caracciolo). Fatto sta che questa pura ingegneria sociale non vinse mai niente. Tale quale alla Guerra fredda. Ora invece la Russia di Guus Hiddink, giramondo ct olandese che pensa il calcio come a un'organizzazione umana a tecnica mista, né troppo totale né troppo parziale, mette in campo una squadra che non ha scordato del tutto i pregi artiglieristici del collettivo, ma li ha completamente sottomessi allo sfrenato individualismo, tirato a lucido dai gazprom-dollari, della Russia di oggi. Almeno nelle sue facce più brillanti, come lo Zenit San Pietroburgo in cui gioca Andrei Arshavin, gioiellino del capitalismo calcistico baltico rimasto finora fuori per squalifica (indisciplinato, Lobanovski l'avrebbe spedito in Siberia) e autore di un gol e di giocate da leccarsi i baffi. E poi altri bei giocatori, come il faticatore Semak o il punterino Pavlychenko (gol), ben amalgamati in un modello sociale che bada al sodo di squadra, non penalizza le individualità e soprattutto sa che oggi il calcio è showbitz, la gente si vuole divertire. E contro la Svezia tra pali, azioni palla a terra a velocità Playstation2, geometrie e clamorose occasioni mancate (che fa sempre molto anima russa), lo hanno dimostrato.
Dall'altra parte del campo, maglia gialla e l'orgoglio limpido degli onesti, gli svedesi di Lars Lagerback, che ha sempre messo in campo una squadra funzionale come i mobili dell'Ikea. Solo che i Ljungberg, gli Svensson, gli Andersson, bravi vichinghi che remano i sette mari da dieci e più anni, sono ormai un po' logori, senza fantasia per scoprire nuovi orizzonti. Si vogliono anche bene, si vede, e nessuno farebbe mai il torto all'altro – fatta eccezione per re Zlatan, anima zingara e anarchica – di voler essere da più del compagno. Insomma il modello della socialdemocrazia realizzata, appiattita, garantita e proiettata verso quella meritata pensione che ora tutti quanti – a partire da Lagerback e da Henrik Larsson, eroe che va per i 37 – sanno di aver meritato.
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