Il ministro La Russa rilancia il ruolo italiano nella lotta al terrorismo in Afghanistan. I talebani non sono stati sconfitti, la Nato combatte. A Kandahar c'è stata una battaglia degna di Kipling
La battaglia di Kandahar
Fischiavano i proiettili, ma Jalaluddin Haqqani non ci faceva caso. Nella valle di Urgun, vicino al confine pachistano, un fortino dimenticato dei governativi, era bersagliato dai mujaheddin. Barba nera, occhi come la pece, turbante pashtun e mitra catturato ai sovietici a tracolla, Haqqani guidava l'attacco. In piedi, in mezzo alla baraonda della battaglia.
Dal Foglio del 20 giugno 2008
Fischiavano i proiettili, ma Jalaluddin Haqqani non ci faceva caso. Nella valle di Urgun, vicino al confine pachistano, un fortino dimenticato dei governativi, era bersagliato dai mujaheddin. Barba nera, occhi come la pece, turbante pashtun e mitra catturato ai sovietici a tracolla, Haqqani guidava l'attacco. In piedi, in mezzo alla baraonda della battaglia, spiegava ai giornalisti, appiattiti a terra per evitare le pallottole, come avrebbe cacciato l'Armata rossa dall'Afghanistan. Era il 1983. Haqqani era un beniamino della Cia finanziato dai paesi arabi.
Un quarto di secolo dopo, combatte ancora. Con il figlio Sirajuddin è uno dei nemici più temibili della Nato in Afghanistan. Dalla sua base nella zona tribale pachistana ha organizzato i più clamorosi attentati dell'ultimo anno. Come l'attacco suicida al Serena, l'hotel a cinque stelle di Kabul, e il tentativo di eliminare il presidente afghano Hamid Karzai a fine aprile. Haqqani è stato dato per morto innumerevoli volte. Per dirimere i dubbi ha scelto un sistema sanguinoso. Il 3 marzo un attentatore suicida si è fatto saltare in aria presso una base americana uccidendo due civili e ferendone altri diciannove. Il terrorista era un cittadino tedesco di origini turche. Un suo compagno nella guerra santa, Eric B., un altro tedesco, circola ancora per l'Afghanistan pronto a immolarsi.
Qualche settimana dopo compare un dvd con le riprese dell'esplosione. Dalla nuvola di fumo esce il volto arcigno di Haqqani, che rivendica l'attentato. E aggiunge: “Come potete vedere, sono ancora vivo”. Poi promette altri attacchi grazie ai “martiri” che sta addestrando, in combutta con al Qaida, nell'area tribale pachistana.
Mullah Shokur, il comandante talebano che venerdì scorso ha preso d'assalto il carcere di Kandahar liberando oltre mille prigionieri, era legato a Haqqani. I soldati afghani, appoggiati dalle truppe canadesi, l'avrebbero ucciso quarantotto ore fa nel villaggio di Taban. Intanto scoppiava la battaglia a Kandahar, la “capitale” del sud dell'Afghanistan, che ha decimato i talebani.
Tutto ha avuto inizio due mesi fa, quando Shokur, con tutta probabilità con l'appoggio di Haqqani e dei suoi aspiranti suicidi, pianifica l'attacco più spettacolare dal crollo del regime del mullah Omar nel 2001. In maggio scatta la protesta dei detenuti della prigione Sarpoza a Kandahar, l'ex capitale spirituale dei talebani. Fanno lo sciopero della fame, protestano per i maltrattamenti, per i processi troppo sbrigativi e per le dure pene inflitte. In quarantasette si cuciono le labbra.
Alle 21.20 di venerdì scorso un camion riempito con due tonnellate di esplosivo si schianta contro l'ingresso principale della prigione Sarpoza. Un secondo attentatore, questa volta a piedi, entra nel varco provocato dall'esplosione. Si fa saltare in aria per seminare il panico fra le guardie e aprire un'altra breccia da dove far fuggire i prigionieri. Frotte di talebani a bordo di motociclette piombano nel carcere. Le poche guardie sopravvissute vengono sterminate e i lucchetti delle celle fatti saltare uno ad uno. Circa mille prigionieri fuggono. Fra questi, 386 talebani, compresi comandanti di rilievo, oltre due terroristi pachistani e un paio di iraniani. Gli altri sono delinquenti comuni, ci sono anche sedici donne. Obaidullah Khan, che abita vicino alla prigione, ha visto tutto: “I talebani sono saltati sulle macchine e i pulmini che li aspettavano per portarli fuori da Kandahar”. L'azione è durata una ventina di minuti, i canadesi della Nato non sono arrivati in tempo per bloccare la grande fuga.
“Sono scappati tutti”, ha dovuto ammettere Ahmad Wali Karzai il leader del Consiglio provinciale di Kandahar. Per di più ha rivelato che l'intelligence afghana aveva segnalazioni su un possibile attacco alla prigione. Ahmad Wali è il fratello del presidente afghano Hamid Karzai.
La fuga è un siluro contro la credibilità del capo dello stato, originario della zona di Kandahar. Il problema è che il fratello, accusato di traffico di droga, ha sbagliato le sue mosse nella successione della tribù Alokzai, la più potente della zona. Fu mullah Naqib, l'anziano capoclan, a concedere il via libera ai talebani nel 1994, quando si insediarono a Kandahar. Nel 2001 però appoggiò Karzai. Il mullah Omar fu costretto a scappare da Kandahar attraverso gallerie sotterranee. Lo scorso ottobre il mullah Naqib è morto, e sono cominciate le faide per la successione. Karzai, su consiglio del fratello, ha appoggiato la nomina a capo tribù del figlio più giovane e inesperto di mullah Naqib. I Karzai speravano così di controllare il potente clan, ma i talebani sono stati abili a sfruttare il malcontento per l'imposizione di Kabul. Il distretto di Arghandab, a una ventina di chilometri da Kandahar, è diventato, come ai tempi dei sovietici, l'epicentro della rivolta. Durante la notte di domenica scorsa, i circa quattrocento talebani fuggiti dalla prigione assieme ai loro “liberatori” hanno “occupato” almeno otto villaggi nel distretto di Arghandab, istituendo alcuni posti di blocco.
Da Kabul sono arrivati ottocento soldati dell'esercito afghano in rinforzo ai quattromila uomini nella zona di Kandahar. Gli italiani, che li hanno al loro fianco nella capitale e a Herat, li chiamano i “pirati”. Con la bandane verdi o nere, le cicatrici di mille battaglie e l'orgoglio da guerrieri afghani sembrano dei bucanieri. Assieme ai soldati canadesi della Nato, che pattugliavano Kandahar, si sono piazzati sulle colline circostanti. In città la polizia ha scoperto negli ultimi giorni un numero spropositato di trappole esplosive. “La gente temeva che i talebani potessero attaccare Kandahar”, racconta una fonte del Foglio in città. Il segnale peggiore è stata la trasformazione dello stadio in base militare dei canadesi. Ai tempi del mullah Omar si eseguivano le esecuzioni dettate dalla sharia. Nell'ultima settimana, allo stadio di Kandahar, sono stati proiettati gli Europei di calcio, con un grande successo di pubblico.
Dai villaggi a un passo dalla città, occupati dei talebani, sono fuggiti quattromila civili. Molti caricando famiglia e masserizie sui trattori pur di scappare dalla battaglia che aleggiava nell'aria. I talebani hanno fatto saltare i ponti e minato le strade principali del distretto di Arghandab. Fra le vigne e i melograni dell'oasi verde nell'arido Afghanistan meridionale hanno scavato trincee e postazioni. “Abbiamo occupato l'area, un buon posto per sostenere uno scontro. Adesso aspetteremo l'arrivo degli infedeli della Nato. I prigionieri liberati sono pronti a battersi fino alla morte”, aveva dichiarato mullah Ahmedullah, uno dei comandanti talebani. “Stiamo arrivando per cacciare i nemici dell'Afghanistan. Rimanete in casa con le vostre famiglie, mentre le forze afghane combattono per il vostro paese”, ha replicato la Nato con i volantini lanciati attorno a Kandahar. “Vogliono trincerarsi? Sono veramente pronti a rimanere sulle loro posizioni, combattere e morire? Lo vedremo nei prossimi giorni”, aveva sentenziato il generale canadese Marc Lessard, comandante del fronte sud. Da mercoledì scorso elicotteri e caccia bombardieri hanno martellato le trincee dei talebani. Le colonne dell'Ana, l'esercito afghano che ha impiegato mille uomini nell'operazione, assieme a trecento soldati canadesi, sono avanzate verso i villaggi occupati per scalzare il nemico.
Secondo il generale Carlos Branco, portavoce della missione della Nato in Afghanistan, i fondamentalisti non si sono dimostrati così decisi ad affrontare una battaglia campale. “Fino a ora si sono verificati scontri a fuoco o imboscate, ma i talebani non detengono quel controllo del territorio che rivendicano. Hanno visibilmente rifiutato lo scontro aperto”, sostiene il generale. Il governatore di Kandahar, Assadullah Khalid, già canta vittoria: “I talebani sono stati completamente estromessi dal distretto di Arghandab. Hanno subito centinaia di perdite, tra morti e feriti”. Al quartier generale della Nato a Kabul sono più cauti. Gli integralisti in armi sembrano essere tornati alla tattica della guerriglia mordi e fuggi. Il generale Zahir Azimi, portavoce del ministero della Difesa di Kabul, parla di cinquantasei talebani uccisi. I bombardamenti aerei continuano. Il presidente Karzai è intervenuto con un duro comunicato: “Il distretto di Arghandab è stato liberato dai terroristi stranieri e dai loro servi”.
Se a Kandahar la minaccia sulla città sembra svanita, le bandiere nelle basi della Nato in Afghanistan continuano a sventolare a mezz'asta. Gli inglesi, nella vicina provincia di Helmand, hanno superato i cento morti nelle stesse zone di epiche battaglie durante l'impero coloniale.
Mercoledì una bomba nascosta sul ciglio della strada ha ucciso tre riservisti delle Sas, i corpi speciali britannici e il sergente Sarah Bryant. A ventisei anni è la prima donna del contingente inglese a morire in Afghanistan. Bella e bionda era una specie di Mata Hari di Sua Maestà. Parlava perfettamente pashtun e come sottufficiale dell'intelligence si occupava di intercettazioni delle comunicazioni talebane. L'ultima missione era segreta, come la altre, in appoggio a un'operazione antiterrorismo della polizia afghana nella zona di Lashkar Gah. Lo stesso luogo dove era stato rapito l'inviato di Repubblica Daniele Mastrogiacomo. Una settimana fa a Lashkar Gah hanno sventato l'ennesimo attacco suicida. Il terrorista indossava il burqa, la tunica azzurra che copre le donne afghane dalla testa ai piedi, per non farsi individuare. Sotto il burqa aveva il corpetto esplosivo, ma lo ha tradito il comportamento sospetto mentre si dirigeva verso l'ingresso di una caserma. I soldati afghani prima hanno sparato in aria per poi centrarlo in piena fronte. Soltanto dopo si sono resi conto che non si trattava di una donna, ma di un attentatore.
Sarah combatteva questo genere di terroristi. La giovane Mata Hari aveva sposato un collega dell'intelligence e la sua fotografia con un sorriso solare è stata data, con orgoglio, alla stampa dai genitori. “Siamo devastati dalla perdita della nostra adorata figlia, ma so che Sarah è morta facendo un lavoro che amava e per un causa in cui credeva”, ha dichiarato Des Feely, il padre. La giovane spia doveva tornare in patria il prossimo mese. In Afghanistan gli inglesi hanno sostenuto i combattimenti più intensi e i giornali britannici raccontano “senza se e senza ma” le battaglie più dure. La peggiore è scoppiata nella notte del 7 settembre dello scorso anno. In prima linea c'era la compagnia A dei Granatieri della Guardia reale. Soldati pronti a tutto che si sono affibbiati il nome di “Spartani”, perché “siamo veri guerrieri”, come hanno raccontato al Times di Londra. Quella notte, su un plotone di venticinque uomini soltanto sedici sono tornati alla base sulle loro gambe. Due i caduti e sette i feriti, tre dei quali colpiti gravemente. Prima di tuffarsi nell'operazione “Pecthaw”, gli Spartani intonano il loro inno: “La compagnia A sta andando in guerra/ Picchieremo duro e ammazzeremo quelli con il turbante in testa (ragheads)/ La compagnia A va in guerra”.
Attorno a mezzanotte tre colonne composte da altrettanti plotoni si mettono in marcia dalla base avanzata Delhi, nella provincia di Helmand. L'obiettivo è snidare i talebani nella loro roccaforte di Garmsir, un buco di villaggio sul confine con il Pakistan. La notte è buia, il nemico li aspetta trincerato. “Hanno aperto il fuoco a una distanza di trenta metri. Quattro uomini sono stati colpiti subito e gli altri sono rimasti accecati e disorientati dal fosforo”, racconta il tenente Simon Cupples, 25 anni. “Per dieci secondi è stata confusione totale – racconta un altro soldato inglese del primo plotone – Le raffiche mi passavano letteralmente davanti alla faccia”. Matthew Carlin, che aveva intonato la canzone di guerra prima di partire, ammette: “Pensavo di morire. Il fuoco nemico era incredibile. I talebani che avevamo di fronte erano buoni soldati”.
Il primo plotone finisce nella cosiddetta “killing zone” con le pallottole che fischiano dappertutto, ma non demorde. Johan Botha, un soldato di origini sudafricane e altri due commilitoni giacciono colpiti, da qualche parte, nel buio lacerato soltanto dai traccianti e dalle esplosioni. I talebani cercano di andarli a prendere. I feriti racconteranno più tardi di averli visti muovere verso di loro come ombre. La battaglia è per la sopravvivenza e per non lasciare nessuno indietro. “Ho visto la fiammata di un singolo colpo. Il talebano aveva illuminato se stesso sparandoci. Mi sono appoggiato sul ginocchio e ho tirato il grilletto due volte nella sua direzione. Ho sentito gridare e poi più nulla”, racconta Rupert Bowers, un sottotenente di 20 anni. Il caporale Ben Umney si è ritrovato con un proiettile conficcato nell'elmetto a pochi millimetri dal cranio. Sam Cooper, il più giovane soldato del reggimento, colpito subito, sembra morto. Un commilitone se lo carica in spalla facendo lo slalom fra le pallottole per portarlo al sicuro.
Un altro ferito, Luke Cole, prega di iniettargli una dose di morfina, ma i soldati più vicini devono pensare a recuperare i commilitoni in condizioni più gravi. “Gli ho ordinato di strisciare per dieci metri e così avrei potuto fargli la morfina”, racconta uno dei sopravvissuti. Davanti all'assalto talebano il reparto inglese ripiega verso “Three walls”, tre muri. L'unico riparo possibile costituito da pareti in fango e paglia. I talebani li colpiscono con razzi Rpg e colpi di mortaio. I feriti, alcuni in condizioni disperate, con pezzi di cervello che escono dalla testa, sono stati recuperati, ma manca all'appello Botha. Cupples dice che la situazione è disperata, con i talebani che si raggruppano per l'assalto finale a poche decine di metri: “Per radio sento un urlo, ‘man down, man down' (uomo caduto). Brelsford è stato colpito alla nuca”.
La prima bomba d'aereo di 300 chilogrammi piomba sulle teste dei talebani come una liberazione, anche se i soldati inglesi hanno soltanto una decina di secondi per mettersi al riparo. La seconda quasi li colpisce tanto è ravvicinato il bombardamento. I piloti, pure con l'uso dei segnalatori termici, non riescono a individuare il corpo di Botha, il soldato disperso in azione. Alle 6.30 del mattino arriva l'ordine di ritirarsi. Michael Locket, sergente del primo plotone, non ci sta. Una volta rientrato in base guarda in faccia i suoi uomini stremati da una notte di battaglia e dice: “Bene ragazzi, ho bisogno di otto volontari per andare a riprendere il nostro uomo. Se non volete tornare là fuori lo capisco, ma tenete bene a mente che lui era assieme a voi”. Praticamente tutti si sono offerti volontari.
Alle 7.30 del mattino i soldati della compagnia A sono di nuovo in marcia. Tutti sanno che Botha è morto. I talebani avrebbero potuto imbottire il cadavere con una trappola esplosiva o attenderli per un'altra imboscata. “Eravamo pronti alla ferocia”, racconta il sergente, ma trovano soltanto una calma tragica. Le bombe hanno fatto il loro lavoro e il corpo del disperso inglese si trova a venti metri dalle trincee talebane. In quella notte a Garmsir il soldato Sam Cooper, 18 anni, ha subito lesioni al cervello e non è più capace di parlare. Il soldato Luke Cole usa la sedia a rotelle o le stampelle. Il soldato Lee Stacey ha subito una seria ferita alla nuca e non presterà più servizio. Due militari inglesi sono morti e i talebani hanno subito diciannove perdite. Il peggio è stato portare indietro Botha. “Aveva polvere negli occhi e le palpebre spalancate, segno che non c'era nulla da fare – ricorda il capitano medico Henry Nwume – Ho detto al sergente maggiore che era morto e uno dei caporali è scoppiato a piangere. Poi tutti gli altri”. (ha collaborato Bahram Rahman)
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