L'ingorgo telefonico

Riccardo Arena

A forza di spiare non tutto ma di tutto, non tutti ma quasi tutti, prima o poi l'inghippo capita. E così, per qualche ora, a Palermo, nel lontano 2003, accadde l'imprevedibile, l'imponderabile, l'inammissibile. I poliziotti stavano con le cuffie alle orecchie e ascoltavano.

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    A forza di spiare non tutto ma di tutto, non tutti ma quasi tutti, prima o poi l'inghippo capita. E così, per qualche ora, a Palermo, nel lontano 2003, accadde l'imprevedibile, l'imponderabile, l'inammissibile. I poliziotti stavano con le cuffie alle orecchie e ascoltavano. Origliavano, si dice adesso con espressione volutamente sprezzante: come se spiare un rapinatore, un mafioso, un corrotto fosse guardare o ascoltare illecitamente attraverso il buco della serratura. Insomma, gli agenti della “saletta” in cui si fanno le intercettazioni, intercettavano. Però, nel sentire cosa diceva il rapinatore, non capivano.

    Intanto parlava in italiano. Poi, stando a come si esprimeva, pareva pure avere studiato. Ma come, dovrebbe parlare di imbrogli e ladrocini e appuntamenti e pistole e banche e uffici postali e supermercati e auto rubate da tenere fuori col motore acceso, come nei film, e invece parla di magistrati, di giudici e li chiama colleghi e ci si incazza pure? Ci fu da rabbrividire, dopo che guardarono bene il numero: per uno sbaglio nel prefisso o nella disposizione delle cifre, insomma per uno strafottutissimo errore, per qualche ora avevano messo sotto controllo il telefonino nientedimeno che di…
    No, questo non lo diciamo subito. Sennò magari non si arriva in fondo a questo lungo articolo. E non andate a guardare apposta. Manteniamo un attimo di suspense. E pensiamo che fra le 125 mila utenze intercettate ogni anno, per errore o di proposito, potrebbe finirci pure la vostra. Pure quella di chi scrive. Che già c'è finita più di una volta. E visto che le cifre sono in continuo aumento e le spese pure (“165 milioni nel 2001 per intercettare 32 mila utenze, 224 milioni nel 2006 per 109 mila utenze personali o ambientali”, ha scritto Luigi Ferrarella in “Fine pena mai”, edizioni Il Saggiatore), uno magari si domanda che senso abbia spendere soldi pure per intercettare le linee sbagliate o per commettere altri errori mica da ridere.

    Però attenzione. Mica sbagliano solo gli intercettatori. Per sicumera, per eccesso di confidenza, per sfoggiare spavalderia, sbagliano anche gli intercettati. Ed è per questo che lo strumento delle captazioni è ormai ritenuto insostituibile, da chi indaga. Sbaglia Carlo Marcelletti, luminare della cardiochirurgia pediatrica, incollato alle proprie responsabilità da intercettazioni che hanno parlato dei suoi lati nascosti: da un lato tendenze pedopornografiche, dall'altro un cinismo esasperato nel trattare e sfruttare economicamente i pazienti. “Tu mi dai un piccino… sfruttalo”, è la frase, pronunciata da una stretta collaboratrice del primario del Civico di Palermo, che fotografa una situazione poi in gran parte ammessa dall'interessato, che ai pm Fabrizio Vanorio e Caterina Malagoli ha consentito di ampliare, e di molto, l'indagine.

    Sbaglia Marcelletti, sbagliò il boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro, ascoltato in casa propria sia quando complottava con due amici medici per arrivare a Totò Cuffaro, sia quando tirava lo sciacquone del cesso, sbagliò Nino Rotolo, capomafia di Pagliarelli, pronto a cazziare, con involontaria autoironia, un amico che era andato a trovarlo: “I telefonini sono pericolosi… Sono come se fosse una microspia… In questi cosi ci si deve levare la batteria e la scheda”, diceva a uno sconosciuto interlocutore. “Lo so”, lo rabboniva l'altro. E Rotolo, sconsolato: “Eh, lo so e ce l'ha in tasca…”. Rotolo se la prendeva con i cellulari ma non pensava alle microspie. Si sentiva al sicuro, lui. In una botte di ferro. Vista la malafine che aveva fatto il “collega” Guttadauro, aveva evitato di far venire amici e sodali a casa; meglio riceverli in un box in lamiera collocato nell'atrio del residence in cui era agli arresti domiciliari, “bonificato” con un apparecchio “sicuro”. “Le microspie ci sono… Ci sono e ci sono fotografie nei posteggi, fotografie da tutte le parti… Dovete fare in modo di non parlare di una virgola dentro le aziende vostre e dentro le case…”. Ma nel capanno c'erano le microspie e nel giugno del 2006 finirono tutti in galera, con l'operazione Gotha, Rotolo e i suoi amici.

    Però, se sbagliano gli intercettati, qualche volta prendono abbagli anche gli intercettatori. Specie se a spiare chi parla in dialetto stretto viene messo il classico finanziere di Cuneo. Nel 1995, quando era ancora freschissimo il ricordo delle stragi del '92, toccò a Salvatore Nicolosi, direttore generale di una banca in odor di mafia, la Cassa rurale e artigiana di Monreale, di finire nel tritacarne, prima ancora che per i reati di cui l'accusavano (avere messo l'istituto di credito a disposizione dei boss, per ripulire il denaro sporco), per avere parlato di una “bomba nell'aula bunker”. Sicuro, sicurissimo, avevano detto gli inquirenti: risulta da un'intercettazione ambientale. Nicolosi giurava e spergiurava di non avere parlato mai di bombe e implorò di risentire quella registrazione. Il gip dell'epoca, Alfredo Montalto, mentre infuriava la polemica sui colletti bianchi stragisti, coraggiosamente fece fare la perizia. E si scoprì che il dirigente aveva parlato di mettere i “bagni (i wc, ndr) nella sala pubblico”. L'aveva detto in dialetto, ma l'investigatore che aveva fatto da trascrittore, tra pessima qualità dell'audio, rumori di fondo e “polentonità” (era un ragazzo piemontese), non l'aveva capito. Sei mesi fa l'ex presunto stragista Nicolosi, dopo un processo durato undici anni, è stato assolto pure dalle accuse di mafia e riciclaggio. Ci fosse stato uno che gli avesse chiesto scusa, perlomeno per quella frase malamente interpretata.

    Ma errori (fisiologici) a parte, le intercettazioni servono tantissimo. Da qualche parola smozzicata sentita in via Ughetti, la Dia e i pm Giuseppe Pignatone, Franco Lo Voi e Gigi Croce risalirono agli stragisti veri di Capaci. In tempi recenti, telecamere, intercettazioni telefoniche e ambientali consentirono di arrivare all'inarrivabile Bernardo Provenzano. Furono le cimici a registrare per mesi e mesi le trame di Rotolo, i misteriosi ed esecrabili intrecci del dottor Guttadauro, la cui vicenda ha indirettamente travolto il presidente della Regione Totò Cuffaro, costretto da una condanna a cinque anni (in gran parte collegata a quella vicenda) a dimettersi dall'incarico, anche se ora fa il senatore.

    Ma quando si intercetta tanto, è fatale, gli infortuni, gli incidenti, gli aneddoti si sprecano. C'era una donna, funzionario della Telecom, a coordinare i tanti allacci di linee spiate dagli spioni della privacy di mafiosi, tangentisti, semplici cittadini al di sopra di ogni sospetto e poi invece riconosciuti autori di crimini da fare accapponare la pelle. Era lei che autorizzava gli attacchi delle spine e degli spinotti in centrale e un bel giorno le recapitarono una missiva ultra riservata, di quelle che solitamente riceveva allegate ai decreti dei giudici delle indagini preliminari che autorizzano le intercettazioni. Lei lesse e per poco non svenne. Non è possibile, disse. Le venne da piangere, ma si fece forza. In fondo era pur sempre un pezzo grosso, era il suo lavoro, doveva essere pronta a tutto. Quando lo sbirro con cui era in contatto andò a trovarla, lei disse poche parole: “Io non credevo, non sapevo, non avrei mai pensato che voi…”. Non riusciva ad andare avanti, il poliziotto non capiva. “… Che voi sospettaste pure di me…”.
    Lo sbirro guardò meglio, lesse il foglio. Era successo che, nella fretta di attaccare nuove utenze da “mettere sotto”, l'agente che doveva trascrivere la linea da intercettare aveva copiato per sbaglio il numero della funzionaria donna, che in realtà serviva solo per avere un riferimento alla Telecom. Finì con le scuse e un fascio di fiori regalati dagli investigatori, ma anche con una solenne cazziata per chi aveva sbagliato. Però succede e non ci si può fare niente.

    E fino a quando è un errore, passi. Ci fu invece un funzionario della Squadra mobile che dicono lo abbia fatto apposta. Temeva di essere tradito e in un'indagine per rapina fece entrare, tra i numeri da tenere sotto controllo, quello della propria moglie e di colui che veniva sospettato di essere l'amante della donna. E' stato scoperto e, per questo e altri delicati motivi, trasferito. Uno pensa alle intercettazioni e pensa solo alle microspie e ai telefoni. E invece ci sono pure le telecamere. Nino Rotolo non si fidava, stava attento. Un altro molto guardingo era Bernardo Provenzano, sempre pronto a scannerizzare le auto e le stanze in cui entrava, grazie a diavolerie beccate dai suoi compari chissà dove, sempre super informato circa la collocazione degli apparecchi di ripresa destinati a lui e ai suoi uomini. Dicono che gliene parlasse il suo amico Michele Aiello, manager della sanità siciliana, a sua volta informato da un carabiniere spione, quel Giorgio Riolo condannato nel processo Talpe, assieme allo stesso Aiello.

    Però le telecamere, da sole, possono servire per beccare i latitanti ma non sempre bastano per ricostruire la verità. E' scientificamente provato. Sandro Lo Piccolo, ad esempio, il figlio del boss Salvatore, sembrava averla fatta franca in un processo in cui rispondeva di due omicidi (Giovanni Zinna e Leonardo Simonetti) e di un tentato omicidio (Mario Della Vedova), assassinati o feriti a Palermo tra il 1994 e il 1995. Arrestato nell'aprile del 1997, il figlio del superboss Salvatore Lo Piccolo era stato scarcerato un mese dopo da un tribunale del riesame presieduto, all'epoca, addirittura da Alfredo Morvillo, cognato di Giovanni Falcone e fratello di Francesca Morvillo, morta col marito e con tre agenti di scorta, nella strage di Capaci.

    Una telecamera, che osservava i movimenti dei mafiosi, un giorno li aveva ripresi mentre scaricavano dei pacchi voluminosi. Passò qualche altro giorno e furono commessi i due delitti. Dentro i pacchi c'erano le armi usate per uccidere, pensarono gli inquirenti. Ma il tribunale non confermò il provvedimento: era troppo poco, quel che era stato trovato a sostegno dell'accusa. E in effetti, con umiltà, gli inquirenti andarono a riguardarsi tutte le immagini, ore e ore di riprese, e videro che i mafiosi si erano accorti di essere spiati. Qualcuno, addirittura, guardando la telecamera, faceva tiè; qualche altro sorrideva e salutava. E come poteva reggere mai un'accusa, in una situazione del genere? Ci volle un'accuratissima perizia del superesperto informatico Gioacchino Genchi, per individuare contatti, percorsi, collegamenti, itinerari seguiti. E Lo Piccolo junior fu condannato all'ergastolo. Solo che per dieci anni riuscì a rimanere latitante. Fino a quando la Squadra mobile, coordinata dai pm Domenico Gozzo, Gaetano Paci e Francesco Del Bene, il pool coordinato da Morvillo, lo stesso magistrato che l'aveva (giustamente) liberato, non lo ha riarrestato, nel novembre scorso.
    Incerti del mestiere.

    Genchi stesso, ad esempio, dopo anni in cui era stato sulla cresta dell'onda, ha subito i contraccolpi dell'inchiesta Why Not, prima condotta dal pm di Catanzaro Luigi De Magistris, poi avocata dalla Procura generale della città calabra e ora oggetto di ulteriori indagini da parte dei magistrati di Salerno, che stanno ribaltando la situazione a favore di De Magistris, nel frattempo trasferito. C'era un po' di tutto, in Why Not, con telefonate compromettenti tra politici e magistrati o mogli di magistrati, tra imprenditori e giudici e politici. Con presunti contatti tra il procuratore di Catanzaro, Mariano Lombardi, e gli indagati.

    Nei famigerati tabulati di Genchi è finito pure l'ex guardasigilli Clemente Mastella e per ripicca il leader dell'Udeur è arrivato a chiamare il consulente “Licio Genchi”. Dopo l'avocazione il superesperto è stato rimosso dall'incarico con cui avrebbe dovuto elaborare i dati di traffico: incrociarli fra di loro, esaminarli, sviluppare contatti, posizioni, eventuali frequentazioni. Un lavoro mostruoso, condotto in staff, e con l'ausilio di apparecchiature del valore di centinaia di migliaia di euro. Proprio alcuni giorni fa, Genchi, in virtù della rimozione, ha dovuto restituire ai carabinieri i computer sequestrati da De Magistris e a lui affidati per esaminarli. C'erano dentro mezzo milione di file da elaborare.

    Poi ci sono le intercettazioni dei politici. Una lunga querelle interna alla Procura e poi tra Procura e Gip, a Palermo, ha portato a una conclusione: le registrazioni delle telefonate tra Silvio Berlusconi e Totò Cuffaro dovranno essere distrutte. Erano irrilevanti, aveva stabilito la Procura sotto la direzione di Piero Grasso, e infatti, pur senza che i pm Maurizio De Lucia e Michele Prestipino le avessero utilizzate, l'ex governatore ha avuto cinque anni. No, sono rilevanti, ha ribattuto la stessa Procura sotto la direzione di Francesco Messineo; non per Cuffaro, ma forse contro Berlusconi, per rivelazione di segreti. Morale della favola: il Gip ha detto che le retromarce non sono consentite e ha ordinato la distruzione delle conversazioni.

    Nessuno ha messo in dubbio invece che dovessero essere distrutti i dialoghi tra gli altri politici e Cuffaro: Casini, Schifani, Miccichè e tanti, tantissimi altri. Eppure erano pieni di spunti giornalisticamente gustosissimi. Però la Costituzione e la legge lo vietano e dunque non si possono ascoltare. Anche se è venuto fuori, in un'altra indagine, che l'avvocato ed ex senatore di Forza Italia Giancarlo Pittelli, parlando col cugino Benedetto Arcuri, intercettato, imprenditore e amico del governatore calabrese Agazio Loiero, si sfogava per non essere stato nominato ministro nel Berlusconi ter, nel 2005. Pittelli si era visto fregare il posto da un rivale di partito: “Con lui il governo tira… Come se non tira!”, gridava al telefono. Alludendo a chissà cosa. E' vero. Come dice Gioacchino Genchi, l'unico telefono che non si intercetta è quello guasto. Lo sa bene quel mafioso che pativa rumori di fondo, fruscii, interferenze e non parlava manco morto perché temeva di essere “sotto”. Ma il guasto era vero, non provocato dalle intercettazioni. E allora i carabinieri si premurarono di far riparare l'apparecchio. Quando quello sentì perfettamente, cominciò a parlare alla grande. Tre mesi dopo era in galera, con mezzo codice penale addosso. E chissà se ora farà come quel rapinatore che, incastrato più volte dai cellulari, giurò di non usare mai più un telefono. E quando, dopo l'ennesima rapina di cui fu sospettato, la polizia andò a perquisirgli la casa, lui portò gli investigatori nel bagno e fece vedere che aveva tagliato il tubo della doccia, perché, spiegò, lo ossessionava il fatto che somigliasse tanto alla cornetta di un telefono.

    Insomma, di chi era il cellulare intercettato per errore, di cui abbiamo parlato all'inizio? Era del procuratore aggiunto di Palermo Roberto Scarpinato. Il pubblico ministero del processo Andreotti, che magari avrebbe potuto legittimamente pensare di essere ascoltato, durante gli undici anni complessivi dell'inchiesta e del successivo giudizio contro “Il Divo”, dai Servizi segreti di mezzo mondo, fu intercettato perché il sospettato aveva un numero simile al suo e nel digitare in centrale c'era stato il classico lapsus manus. L'imbarazzo fu tale che nessuno osò dirgli nulla né scusarsi, tanto “non era successo niente”.

    Del resto, molto più modestamente, accadde anche all'autore di questo articolo. Chissà quante volte, ma in qualche occasione gli atti furono depositati e resi pubblici. Scrissero in una relazione, gli agenti della Digos, che il modesto cronista aveva concordato con un politico il contenuto di un articolo. La telefonata in sé non lasciava adito a dubbio alcuno: il cronista chiedeva al politico (Turi Lombardo, ex assessore regionale del Psi) la sua versione dei fatti su un'indagine e quello rispondeva. Però ce n'era un'altra, chiosava la Digos, che dimostrava che i due erano molto amici e dunque quell'interloquire non era un normale lavoro da giornalista, ma un “concordare”. E in effetti, in quell'altra telefonata i due interlocutori mostravano enorme familiarità: ridevano dall'inizio alla fine, sfottendosi reciprocamente, dicevano parolacce a raffica... Solo che bastava guardare i numeri chiamati, per capire che erano diversi. E sarebbe bastato ascoltare le voci dei due giornalisti, per capire che erano di due persone diverse. Ma qualche volta capita anche a te e dopo avere tanto mascariato la gente, devi accettare che altri, per incompetenza, approssimazione, fretta, imbrattino anche te. Come insegna qualche collega molto più eccellente, che dicono stia friggendo perché, dopo avere tanto fustigato i costumi altrui, non riuscirebbe a trovare le ricevute del pagamento di un soggiorno in un albergo di Altavilla Milicia, provincia di Palermo.

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