La storia del Pci torna in superficie. Un tesoro che l'ex tesoriere vuol trasformare in museo

I sotterranei del bottegone

Stefano Di Michele

"E il servizio da caffè di Togliatti, dove è stato messo il servizio da caffè di Togliatti?”. E' un servizio elegante, molto elegante, a dire il vero: porcellana bianca Richard-Ginori, con delicati profili color oro, roba da salotto parecchio borghese. “Quello bisogna metterlo nella vetrinetta, attenti...”.

    "E il servizio da caffè di Togliatti, dove è stato messo il servizio da caffè di Togliatti?”. E' un servizio elegante, molto elegante, a dire il vero: porcellana bianca Richard-Ginori, con delicati profili color oro, roba da salotto parecchio borghese. “Quello bisogna metterlo nella vetrinetta, attenti...”. E' stato per decenni nella scuola politica delle Frattocchie, il pregevole manufatto. Lì trasportato nel Dopoguerra dal mitico segretario comunista, è rimasto a disposizione di tutti i suoi successori, che in quelle tazzine versavano il caffè agli illustri ospiti, ai compagni dei partiti fratelli, ai più noti intellettuali che alle Frattocchie venivano in visita. E forse non sarà nemmeno l'unico servizio da caffè che onorerà in qualche modo – tra breve o in tempi più lunghi – la memoria di quello che fu il Pci. “A me sembra di ricordare – dice Miriam Mafai, che ai riti e ai ricordi del mondo comunista ha dedicato il documentatissimo “Botteghe Oscure addio” – che certi servizi di porcellana dall'Ungheria arrivavano in dono anche per il compleanno di Togliatti”. Adesso che pure il lungo interregno – quello successivo al Pci, nel pugno d'anni che corre dal Pds ai Ds – giunge al termine, e che i conti si fanno davvero definitivi, è dunque tempo di bilanci: non solo di soldi, ma di memoria; non solo di solidi immobili, ma anche di più fragili rimembranze. Adempiute tutte le possibili evoluzioni che c'erano da fare alla luce del sole, in superficie, è il momento dei sotterranei, dell'aspetto più interno, ormai a volte ignoto agli stessi protagonisti della vicenda – di una storia che pareva addirittura senza fine.

    Botteghe Oscure non esiste più. Come storia comunista o ex comunista, naturalmente. Di tanto mito politico e in tanta cubatura edilizia, due cose sopravvivono: il grande ingresso, con la stella e la bandiera della Comune di Parigi di Giò Pomodoro, e il busto di Gramsci. La prima è quella originale, “non potevamo spostarla da lì, sono diverse tonnellate di marmo bianco”, raccontano; il secondo è una copia, “l'originale l'abbiamo qui al partito”. Che poi, a voler raccontare come “i sotterranei di Botteghe Oscure” – quando Botteghe Oscure, per dirla con il Corriere, si mutò prima in “un headquarter del capitalismo”, in attesa di trasformarsi in redazione del Riformista – si rischia di sbagliare i termini. Sotterranei metaforici, più che altro: stanze che si avvitano e si sperdono nell'irrazionale sede di via Nazionale e depositi dalle parti della via Appia. E del resto, a via Nazionale non avrebbero neanche saputo dove metterlo l'atrio di Giò Pomodoro, non avendo mai avuto – questa sede che pareva politicamente precaria già il giorno prima dell'inaugurazione – neppure un atrio, cosa che lo scultore di persona fece notare a inizio millennio,  quando si trovò a passare di lì: “Non va per niente bene. Manca l'ingresso, si entra direttamente nei corridoi. E un partito, anche nel Duemila deve avere un atrio, è il suo biglietto da visita con i cittadini, con i militanti”. Insomma, se non c'è atrio figurarsi sotterranei, o sgabuzzini, o cantine condominiali.

    Corridoi e stanze, invece, dappertutto e per tutto – la maggior parte delle quali, ora, deserte. Al primo piano c'è una stanza dove l'aria è gelida, e dove con garbato disordine sono ammucchiati quadri e bottiglie di vino, antiche bandiere e persino un veliero (in miniatura, s'intende). In miniatura, ma sempre di una certa consistenza. Sta in bilico su degli scatoloni, circondato da tele gigantesche. “Quello lo ha lasciato qui Massimo D'Alema”, e perciò, con opportuna saggezza, pure la nave prenderà la strada del museo.
    Del museo che verrà, si capisce, quando verrà. Il museo è tutto nella testa, e nel cuore – e a parlarne il baffo bianco freme per un principio di commozione – di Ugo Sposetti, il tesoriere dei Ds. Anche il suo ufficio, ormai, è una sorta di ripostiglio, dove accanto a gadget di ogni tipo – dalle vignette ai cd ai discorsi parlamentari di Gianni Cuperlo, che non avendo mai potuto pronunciare un discorso in Parlamento, ha raccolto sotto apposita e autorevole copertina un block notes completamente bianco – spunta lì un busto di Togliatti – onestamente, dalla fattura non proprio memorabile – lassù in alto una capoccia di Lenin, e piegata sul tavolino un'antica bandiera – di quelle belle rosse cucite a mano, con falce e martello gialli pazientemente ricamate.

    E soprattutto, uno dei più stupefacenti ritrovamenti: un quadro di Renato Guttuso, un grande ritratto di Lenin, che da decenni si trovava a Bergamo. Un quadro che è andato e tornato, questo qui. Negli anni Cinquanta, fu proprio la direzione nazionale a inviarlo in dono ai compagni della federazione comunista della città lombarda, che si erano particolarmente distinti nella campagna per “il mese della stampa comunista”, mese che poi, tra una cosa e l'altra, andava avanti per almeno tre. Comunque, i bergamaschi quella volta primeggiarono, e il vertice nazionale ricompensò lo sforzo con la pregevole opera del compagno Guttuso. Che lì è rimasta, finché Sposetti non è andato di persona – con tanto di cerimonia, bicchierata tra compagni, discorsi e commozione – a riprenderlo per riportarlo a casa. A casa, poi: capirai, Lenin era partito da Botteghe Oscure e al ritorno si è ritrovato a via Nazionale, e per il futuro non si sa. Ma intanto è qui, e da sopra un mobiletto, e da sotto l'autorevolezza del pizzo, scruta il baffo sposettiano. E' andato a riprenderlo con il ragazzo che cura il sito on line dei Ds, Federico Mercuri, che ha immortalato l'evento, lì al circolino della Malpensata, detto nella bianca Bergamo, “la piccola Russia”, che manco il prete s'azzardava ad avvicinarsi per benedire, e adesso su un muro hanno fatto un murales, nientemeno di partigiani che lanciano un drago contro fascisti e nazisti. Come quello che decenni fa fece Ennio Calabria nella sezione di San Lorenzo, a Roma, ora oggettivamente piuttosto difficile da spostare.

    Quello di Ugo è un vero e proprio tour tra sezioni e federazioni, case di compagni e case del popolo. Cataloga, annota, ammucchia, seleziona, custodisce. “Tu hai delle vecchie tessere degli anni Quaranta? Se me le dai, verranno messe in mostra con sotto il tuo nome: offerte alla Fondazione dal compagno...”. Un tesoriere del partito deve chiedere in giro soldi e soldi e soldi – e qualche esegeta del prodismo contestò a suo tempo a Sposetti di parlare con i banchieri, e lui feroce domandò: “E con chi deve andare a parlare, un tesoriere, con quelli sotto i ponti?”, senza peraltro avere risposta; Sposetti ora che i Ds non ci sono più e il compito di foraggiare il Piddì spetta fortunatamente ad altri, va in giro a chiedere carte e quadri e busti e tessere. Gli piacerebbe tanto un museo, a Sposetti, un apposito museo dove far confluire tutta questa roba, e intanto accarezza il desiderio di un apposito catalogo.

    “Sogno di mettere insieme l'Istituto Gramsci e la Fondazione madre, che conterrà anche il simbolo del partito, il logo, e che custodirà le tombe dei dirigenti al Verano: tutto in un palazzo, con al piano terra il museo... Per fare tutto questo ci vogliono soldi, ci vuole un palazzo” – e per inciso, al Verano ci sono ancora sei loculi liberi, ma difficilmente verranno occupati... Ecco, e il museo avrà le opere d'arte, come vedremo, le curiosità tra la storia e il modernariato, il kitsch e il sentimento, le testimonianze e le curiosità. Avrà (avrebbe), questo museo, le tele di Guttuso e le pipe di Bruno Trentin, certi doni arrivati a suo tempo dai partiti fratelli – realismo socialista su tela, gigantesche falci e giganteschi martelli, terrificanti riproduzioni di monumenti in miniatura, inquietante pratica che molto affascinava i comunisti d'Oltrecortina in visita apostolica ai compagni italiani – e chissà, quel pezzo fantastico di cui ogni tanto qualcuno parla: la parte del muso di un B-52 americano abbattuto a suo tempo in Vietnam dai compagni vietcong, e portato in dono a Botteghe Oscure negli anni di Luigi Longo. “Boh, di questo non so niente...”, giura Sposetti. Eppure se ne parla, di quel pezzo di B-52, e sarebbe centrale nell'operazione museale. “Leggende metropolitane...”, dicono a via Nazionale. E sostanzialmente internazionaliste, verrebbe facile da dire.
    Ma lo stesso, se non c'è l'aereo yankee abbattutto – con la possibilità di sollevare un certo giustificato entusiasmo tra i futuri visitatori – molte cose ci saranno nel museo futuro di Sposetti.

    Per esempio, un inedito disegno di Guttuso, una prova d'autore del 1979, che rappresenta il delitto Moro. Si vede l'esponente democristiano di profilo, il volto dolente e stupito mentre gli puntano contro una rivoltella; più oltre, verso il bordo dell'opera, il ghigno degli assassini brigatisti. Un disegno che ha girato tra la sezione di via dei Giubbonari e la sezione Monti, “come pagamento di certe quote per il tesseramento”. Ha messo al lavoro i cento e passa tesorie diessini della penisola, Sposetti, in una corsa contro il tempo a salvare il salvabile. Non solo le opere d'arte, ma il materiale non meno prezioso ma comunque più a rischio: milioni di verbali di riunioni di sezione (un tempo, ogni riunione prevedeva apposito verbale), le tessere, i manifesti, i bozzetti, i vessilli, le iniziative grafiche. “Non dovete buttare neppure un volantino, la nostra storia è anche lì”, va in giro a ripetere Sposetti. Che a volte torna alla base con un capolavoro artistico, a volte con materiale cartaceo scampato per fortuna ai decenni e alle muffe. “Sto tenendo sulla corda i tesorieri, in questa fase di passaggio può succedere di tutto”.

    A organizzare con un certo medoto la questione ha pensato Linda Giuva, docente associata di archivistica generale e moglie di D'Alema. Centinaia e centinaia di casse, tutte della stessa millimetrica grandezza, “scatole di misura agevole per la movimentazione e la collocazione” vagano tra sezioni e direzione, di stanza in stanza, di camion in camion, di archivio in archivio. Il sistema delle Fondazioni, messo in piedi da Sposetti, dovrebbe garantire la salvezza di quasi tutto. Il patrimonio artistico, per cominciare – oltre quello dei 2.400 beni immobili calcolati dal Sole 24 Ore, ché non si scherza con la mobilia. C'è un lungo elenco sulla scrivania di Sposetti: quello delle opere d'arte che sono rimaste al partito, 410 pezzi tra dipinti e grafica. Ovviamente, non tutti capolavori. E non tutti di gran valore, a dire il vero. Oltre a quelli di Guttuso, a cominciare dal famosissimo funerale di Togliatti, ci sono quadri di Carla Accardi e Piero Dorazio e Mario Schifano e Alberto Sughi, Enotrio e Calabria, un disegno acquarellato di Bruno Munari, qualcosa di Ugo Attardi, forse dei dipinti di Dario Fo a Catania, “ma soprattutto artisti dilettanti (oltre l'80 per cento) dal linguaggio classico tradizionale; nel suo insieme, però, costituisce un interessante spaccato di cultura visiva del secondo Dopoguerra”, sempre secondo un'analisi del quotidiano di Confindustria. Scrive Repubblica: “Il risultato è che tra Botteghino, magazzini, gallerie e ora, forse, anche sezioni, i Ds dispongono di un notevole patrimonio artistico (dieci anni or sono valutato intorno ai dieci miliardi di vecchie lire)”.

    Nella stanza piena di freddo, dove si trova la barca di D'Alema (quella in miniatura), l'opera più famosa è appoggiata alla parete di fondo. Due metri per due. E' il quadro “I compagni” di Schifano: fu comperato da Gian Maria Volontè, militante oltre che magnifico attore, che lo donò poi alla sezione comunista di Trastevere: l'opera, in tutti questi anni, è sfuggita tanto a un allagamento come a un attentato incendiario nei primi anni Settanta. Adesso è qui, quasi simbolo nella nascente pinacoteca post comunista. Attorno, altre tele di notevole dimensione. “La leggenda di Giorgio Amendola”, su un lato. Sull'altro, in gruppo, i Gramsci, i Togliatti, i Berlinguer. C'è in magazzino anche la scrivania di Togliatti segretario del Pci, che avrà la massima attenzione. C'è quella di Giancarlo Pajetta. Persino le targhe d'ottone della vecchia sede sono qui ammassate. Il vecchio simbolo con la falce e il martello, innumerevoli piastrelle in ceramica di Faenza, che era al piano nobile di Botteghe Oscure, giace smontato e da ricomporre. Si rintracciano busti di Marx e di Engels, si fatica di più a recuperare in giro quelli di Lenin – forse, una singolare classifica di gradimento. Neanche di Togliatti, a parte quello nella stanza di Sposetti, ne girano molti. Ricorda con un sorriso Miriam Mafai: “In occasione di un compleanno di Togliatti, mia madre Antonietta Raphael, che era una scultrice, fu incaricata di fargli un ritratto. Per  la verità, lui era riluttante e anche mia madre lo era. Nessuno aveva entusiasmo. Alla fine quella scultura rimase a casa nostra, non fu mai presentata come ritratto di Togliatti ma con  un altro nome: l'Oratore. A dirla tutta, quando ci fu una certa spartizione delle cose in famiglia, quel busto nessuno lo voleva...”. Magari si farà adesso sotto Sposetti: un busto di Togliatti, mai noto come busto di Togliatti, è un'oggettiva tentazione.

    Ciò che era nei sotterranei, mentre la ruota della storia ex comunista compie il suo giro definitivo, ora sale a galla – e forse ciò che era sopra è destinato a un po' di ombra. Nel palazzo di via Nazionale, molte stanze stanno per essere sgomberate, buona parte della struttura sarà riconsegnata a Caltagirone. Poche persone si aggirano in un dedalo estenuante di scale e scalette, corridoi e stanzette. Nella sala intitolata a Willy Brandt, c'è ancora un quadro di Sughi con le bandiere rosse. Anche quelli che furono gli uffici di Piero Fassino sono in fase di smantellamento. C'è un tapiro (quello di Striscia, niente di museale) abbandonato su una mensola, e c'è – e qui il dubbio sposettiano avrà il suo da fare  – tanto una scultura di Fassino in legno d'ulivo a corpo intero, tanto una testa dove la magrezza dell'ex segretario ha una sua innegabile inquietudine. Al museo, dunque, pure i ritratti lignei dell'ultimo segretario?
    Ci sarà da fare con le bandiere. Quella più gloriosa del glorioso Pci, la prima, quella del Congresso del '21, è sempre rimasta appesa nell'ufficio del segretario comunista livornese. Mai mossa da lì. Sposetti, da tempo si aggira per la città toscana, osservando quel fondamentale drappo. “Glielo dico sempre al segretario di Livorno: vengo lì e mi prendo la bandiera. E lui: no, Spose', quella mai... Vedremo...”. O con la bandiera siciliana sporca del sangue degli ammazzati a Portella della Ginestra.

    E invece, chissà se verrà tratta in salvo, per dire, pure l'opera omnia di Stalin, edizioni Rinascita, che l'Unità ha intravisto sempre lì a San Lorenzo. In una sala, dopo un giro vertiginoso di scale, ci sono i vecchi manifesti – uno con Totò contro Almirante sindaco di Napoli: “Ma mi faccia il piacere!”. Gli originali del “Premio a prestito per la vittoria della democrazia” nel Dopoguerra – in certe sezioni ce ne sono firmati da Togliatti – contributi da cento a cinquecento lire. Sotto una pesante teca di vetro, la bandiera della garibaldina “Centuria italiana Gastone Sozzi” in Spagna. Lo slogan, ricamato a mano, al centro: “Piuttosto che cedere, morire!”. Ma la meraviglia, per un collezionista non meno che per un nostalgico, è sul muro lì davanti. Un vecchio dagherrotipo sovietico, “una foto su metallo”, che vede radunati insieme i più famosi cosmonauti sovietici che negli anni Sessanta andavano alla conquista dello spazio, eroi di ogni sezione della penisola. Con gli autografi originali di tutti, da Valentina Tereskova a Jurij Gagarin.

    Qualche piano sotto, Sposetti sbuffa e suda e ride. Questa idea un po' pazzoide, forse, di mettere tutta una storia altrove... “Quelle persone che questa storia l'hanno fatta, lavorando per le feste e il partito, se lo meritano. Milioni di brave persone che hanno fatto politica senza insultare il capo dello stato, ascoltando anche con rispetto l'avversario. Apriamo una storia nuova, ma non c'è nessun motivo e nessuna ragione per maltrattare la loro, di storia...”. Un sospiro, un tocco ai baffi: “Oh, compagni, mi raccomando: attenzione al servizio da caffè di Togliatti....”.