“Anche tra i cattolici c'è la tentazione di vedere la religione come un fatto privato”
Camillo l'apologeta. L'intervista integrale
A pochi giorni dalla fine del suo mandato come vicario di Roma, abbiamo chiesto al cardinale Camillo Ruini un bilancio suo e del cammino della chiesa in questi ultimi anni.
A pochi giorni dalla fine del suo mandato come vicario di Roma, abbiamo chiesto al cardinale Camillo Ruini un bilancio suo e del cammino della chiesa in questi ultimi anni. “Con il pontificato di Giovanni Paolo II c'è stato il tentativo di uscire dal paradigma della secolarizzazione, quel grande fenomeno avvolgente e inclusivo dentro il quale anche la chiesa, volente o nolente, dovrebbe collocarsi. In questo senso si tratterebbe di un fenomeno ineludibile destinato a governare anche il futuro. A questo paradigma Giovanni Paolo II non credeva. Certo, la secolarizzazione è un fenomeno importante, ma non tale da essere la chiave di accesso al futuro, e tantomeno qualcosa a cui la chiesa debba adeguarsi. La chiesa è anzi chiamata a reagire tramite l'evangelizzazione che nei paesi europei, più o meno scristianizzati, si traduce in una nuova evangelizzazione. E' vero però che la secolarizzazione non ha perso del tutto la sua efficacia, continuando a influenzare la società e la chiesa stessa. Questo è il nodo di fondo del pontificato di Giovanni Paolo II, e di quello attuale. In questi ultimi anni abbiamo assistito alla fine dell'utopia politica, cioè della pretesa di trovare nella politica la soluzione ai più profondi problemi dell'uomo. Oggi prevale la cultura dei diritti individuali, mentre lo sviluppo delle scienze e delle tecnologie applicate all'uomo amplifica di molto gli obiettivi raggiungibili”. Pare una critica alla cultura liberale. “Non mi riferisco al liberalismo classico ma alla cultura dei nuovi diritti che vengono continuamente rivendicati e che all'epoca erano impensabili. Il nostro, semmai, è il tempo del relativismo, dove il desiderio spazia in campi che prima gli erano preclusi. In questo senso siamo di fronte a una nuova fase del cammino umano”. Eppure anche molti teologi e pensatori cristiani hanno inteso la secolarizzazione (il progetto di una società senza Dio) come una sfida inedita nella storia dell'umanità, un punto di non ritorno. “E' vero, e tuttavia assistiamo a un macrofenomeno di grande evidenza, la ripresa del rilievo pubblico delle religioni. Basti pensare al ruolo dell'islam. Le religioni forniscono inoltre delle risposte alle domande di fondo, alle quali non hanno saputo rispondere le ideologie. Per il loro statuto epistemologico, le scienze non hanno questo obiettivo, mentre la cultura dei diritti individuali alla fine evade dalle questioni fondamentali oppure dà risposte ristrette e assolutamente insoddisfacenti. In questo contesto si colloca il rinnovato impegno missionario della chiesa. Nello stesso tempo, il paradigma della secolarizzazione continua a operare anche all'interno della chiesa; è una minaccia interna di cui recentemente hanno parlato il Papa e i vescovi spagnoli. Succede quando la chiesa si mondanizza, cioè pensa che i suoi problemi possano essere risolti mutuando i paradigmi della società, mentre si affievolisce la fede nella presenza salvifica di Dio nella storia; certo non la si nega a livello teorico, ma nell'azione pastorale si mette meno al centro Gesù Cristo”. Così la chiesa finisce per assomigliare a un'agenzia di servizi. “Oppure si burocratizza, perde slancio, e lo stesso personale ecclesiastico rischia di pensare più alle proprie sicurezze di vita che all'apostolato. Accanto a questo, tuttavia, c'è la giusta preoccupazione di non ricadere in una posizione soltanto difensiva, polemica nei confronti del mondo. Il grande passo in avanti del Concilio Vaticano II è stato proprio il superamento della chiusura nei confronti della modernità, ed è un passo avanti irrinunciabile”.
A questo proposito, un teologo di vaglia come Giuseppe Angelini (“Il Regno attualità” 10, 2008) ha criticato lo schema del conflitto di interpretazioni e di conseguenza la “stucchevole querelle tra progressisti e conservatori”. “Angelini dice cose interessanti ma io ritengo che la diagnosi di Papa Benedetto, che già era di Paolo VI e Giovanni Paolo II, resti valida. In effetti si sono date due letture del concilio, quella della continuità e della riforma e quella della rottura e della discontinuità. E chi ha sposato l'ermeneutica della rottura non l'ha fatto soltanto – per usare un termine di Hans Küng – circa le strutture della chiesa: rapporti tra primato ed episcopato, celibato dei sacerdoti ecc. Ma è giunto a rompere la stessa forma cattolica, a mettere in questione le verità centrali della fede, come dico nel mio ultimo libro riprendendo una lezione del teologo e cardinale tedesco Leo Scheffczyck. E' stata una minaccia gravissima a cui si è dovuto reagire, non si può dunque liquidare la questione parlando di malinteso. E' una crisi di cui portiamo ancora le conseguenze, una tentazione costante del cattolicesimo contemporaneo, che comparve per la prima volta con il modernismo. Certo, alcune istanze moderniste vennero recepite dal concilio e sarebbe stato meglio operare un discernimento più tempestivo, ma da quel momento la sfida è stata posta alle radici”.
Accanto alla sfida, c'è da valutare il ritorno del sacro. “Il risveglio del fatto religioso e, da noi, la ripresa dell'interesse verso la religione cristiana non deve essere giocato semplicemente in antitesi alla cultura del nostro tempo ma, per citare Benedetto XVI, va letto dentro il grande sì che Dio ha detto all'uomo in Gesù Cristo; solo all'interno di questo grande sì anche gli inevitabili no acquistano la loro piena legittimità e il loro giusto significato. Naturalmente tutto questo è facile dirlo in termini generali, molto più difficile è attuarlo nel concreto. Occorre un discernimento culturale, teologico e pastorale, possibilmente in tempi meno lunghi di quelli che ci sono voluti per decifrare l'illuminismo e le sue diverse incarnazioni storiche, la sua anima francese e quella anglosassone”. Insomma, la chiesa deve mostrare più prontezza e non rifugiarsi nell'apologetica. “Bisogna intendersi sul significato di apologia. L'apologia è un genere classico fin dagli albori del cristianesimo, ai Padri apostolici succedettero i Padri apologeti. Agostino fu un grande apologeta, lo stesso dicasi di Tommaso che scrisse la Summa contra gentiles; anche Newman fu un grande apologeta. In effetti, nel confronto tra fede e modernità bisogna difendersi dagli attacchi radicali che vengono portati alle fondamenta del cristianesimo. Quando si dice che Dio non c'è o comunque non è conoscibile, o quando si riduce l'uomo alla materia, non può non esserci una forte risposta apologetica. C'è poi un altro significato del termine, quello che identifica l'apologetica con un atteggiamento chiuso, che vede solo gli aspetti negativi e si limita a un combattimento difensivo, senza avanzare proposte. Il cristianesimo ha invece una vitalità storico-culturale che gli permette di fare proposte che tengano conto dei problemi nuovi e che offrano delle soluzioni positive”.
Lei stesso, in un'intervista all'Espresso di qualche tempo fa, aveva indicato dei percorsi di ricerca nuovi per la riflessione credente, una volta abbandonata la stagione della manualistica, e a questo proposito citava “Il Dio affidabile” di Pierangelo Sequeri. Oggi, però, la teologia è generalmente ignorata, oppure entra in cortocircuito con il magistero. D'altronde tra la risonanza delle parole dei vescovi e quella dei teologi non c'è partita. “Ho insegnato teologia per anni prima di diventare vescovo. Adesso ho una certa risonanza sui mezzi di comunicazione e i miei libri vengono pubblicati volentieri. Quando ero più giovane, già scrivevo cose simili a quelle che scrivo oggi ma non c'erano editori che facevano la fila. Forse perché i tempi non erano maturi, ma soprattutto perché ero un piccolo teologo di periferia. In un certo senso, però, questa situazione è fisiologica. Nella società della comunicazione ha più peso la parola di chi occupa una posizione più elevata. Vale per la politica, l'economia, il giornalismo. E pure per la chiesa. E' normale dunque che il Papa e i vescovi siano gli interlocutori privilegiati dell'opinione pubblica”. Si va verso una personalizzazione. “Non è tanto questo, ma il peso del ruolo istituzionale”. Resta il fatto che a volte ci sono teologi che sfondano: è il caso di Vito Mancuso con il suo best seller “L'anima e il suo destino”. “Questo è l'altro aspetto del discorso. Il successo dell'ultimo libro di Mancuso – molto più che dei precedenti – è purtroppo nella sostanza, al di là delle intenzioni di Mancuso, un caso di rottura della forma cattolica. Affronta però un problema che la gente sente come importante e vicino. Se molti teologi affrontassero questi temi fondamentali non solo in termini tecnico-specialistici, ma cercando di dare risposte ai grandi interrogativi che la gente porta dentro di sé, acquisterebbero peso presso l'opinione pubblica. Non è fondata infatti la teoria secondo la quale la sovraesposizione mediatica del Papa e dei vescovi sia la causa del silenzio dei teologi o dei laici cattolici”. Una lettura un po' semplicistica. “Tant'è vero che, quando per un qualsiasi motivo la voce del magistero è meno incalzante, non per questo crescono le altre voci, anzi, si assiste a un ammutolimento complessivo. L'importante è che i teologi prendano posizione, a differenza di Mancuso, dentro la fede viva della chiesa. Come affermava Karl Rahner e prima ancora Tommaso d'Aquino, non è affatto vero che l'adesione di fede al dogma della verità rivelata tarpi le ali al pensiero: gli dà degli indirizzi precisi ma al contempo lo spinge in avanti”. Questo è un altro stereotipo inossidabile della comunicazione: il dogma come gabbia intellettuale, sinonimo di rigidità e impoverimento. “Invece stimola quanto mai a pensare. Dogma purtroppo è una parola gravata da molti pregiudizi. In ogni caso, la pretesa di verità del cristianesimo è ineliminabile dal cristianesimo stesso – una rivendicazione che accomuna d'altronde le religioni che si ritengono rivelate. Nel più antico scritto cristiano, la prima lettera ai Tessalonicesi, Paolo elogia i cristiani di quella città ‘perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l'avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio'”.
Questa pretesa di verità, tuttavia, non sempre risuona a chiare lettere nella predicazione. A volte sembra prevalere una prudenziale attitudine al dialogo, alla presa di posizione misurata, anche di fronte a casi emblematici come quello di Eluana Englaro. Molto miele e poco sale, insomma. “Nel cristianesimo ci sono due aspetti entrambi fondamentali. Si ritrovano nella prima lettera di Pietro, al capitolo terzo: ‘Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi, tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto'. Anzitutto, quindi, la testimonianza cristiana non può ridursi al dialogo né essere condizionata nei suoi contenuti dal consenso. Al riguardo le affermazioni più categoriche si trovano nel Nuovo Testamento. Alla fine del vangelo di Marco Gesù risorto dice: ‘Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato'. Purtroppo tra i credenti, e a volte nel clero stesso, manca la consapevolezza della forza decisiva della parola di Dio. La chiesa non può cambiare certe posizioni proprio perché ritiene che siano espressione di quella verità che non le appartiene e da cui essa stessa viene giudicata. D'altra parte, è altrettanto fondamentale l'istanza di carità. Al di fuori di un'ottica cristiana questo è più difficile da intendere. Il cristianesimo dice di amare i nemici e così mostra di non essere un'ideologia, che invece contrappone sempre amico e nemico. Il cristiano vuole sempre proporre la verità con carità”.
Il compito è quello di rieducarsi al cristianesimo, per usare il titolo del suo ultimo libro. “Fino a cinquant'anni fa dominava la polemica, poi con il concilio il dialogo è diventato una parola d'ordine, con la speranza – purtroppo rivelatasi infondata – che assumendo un atteggiamento positivo e aperto le difficoltà venissero meno. Le cose sono andate un po' diversamente. Oggi ci sono le contestazioni ma soprattutto c'è una critica radicale del cristianesimo”. Sarebbe interessante capire dove nasce. “E' un filone culturale con molti rappresentanti: persone, istituzioni, cattedre universitarie, testate giornalistiche. Più in profondità, si tratta di un fenomeno pervasivo che affonda le sue radici nell'illuminismo e si sviluppa con il nichilismo relativista di Nietzsche. A questo si aggiunge la leadership culturale che hanno oggi gli uomini di scienza. Sarebbe gravissimo se la chiesa riprendesse un atteggiamento che possa apparire di contestazione della scienza come tale, ma non si può negare che certe interpretazioni globali della realtà, proposte come se fossero scientifiche, siano assai discutibili. Si costruisce così una nuova Weltanschauung”. E' questo il tema del suo confronto con Aldo Schiavone (sabato 12 luglio lo storico ha scritto un articolo su Repubblica al quale il cardinale ha risposto l'indomani su Avvenire). “Schiavone rivendica la necessità di un'etica forte, cosa che condivido, dal momento che l'umanità si trova a dover guidare se stessa in una fase in cui ha delle potenzialità inedite, capaci di modificarla dalle fondamenta”. Schiavone però mescola l'etica forte con la chiesa del dialogo (“più profetismo e meno dogmatica”, sentenzia, come se i profeti fossero gli uomini del dialogo e non piuttosto della testimonianza). “Forse c'è anche questo, ma il nodo di fondo è che si tratta di un'etica naturalistica o storicistica, incapace di salvaguardare il valore irriducibile della persona”.
Eppure la chiesa viene spesso descritta come l'ultimo baluardo della legge naturale. “Bisogna intendersi sulle parole. Il fondamento dell'etica è la realtà dell'uomo: è questo il senso della tanto discussa legge naturale. L'uomo è soltanto una costruzione autonoma della sua libertà, come pensava Sartre, o invece la libertà stessa è anzitutto una ‘natura', come diceva Tommaso, cioè una struttura intelligibile che è data prima delle nostre libere scelte?”. Quindi la sfida di Nietzsche è ancora la più radicale. “Nietzsche è stato molto preveggente. Ha visto il nesso tra la morte di Dio, idea che in realtà non ha avuto per primo, e la trasvalutazione di tutti i valori, con il tramonto della formula di Grozio: etsi Deus non daretur. Il Ventesimo secolo ha dato ragione a Nietzsche. Anche il postulato del superuomo, che egli non riuscì a concretizzare, oggi c'è chi pensa di realizzarlo con le tecnoscienze. Così l'evoluzione non è più un fatto della natura ma della tecnica. L'uomo prende in mano il suo destino e va oltre se stesso”.
Proprio per rispondere a queste sfide epocali lei in questi anni ha sopportato le accuse di interventismo pronunciandosi su temi caldi dell'agenda pubblica (referendum sulla legge 40, caso Welby, aborto). “Queste accuse ci sono state e continueranno ad esserci, come continueranno ad esserci questi problemi”. Ruini dice di aver letto “con interesse” l'articolo di fondo di Pierluigi Battista sul Corriere della Sera di sabato scorso, in cui si sostiene che le questioni bioetiche siano inopinatamente sparite dall'agenda politica, ma secondo lui “questi problemi, anche se adesso non sono al centro degli interessi dell'opinione pubblica, restano e riemergeranno. Anzitutto a causa delle trasformazioni del costume, per cui si tende a tradurre in diritto ogni desiderio, e poi per il continuo sviluppo delle biotecnologie. Sono problemi di etica pubblica di fronte ai quali i credenti cercano di argomentare le posizioni che ritengono giuste e anche di farle prevalere nel libero gioco democratico, non semplicemente di dire qualcosa per salvarsi l'anima”. Sarebbe più deleteria l'irrilevanza. “Il punto non è tanto ciò che è pericoloso per la chiesa, ma ciò che è bene per l'uomo, come disse Benedetto XVI nel suo primo discorso all'assemblea della Conferenza episcopale italiana”.
Uno sguardo laico, in fondo. “Laicità è un concetto che va ripensato. Tradizionalmente veniva giocato nel rapporto stato-chiesa, con la distinzione delle rispettive competenze e la reciproca autonomia, ma in un contesto condiviso, quello dell'etsi Deus non daretur, cioè con una piattaforma comune di valori. Oggi questo quadro è cambiato, le questioni antropologiche hanno fatto irruzione anche nell'ambito politico, obbligando la chiesa ad esprimersi. Giudicare queste prese di posizione della chiesa in base al vecchio schema è anacronistico. La laicità sana e positiva non può prescindere dai contenuti etici. Non è stata la chiesa a gettare nell'agone pubblico tali questioni, esse sono nate dall'evoluzione storica. L'etica come fatto soltanto privato, caposaldo del pensiero ottocentesco, non è più proponibile”.
Però chi alle ultime elezioni si è presentato con una lista scopo, con un forte richiamo etico a un tema cruciale come l'aborto, è andato incontro a un “glorioso fallimento” per usare le parole del suo promotore. “Ho molta stima e amicizia per Giuliano Ferrara. In effetti questi temi non sono in testa alle preoccupazioni degli italiani, ma stanno crescendo di interesse e anche di drammaticità. La nuova questione antropologica diventerà nei prossimi decenni il tema forse più importante dell'agenda pubblica. Bisogna inoltre stare molto attenti al rapporto mezzi-fine, specie poi quando ci si muove controcorrente. Anche se il sentire di gran parte della popolazione è in consonanza con noi, la cultura pubblico-mediatica è infatti prevalentemente su posizioni molto diverse. Perciò bisogna scegliere molto bene il terreno e le modalità. Comunque quello della lista è un episodio che non condizionerà l'impegno di Ferrara e del suo giornale su queste grandi tematiche”. A giudicare dai suoi interventi sul caso Englaro parrebbe così. “Infatti, sto seguendo il suo impegno con profonda condivisione”.
In ogni caso, è difficile capire come si evolverà la situazione. “Fondamentalmente non bisogna chiudersi ma avere un atteggiamento positivo. E' impossibile fare previsioni sul futuro, è già un azzardo giudicare il presente. Penso comunque che alcuni grandi eventi, come la questione antropologica o la questione islamica, sono sì una sfida ma anche una grande opportunità. Ad esempio, si tratta di indirizzare le potenzialità della tecnoscienza in senso umanistico”. Un nuovo umanesimo. “Che non sia giocato sull'alternativa scienze della natura-scienze dello spirito, ma che faccia sintesi. A questo scopo è necessario allargare gli spazi della razionalità, per usare un'espressione dell'attuale Papa”.
Eppure, recentemente lei ha dichiarato che il progetto culturale, da lei lanciato quand'era a capo della Cei, è stato vittima di un “malinteso politicistico”. Detto altrimenti, secondo alcuni lei sarebbe il regista di una raffinata operazione di potere che nei due ultimi tumultuosi decenni avrebbe permesso ai cattolici italiani, orfani della Democrazia cristiana, di non sparire dalla scena pubblica ma anzi di guadagnare rilevanza grazie a una “svolta culturale e identitaria” che tuttavia “può destare qualche preoccupazione in quel cattolicesimo sociale che da sempre è molto radicato nel paese” (Franco Garelli, La Stampa 12 maggio 2008). “Il progetto culturale non è in tensione con il cattolicesimo sociale. A parte il fatto che, quando l'ho proposto, il progetto era molto meno approfondito ed elaborato di adesso e si è arricchito di tutto quello che è accaduto in questi quattordici anni. Lo scopo del progetto era ottenere per la chiesa un rilievo in campo culturale analogo a quello che ha sempre avuto in campo sociale. Può darsi che il malinteso nasca anche dal fatto che io qualche anno prima avevo difeso l'unità politica dei cattolici; in realtà un poco prima del '94 il sottoscritto aveva capito chiaramente che quell'epoca era finita. Più in generale, c'è una forte tendenza, anche in campo cattolico, a interpretare le prese di posizione della chiesa in senso politicistico. Questo è frutto della storia del cattolicesimo italiano, ma forse è una tendenza in atto anche a livello mondiale”.
La chiesa vista come una super lobby. “Ma questo è molto lontano dalla sua autentica natura. In particolare, in Italia pesa ancora la storia che comincia con la questione romana e passa per il Partito popolare di Sturzo e poi la Dc, con le sue luci e le sue ombre”. Forse la tensione con il cattolicesimo sociale di cui parla Garelli è un altro modo di rileggere il post concilio in Italia. “Può darsi. E' come l'annoso dilemma presenza-mediazione”. E' sempre anche una questione di nomi e di facce. Dossetti e Bologna da una parte, Roma dall'altra. Se poi a Roma c'è un emiliano come lei… “In realtà sia Dossetti che io veniamo da Reggio Emilia. Non è però solo questione di facce. Molto dipende da come si risponde al paradigma della secolarizzazione. Certo cattolicesimo tende a velare la propria identità, questo è l'equivoco di fondo da superare. Come dicevo per la teologia, invece, è a partire dalla nostra identità che possiamo essere utili oltre che rilevanti”. Perciò chi punta sulla retorica dell'altro e del dialogo cade in questo equivoco. “A partire dalla propria identità si può fare qualcosa di utile e fecondo per gli altri, altrimenti si seguono strade che già altri percorrono. Nel nostro tempo la società ha un estremo bisogno dell'apporto specifico dei cristiani. Anche tra i cattolici c'è la tentazione di vedere la religione come un fatto privato. Invece l'obiettivo è quello di porsi come testimoni della fede”. Spesso la testimonianza viene ridotta a dialogo. “Era il tema del convegno ecclesiale di Verona: testimoni di Gesù risorto speranza del mondo”.
Camillo Ruini come testimone c'è ancora, non si può dire che sia andato in pensione. “In questo senso no. Ho in programma di dedicarmi a uno studio specifico: l'uomo di oggi di fronte a Dio. Il lettore comune ha in mano poco da leggere su questo tema. Non ho in mente un trattato scientifico, ma vorrei fare qualcosa di dignitoso e accessibile. Mi prenderò del tempo per studiare e riflettere, in questi ultimi anni per forza di cose l'ho fatto solo occasionalmente”. Dalla questione antropologica alla questione teologica, un'altra sfida epocale.
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