L'analisi di Lodovico Festa
La barra dritta
Al di là delle responsabilità individuali – e come tanti ho i miei dubbi su quelle di Ottaviano Del Turco – è evidente come in Abruzzo esistesse un collaudato sistema di tangenti legato alla gestione della sanità privata. Ed è quindi sacrosanto l'intervento della procura di Pescara.
Al di là delle responsabilità individuali – e come tanti ho i miei dubbi su quelle di Ottaviano Del Turco – è evidente come in Abruzzo esistesse un collaudato sistema di tangenti legato alla gestione della sanità privata. Ed è quindi sacrosanto l'intervento della procura di Pescara mirato a perseguire i singoli (gravissimi) reati. Incredibile è invece il “modo” di agire della procura: l'arresto di un bel pezzo della giunta regionale (con argomenti assurdi: potrebbero venire “reiterati i reati” o potrebbero essere “occultate prove” che si dicono – nelle abbondanti dichiarazioni che accompagnano gli arresti – “inoppugnabili”), l'isolamento carcerario di un uomo politico come Del Turco trattato come se fosse Totò Riina, l'infinita serie di dichiarazioni politicizzate del pm Nicola Trifuoggi, che ora naturalmente si lamenta presso il Csm per le critiche che il suo comportamento suscita. Per non parlare della vicinanza che certe toghe paiono mostrare con ambienti del Pd locale anti Del Turco o degli interventi particolarmente inopportuni del ministro ombra della giustizia del Pd, Lanfranco Tenaglia, già magistrato abruzzese. Se da una parte si apprezza un lavoro di indagine finalmente centrato non solo sulle intercettazioni telefoniche, dall'altra si constata come nelle mosse non solo dei pm ma anche dei giudici abruzzesi traspaia la voglia di protagonismo, di condizionare il Parlamento, di fare campagne politiche. E in questo senso le vicende abruzzesi si allineano a tante altre con protagoniste procure spesso coperte politicamente da giudici istruttori. Nell'evolversi drammatico dell'inchiesta abruzzese emerge anche quasi una volontà di far saltare quel poco di clima di dialogo tra toghe e politica non subalterna alla magistratura, dimostratosi in questi giorni in qualche modo in riferimento all'approvazione del lodo Alfano. Per tenere la barra dritta il centrodestra non può limitarsi ad annunciare provvedimenti legislativi, deve avviare una più ampia riflessione sull'Italia e con l'Italia. Misurandosi anche con il problema di una corruzione che persiste in vaste aree dell'amministrazione pubblica su tutto il territorio nazionale. Una discussione e un'analisi che devono partire da un punto: l'Italia è ancora in queste condizioni non perché ha abbandonato “mani pulite” – come sostiene Antonio Di Pietro – bensì, al contrario, perché ha risposto, in un drammatico momento della vita nazionale, a una crisi profonda puntando le sue carte su “mani pulite”.
Aprire la società . Finita la guerra fredda, finita la possibilità di un'economia protetta, esauritesi le condizioni che garantivano un anomalo sistema politico e sociale fondato anche su un compromesso che implicava vaste zone di illegalità, in mezzo a una tempesta economica segnata dalla drammatica svalutazione della lira e dalla recessione, una parte decisiva delle nostre élite – d'intesa con influenti ambienti internazionali – ha pensato che la ricetta per ridisegnare l'Italia fosse affidarsi alla giustizia penale. Una via comoda per le grandi imprese “moraliste” che continuarono a godere della loro tradizionale dose di illegalità amnistiata, e anche per una magistratura che, prima di diventare “mani pulite”, era stata per decenni “occhi chiusi”. Comoda per ampi settori delle élite e anche una vera e propria manna per tutti gli avventurieri (spioni diventati magistrati, finanzieri-industriali senza scrupoli diventati editori d'intesa con vecchi filibustieri giornalistispeculatori di Borsa, piccoli cretini estremisti falliti in tutte le loro avventure politiche, e tanti democristiani e tanti comunisti bolliti che si riciclavano) che vedevano la prospettiva di mettere le mani sul paese. Per fortuna l'Italia, vaccinata dai non lontani sconquassi di una dittatura prodotta da altri protagonisti (in camicia invece che in toga nera) si è ribellata a questo destino. Ma tutti i guasti provocati da un risanamento che si era iniziato a costruire invece che sulla politica e sulla verità, sull'ipocrisia e sulla menzogna, su eccessive e indecenti (perché unilaterali) indagini penali, sono ancora ben evidenti. E' impensabile un risanamento morale quando non si parte dalla verità ma dalla truffa. E' impensabile volere rilanciare una nazione dividendola tra illuminati e ottenebrati. E' impensabile rimediare a guasti profondi con il codice penale invece che con la politica. A questa impostazione truffaldina e inconcludente si è resistito. Ma in qualche modo “l'impostazione” ha lasciato un segno. E oggi ci si trova i vecchi moralisti – nel '92 in quel ruolo si esercitarono anche Del Turco e Antonio Bassolino – moralizzati, una banda di avventurieri (guidata non per nulla da Antonio Di Pietro) che si impancano a eroi della virtù, un esercito di pagliacci di professione che agitano la questione morale per aumentare il fatturato (con tanto di risse tra “artisti” e copywriter per la divisione del bottino), con giornali laudatori della virtù che inciampano sulle imprese “sanitarie” degli editori. Mentre i magistrati militanti insorgono qui e lì, alla fine impedendo una seria riflessione sulle soluzioni razionali anche nella lotta alla corruzione. Così vanno le cose. Per uscirne c'è un'unica ricetta: aprire la società. Avere un establishment che garantisca la libertà di tutti invece che usare la propria autorevolezza per difendere i propri privilegi. E imponendo a tutte le corporazioni, a partire da quella dei magistrati, di uscire da sistemi di potere chiusi e autoreferenziali. Il che significa innanzi tutto separare le carriere di giudici e pm, e decorporativizzare Csm e controllo disciplinare sulle toghe.
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