Barak in gita per evitare le buche più dure in patria
Obama in tour estivo accompagnato da un repubblicano
Ve lo dirà qualsiasi allenatore: il cambio di tattica di gioco è un'operazione delicatissima, impossibile da condurre istantaneamente e da supervisionare con attenzione per evitare effetti collaterali, magari a discapito della stella della squadra. E' quello che sta succedendo in questa fase al team di pensatori e instancabili strateghi che preparano il “game plan” di Barack Obama per il rush finale della campagna.
Ve lo dirà qualsiasi allenatore: il cambio di tattica di gioco è un'operazione delicatissima, impossibile da condurre istantaneamente e da supervisionare con attenzione per evitare effetti collaterali, magari a discapito della stella della squadra. E' quello che sta succedendo in questa fase al team di pensatori e instancabili strateghi che preparano il “game plan” di Barack Obama per il rush finale della campagna, producendo infinite nuove idee per ramazzare voti, raccogliendo soldi a non finire (ancora 52 milioni di dollari a giugno, più del doppio di maggio, più del doppio rispetto a John McCain, ai livelli altissimi di febbraio) e mantenendosi in allarme 24 ore al giorno per rintuzzare ogni possibile attacco, colpo basso, scandaletto o provocazione che venga su dal nulla, in un pomeriggio di calura come gli altri. Perché poi gli effetti di questi incidenti si sentono, le turbolenze, magari minuscole, sommate tra loro creano una temperatura nervosa. Per quel meccanismo d'ipersensibilità che contraddistingue i sondaggi, che in questo periodo – allorché gli elettori si sentono autorizzati a fare i dispettosi e i pretenziosi – ne risentono subito. E capita che un vantaggio di gradimento accumulato nella rinfrancante partenza del testa a testa con John McCain (uno che conduce una campagna stile diesel) si riduca di colpo a un pugno di punticini di quelli addirittura in odore della forbice d'errore. Motivo per cui le giovani teste d'uovo che stanno teleguidando la corsa di Obama devono capire come ridare smalto al purosangue e splendore a questa interminabile campagna, per condurre in porto la più grande impresa di strategia elettorale degli ultimi cento anni.
Gli ultimi giorni non sono stati una passeggiata: gli incidenti, esaminati sullo sfondo della grandeur cui si punta – la Casa Bianca, mica la presidenza del collegio scolastico – rientrano nella routine. Ma un po' sembrava davvero che la magia fosse svanita, che la love story di Barack col paese dei sogni fosse ormai in vista di uno stropicciato risveglio. E tutto ciò, dal momento che il candidato, infine, pressato e sospinto, aveva cominciato ad affrontare i temi caldi elettorali – Iraq, economia, aborto – beccandosi subito l'etichetta di “politico convenzionale” mica diverso dagli altri che battono le strade di Washington. Soggetto come loro a subitanee correzioni di rotta, dovute a quella certa improvvisazione delle posizioni, sia pure esposte con tanta verve, e alle reazioni del pubblico e dei media. “Flip-flop-flap” gli hanno cominciato a cantilenare quelli che non sono suoi amici, quelli che non fanno a meno di constatare che la divisione razziale con Obama torna in primo piano, se è vero che in percentuale sono il doppio i neri che si fidano di lui rispetto ai bianchi, e questo qualcosa vorrà pure dire. Poi la sequela di sgambetti, veri o presunti: Jesse Jackson che gli vuole tagliare gli attributi in diretta tv perché fa fare una figuraccia ai maschi afroamericani, il furbacchione David Remnick che per vendere un po' di copie in più del suo narcotico New Yorker s'inventa quella copertina in turbante e kalashnikov che fa sobbalzare gli staff, delizia i gestori dei talk show estivi e in fondo come satira fa schifetto. O le intemperanze di Michelle, che deve ancora capire che il primo comandamento è sempre “non nuocere alla causa” e quindi agitarsi il meno possibile, al limite stare fermi. Per non parlare della questione della fede di Obama, che rimbalza fuori di continuo, come un pupazzetto, e adesso Newsweek ci ha fatto una copertina, perché che Obama sia uno con un passato contraddittorio non basta a chiudere la questione, tanto più se lui si mette in testa di sedurre i giovani evangelici e di dire che lui Dio lo prende a modo suo, personale, ergo, narcisisticamente, modernissimo.
Adesso, in sostanza, era arrivato il momento di un rinfrancante diversivo, per dare aria alle stanze. E allora: Obama parte. Va in tour nel mondo, come la più desiderata delle star. Si concede alle giubilanti folle della vecchia Europa. Traverserà Londra, Parigi e Berlino con un'allure superiore a quella di un presidente eletto. Si mostrerà, concederà brevi campioni oratoriali, opportunamente declinati nella chiave dell'empatia internazionale, interpreterà il profetico uomo nuovo, il futuro possibile della politica, l'unica opportunità di una democrazia vigorosa. Si spingerà perfino in medio oriente, struscerà e benedirà, un po' a casaccio, l'eterno tavolo delle trattative israelo-palestinesi, calerà come l'incoronato, l'uomo della “ristrutturazione”, dalle parti dei fronti dove si muore, a Kabul e a Bagdhad. E qui farebbe bene a seguire il consiglio di Bush: “Non fare troppa ombra a chi la sa più lunga di te e ascoltali, quelli come Crocker e Petraeus, che si potrebbero stranire a sentire proclami”. Viaggerà con l'imprinting del bipartisan, portandosi dietro un Chuck Hagel davvero in area ticket, e lasciando a casa Michelle, per evitare guai. In Europa trionferà e conviene consigliargli di non rifarlo spesso, perché come dice Flaiano, qui ci abituiamo a tutto subito. Ma, soprattutto, quelli del suo staff contano che il viaggio, e lo tsunami mediatico che solleverà, avrà un effetto travolgente e rinfrancante a casa, nell'America dei 5 dollari e passa al gallone, che proverà a pensare che davvero il senatore è l'uomo giusto, la scommessa da fare, guarda come ce lo invidiano, guarda come finalmente un americano è amato nel mondo, mica solo per le sue cosce.
Tornerà, come il salvatore della patria, seguito da una torma di cronisti affannati e impressionati dal clamore. E planerà verso lo stadio dei 75 mila a Denver, per quella consacrazione cui mancano 40 giorni. Da percorrere evitando le buche più dure. Ma che davvero possono seriamente preoccupare questo titanico, rinascimentale marchingegno d'umana meraviglia.
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