Vite da coltelli fratelli

Sandro Fusina

“Conosci i gurkha, vero?”.  “Come no? Erano un'etnia nepalese che forniva soldati all'esercito britannico. Di mestiere facevano i soldati, come gli sherpa facevano le guide alle spedizioni dell'Himalaya”.

    “Conosci i gurkha, vero?”.
    “Come no? Erano un'etnia nepalese che forniva soldati all'esercito britannico. Di mestiere facevano i soldati, come gli sherpa facevano le guide alle spedizioni dell'Himalaya”.
    “Sono, non erano. Nell'esercito di Her Majesty ci sono ancora”.
    Sono andato a trovare un amico che di mestiere fa il disegnatore naturalistico. Devo vedere certe tavole per cui devo scrivere il testo. Le tavole sono già sul suo tavolo di lavoro.
    “Guarda cosa mi hanno regalato”.
    E' kukri, un celebre coltello gurkha. un coltellaccio con una lama di un paio di palmi di lunghezza, larga in un punto anche sette od otto centimetri. Non assomiglia a un temperino né a un coltello da cucina. Se mai a un machete. Ma il machete ha sempre una lama dozzinale, qualunque. E' uno strumento di lavoro, serve soprattutto per la raccolta della canna da zucchero. Se ne trovano spesso nei mercati degli stracci. Era il souvenir più prezioso, assieme a una scatola di sigari, che negli anni Settanta si portavano a casa i ragazzi che andavano a Cuba a fingere di fare la safra, la raccolta della canna, per aiutare la rivoluzione cubana.
    La lama del coltello kukri è più pesante, più spessa. Come strumento di lavoro assomiglia piuttosto a certi coltellacci corti e pesanti da macellaio. Ma il coltello dei gurkha non è soltanto uno strumento da lavoro, a meno che la guerra non si possa definire un lavoro, cosa del resto non peregrina, almeno per i gurkha che non hanno mai fatto i soldati per l'onore e la maggior gloria della corona, ma per guadagnare il pane e il tè per la famiglia oppure costruirsi una casa al paese.
    Il mio amico disegnatore è un tipo minuzioso, capace di disegnare una a una le penne policrome di un colibrì a grandezza naturale. E' un tipo che ama le forme delle creature al punto di decantare la bellezza di certi microscopici moscerini, che chiama con il nome scientifico come fosse un nome proprio. La minuzia con cui descrive la bellezza e la praticità della lama del kukri potrebbe fare pensare a un Jack the Ripper molto appassionato, molto professionale. Soprattutto quando illustra la sagacia di quel designer collettivo che coincide con una lunga tradizione artigianale che è riuscita a creare una lama dal profilo forse eccentrico rispetto alla nostra idea platonica di coltello, ma perfettamente idonea per una serie di funzioni, non ultima quella di sgozzare un nemico con un solo colpo.
    A questo punto non è inutile dire che il mio amico è animato da una grande compassione per le creature. Si potrebbe addirittura dire che è una di quelle anime che non farebbero male a una mosca, se per colpa mia non fosse stato costretto per qualche tempo a catturare mosche e altri insetti graditi a uno scorpione grigio dell'Arizona che gli avevo rifilato con il sistema scellerato del riciclo dei regali.
    Il mio amico sfiora oggi i settant'anni. Ma tutta la vita non è mai uscito di casa senza un coltellino in tasca, un coltellino svizzero perlopiù, che gli serve se non altro per fare la punta alle matite. Se ai tempi della sua adolescenza si fossero usate le statistiche, sarebbe finito tra i ragazzini dediti al knife crime, l'ultima emergenza degli inglesi.
    Su un campione rappresentativo di qualche migliaio di intervistati, i ragazzini inglesi dagli undici ai sedici anni che negli ultimi anni sono andati a scuola o in giro con un coltello è piuttosto alta. In sé, il dato fa impressione. Ma in realtà non dice molto. Non è comparabile con statistiche del passato, che non esistono, ma, soprattutto, non è molto circostanziato. Prima di tutto non rileva la frequenza temporale dell'atto. Un ragazzino che è andato a scuola una volta con un coltello è aggregato nella statistica con il ragazzino che porta abitualmente il coltello in tasca. Poi non è rilevato il tipo di coltello. Quello che ai miei tempi si chiamava coltellino vale quanto un coltello a scatto o a un coltellaccio da cucina. Né è preso in considerazione l'uso previsto del coltello. Un mio professore di disegno delle medie (molto valente) non voleva assolutamente che si facesse la punta alle matite con il temperamatite. Nell'astuccio dovevamo sempre avere un coltellino, insieme allo sgarzino che era un'altra lama capace di ferire, e in più aveva un lungo manico di legno che rendeva agevole impugnarlo.
    Ognuno dei miei compagni e io saremmo comparsi nella statistica assieme al ragazzo nero che con gli occhi adombrati dal cappuccio del suo giubbotto da rapper mostra al fotografo, con un'espressione torva, il suo arsenale, un corto e tozzo coltello a serramanico nella destra e una specie di sega dal manico ergonomico, lunga un mezzo metro, nella sinistra.
    Io, tanto vale autodenunciarmi, ormai non sono più perseguibile, nella statistica sarei finito assieme a quelli che si portano in giro un intero arsenale di lame. Mi capitava spesso di avere nel sacco dei libri (la cartella in quel tempo era dei cocchi di mamma) un'arma propria. Per un lungo periodo, per esempio, andai a scuola con un coltello da caccia diverso ogni settimana. Un antiquario, che aveva bottega proprio dietro l'angolo del mio liceo, disperdeva a prezzi allettanti una collezione di magnifici coltelli inglesi con manico di cervo. Per qualche mese vi investii la mancia settimanale, rinunciando al cinema e a quant'altro, con il consenso e la benedizione della mamma, che integrava qualche volta la somma. La mamma era una donna sciagurata: mai che mi ammonisse di non accoltellare il secchione del secondo quartiere, il ganzetto che filava con la ragazza che mi piaceva, o il professore di lettere che minacciava di non ammettermi agli esami di quinta ginnasio. Mai una volta, che mi ricordi, che mi abbia detto di stare attento a non tagliarmi.
    Ma non voglio fare il figo che si compiaceva di mostrare ai compagni i nuovi pezzi della sua collezione (per altro alimentata con tutto ciò che di tagliente o acuminato giaceva nei cassetti di parenti e amici di famiglia). Ero anche più pirla. Una volta, per più giorni di seguito, andai a scuola con un vero serramanico, ed ero ancora alle medie. Io lo chiamavo ignaro serramanico, ma in realtà era un vero e proprio coltello a scatto, uno dei flick knives che turbano i sonni dei politici inglesi.
    Oggi potrebbe essere considerato un oggetto tipico, tra quelli da salvare per dare ai posteri l'idea di un'epoca. Ma come coltello non valeva granché. Era uno sciatto prodotto industriale, senza pretese. Aveva un manico di plastica nera e una guardia striminzita dalla quale, spingendo un pulsante, guizzava (si fa per dire perché il meccanismo a molla non era perfetto) una lama stretta, per nulla tagliente, ma acuminata.
    Era un coltello che non serviva neppure per tagliare il formaggio. L'unica sua funzione, per usare un termine della “ligiera”, era di fare occhielli nel ventre. A quello scopo, per offesa o per difesa, diceva di portarlo il tipo che me lo aveva ceduto al parco. Era stato un vero affare, almeno per lui. Lo avevo avuto per un vecchio portasigarette d'argento nel quale conservavo le Giubek che comperavo sciolte dal tabaccaio, le Lucky Strike che fregavo dal pacchetto di mio padre o le Turmac dalla scatola di mia madre, da ragazzino ero un fumatore eclettico, di bocca buona.
    Il tipo che mi aveva ceduto per amicizia il suo fedele ferro si chiamava Casati, di lui si diceva che non avesse passato un solo anno della sua vita senza graffire la sua firma nei muri interni del Beccaria. Era il capo di una delle bande di blouson noir di via Savona che si allungava fino al parco. Qualche volta fra di loro si accendeva una rissa. Ma non compariva mai un coltello. Una volta un piccoletto dal muso così aguzzo da essere chiamato il Topo lo tirò fuori per paura della mole del Casati, ma si prese un fracco di botte senza riuscire a utilizzarlo.
    A me con tutti i coltelli che maneggiavo e che portavo in cartella non successe mai nulla. Non minacciai né fui minacciato, non ferii né fui ferito. Non mi tagliai neppure mai, nonostante la scarsa educazione ricevuta da mia madre. Tutto quello che riuscii a fare sulla strada della delinquenza giovanile, fu di ottenere il primo paio di jeans, di marca Lee. Una volta, in assenza del gatto, riuscii a farci un giro di ballo con i jeans a scuola. Mia madre fu convocata per sentirsi dire dalla professoressa di lettere, la sorella zitella (allora non si diceva single) di non ricordo quale eroe di Giustizia e Libertà che ci istruiva fuori programma ministeriale sulla storia della Resistenza, se in casa eravamo troppo poveri per acquistare un paio di pantaloni decenti.
    Il giubbotto di pelle o similpelle nera non l'ebbi mai. Il Casati era troppo grosso per passarmi il suo, né io possedevo qualcosa di abbastanza degno da proporgli in cambio. Sono sicuro però che in questi giorni di rilassamento formale come questi nostri mi sarei travestito anch'io con il guardaroba dei rapper, al quale il preoccupato leader dell'opposizione inglese David Cameron attribuisce principalmente l'esplosione del Knife Crime, del crimine da coltello.
    Se mi avessero beccato con un coltello a scuola, cosa sarebbe successo? Probabilmente nulla per un coltello da caccia, considerato un interessante pezzo di antiquariato. L'orrido professore di lettere del ginnasio, bibliofilo incallito, ne avrebbe preso spunto per una nuova divagazione tesa a dimostrare la necessità di comperare una sua traduzione, pubblicata a spese dell'autore, delle odi di Orazio.
    Il coltello a scatto, pericoloso mezzo di contaminazione sociale, mi sarebbe costato una ramanzina sdegnata della professoressa progressista che distribuiva in premio a noi alunni di terza volumi di storia in francese, scarto della sua biblioteca, e non si dimenticava mai di ricordare a mia madre che il compagno di classe con il quale legavo di più era sì un bravo ragazzo, studioso ed educato, ma di diversa educazione in quanto figlio di un usciere di banca del Giambellino. Privandomi così entrambi del vantaggio di un soggiorno di formazione al Beccaria in compagnia del Casati e di altri brut demonii che sui piaceri della strada avevano tanto da insegnare. Portare a scuola un coltello ai miei tempi non era così grave come nascondere tra libri e quaderni una Mascotte o Alta tensione, for adult only.
    Con il Violent Crime Reduction Act (d'ora in poi in sigla, Vcra), varato in Gran Bretagna nel 2006, mi sarebbe andata meglio. Prima di tutto i professori non avrebbero dovuto aspettare di sorprendermi con il coltello in mano, ma avrebbero potuto per un sospetto perquisirmi. E se non se ne fossero curati, poteva farlo un tutore dell'ordine, alla ricerca di un corpo di un reato, anche futuro, anche eventuale. Con un po' di fortuna mi sarei beccato la pena massima, reclusione per quattro anni, magari anche di più, se fossi riuscito a dimostrare l'aggravante di avere affidato l'arma, anche solo per un momento, al mio compagno di banco inesorabilmente minorenne. I connoisseur delle buone lame devono riconoscere al Vcra inglese anche un merito estetico. Ha proibito l'importazione e la vendita di coltelli a scatto e a gravità. I coltelli a gravità sono coltelli in cui la lama esce dal manico sempre premendo un pulsante, ma puntandolo verso il suolo, per sfruttare non la forza di una molla, ma il peso stesso della lama. E' così scomparso dalle vetrine degli armaioli inglesi tutto un campionario di orribili coltelli da combattimento, prodotti con materiali tecnologici, acciai speciali, plastiche inaudite, secondo un'idea stravagante dell'ergonomia e della funzionalità, per ferire, strappare, lacerare e peggio i fantasmi dei nemici, in carni immaginarie. La lama, più della bicicletta, è impossibile da migliorare .
    Sono scomparse dalle vetrine anche le imitazioni di armi tradizionali come la katana, la spada dei samurai. Vendute come repliche fedeli, ne hanno la forma, ma non la sostanza. Sono le imitazioni in serie e a macchina del lavoro di artigiani che al loro paese godono per la loro abilità dello stato di patrimonio nazionale, come fossero monumenti. Secondo i dati dell'Home Office, responsabile della sicurezza e dell'ordine, negli ultimi quattro anni in Inghilterra e nel Galles si sono avuti “circa” ottanta crimini gravi commessi con una katana di imitazione. Mi ricordo che anni fa, da noi, ci fu il focolaio di un'epidemia di delitti commessi con la balestra. I criminali all'arma bianca hanno evidentemente ottuso il senso estetico. Restano i coltelli da cucina. A illustrare un articolo sulle preoccupazioni di Gordon Brown e del suo governo per il Knife Crime, sul Guardian di qualche giorno fa è apparsa una bella natura morta. Rappresentava un mazzo di coltelli da cucina e, se pur da cucina, con i barbagli che sprizzano dalle lame i coltelli sono fotogenici.
    La foto poteva essere scattata nella cucina di un qualunque signore imprudente. I coltelli spuntavano dal recipiente con la lama verso l'alto. Si sa che la cucina è il luogo che più dà da fare al pronto soccorso. Ci vuole nulla per scivolare su una pelle di patata e finire con la faccia sulle lame. E' molto meglio tenere i coltelli con il manico verso l'alto, se non si possiede uno di quei bei ceppi per infilare la coltelleria che mancano raramente nelle liste di nozze. Ma la didascalia spiegava che quei coltelli da cucina facevano parte delle armi da punta o da taglio sequestrate negli ultimi raid per la prevenzione del knife crime. Le statistiche, aggiornate al 2006, dicono che in Inghilterra e nel Galles a portare in tasca un coltello a scatto è il nove per cento dei bambini scolarizzati e il trenta per cento degli esclusi. Quelli che portano in giro un coltello da cucina sono un po' più della metà, il cinque per cento dei bambini che frequentano la scuola e il sedici per cento degli esclusi. Anche in questo caso le statistiche non parlano della frequenza e della motivazione dell'atto. Né dicono se, per caso, gli scolari frequentano quel corso professionale per macellai descritto in “Eva, una bambola e il professore” di Tom Sharpe. In quella scuola l' esistenza è abbastanza dura da temprare i professori che sono riusciti a sopravvivere quanto basta per metterli in grado di affrontare ogni pericolo e di evitare ogni trappola mortale.
    Davanti a un coltello da cucina faccio fatica a mantenere la lucidità. Credo che sia per un mio trauma infantile provocato dalla figura minacciosa di un certo orco Troll che brandiva un coltello da macellaio in un'edizione illustrata delle poesie di Arrigo Boito. O forse è colpa della scena della doccia di “Psycho”? I coltelli da cucina sono gli strumenti prediletti degli omicidi da raptus. Quando sento di qualcuno massacrato a coltellate immagino un ossesso che sferra colpi furibondi con un coltello da cucina. Non ci sono armi più letali delle armi improprie, impossibili da censire.
    L'interesse per le ragazze e altre curiosità avevano già assopito la mia passione per le armi bianche. I provvedimenti restrittivi sulla detenzione delle armi, adottati agli inizi dell'età del piombo, servirono soltanto a creare patemi in vedove costrette a denunciare la sciabola da parata del padre e la Beretta d'ordinanza del marito, a soffocare per sempre il commercio antiquario delle armi e a convincermi di liberarmi di tutta la mia collezione, compresa una magnifica lepa forgiata per me da un valente artigiano di Pattada.
    Evitai così, per disinteresse estetico e funzionale, la stagione degli Opinel. Come oggetto l'Opinel non è una meraviglia. Si può definire, con la retorica del caso, onesto: un onesto coltello da lavoro. Con il manico di legno dolce, chiaro, verniciato, era la risposta dell'industria francese alle esigenze dei contadini, fino allora soddisfatta da piccoli laboratori locali, che producevano, qualche volta da secoli, coltelli da lavoro con ottime lame. Se negli anni Ottanta qualche istituto di ricerca si fosse interessato di rilevare quanti giovanotti uscivano con un Opinel in tasca, i risultati avrebbero preoccupato. Soprattutto se i dati fossero stati incrociati con il numero dei biglietti da centomila arrotolati a cannuccia che si trovavano a fine serata nel tiretto del registratore di cassa di ristoranti, bar e discoteche. Il catalogo della Opinel offriva coltelli in molte misure, da grandi a minuscoli. I più grandi erano da esposizione, i medi tornavano utili nell'orto, in giardino e nelle scampagnate. Nel corredo da tasca dei giovani metropolitani si trovavano invece le misure più piccole.
    Quali piroette del gusto avessero consigliato l'elezione di un coltellino da poche lire a strumento di una costosa attività ricreativa sarebbe interessante studiare. I temperini da tasca degli anni Venti e Trenta, destinati presumibilmente alla stessa funzione, erano oggetti preziosi o quasi. Ce n'erano, con il punzone di orefici rinomati, d'oro e d'argento, smaltati e ageminati, con le lame perfino in metalli nobili, notoriamente troppo teneri per tagliare qualsiasi sostanza che non fossa già in polvere. La diffusione degli Opinel per triturare i cristalli di cocaina fu tale da permettere di fantasticare su un'impossibile joint venture tra l'antica casa francese e il cartello di Medellin. Ma non era cosa che potesse interessare nessuno. La lama era sempre al di sotto dei quattro pollici consentiti.