100 di questi Cav.

Bordin ci dice perché non si fida di Tremonti e che cosa ha sbagliato W

Marianna Rizzini

Massimo Bordin, direttore di Radio Radicale, non si unisce al coro di chi trova che i primi cento giorni di governo Berlusconi III (o IV, se si considera il rimpasto) ricordino molto i giorni del governo Berlusconi II. “Non bisogna farsi fuorviare dalla vicenda dell'emendamento blocca processi”, dice Bordin.

    Roma. Massimo Bordin, direttore di Radio Radicale, non si unisce al coro di chi trova che i primi cento giorni di governo Berlusconi III (o IV, se si considera il rimpasto) ricordino molto i giorni del governo Berlusconi II. “Non bisogna farsi fuorviare dalla vicenda dell'emendamento blocca processi”, dice Bordin. “In realtà prevalgono ancora gli elementi di discontinuità rispetto al passato”. Discontinuità significa “non tanto dialogo con l'opposizione quanto maggiore compattezza della coalizione”. L'elemento di continuità, invece, “era presente sottotraccia”. Trattasi della questione del processo Mills, “l'unico elemento anglosassone nella politica giudiziaria del governo, per il resto distante da qualsiasi ipotesi di riforma della giustizia”. Il non aver toccato l'argomento in campagna elettorale potrebbe “non essere stata la scelta giusta”. “Il premier avrebbe potuto giocare d'anticipo – dice – anche perché c'era chi, tra i suoi parlamentari uscenti, segnalava per vie traverse l'impedimento. La mossa del salva-processi non mi ha stupito”.

    Quello che ha sorpreso Bordin è stata la capacità dell'opposizione “di tirare la volata ad Antonio Di Pietro”. Non solo l'ex pm è stato “valorizzato al massimo” nel governo Prodi: “Era il ministro che interveniva su tutto, anche al di là delle sue competenze. L'unico elemento comune ai suoi sconclusionati interventi era l'espressione di una linea opposta a quella del governo”. Dopodiché, dice Bordin, Di Pietro è stato “l'unico alleato valorizzato da Veltroni e l'unico elemento di continuità col governo precedente. E oggi Veltroni ne paga il prezzo”. C'è forse un po' di orgoglio radicale in questa affermazione. I Radicali, non apparentati al Pd con il loro simbolo ma inseriti in lista, possono dire: ve l'avevamo detto. “Possono dirlo”. Di Pietro con il Pd c'azzecca più di quanto si pensi: “Siamo sicuri che il centrosinistra, epurato di Bertinotti, Diliberto e Pecoraro Scanio, sia epurato anche di ogni anima giustizialista?”.

    Tra le cose che “affascinano” Bordin c'è il concetto di “anarchia etica” di Berlusconi. “Però mi rendo conto che può aver divertito me, quest'idea, ma che giustamente ha lasciato esterrefatti altri esponenti del Pdl e i promotori della lista ‘Aborto? No, grazie'”. Bordin spera (“ma non ci credo tanto”) che “prevalga una logica umanistica. Non è vero che solo le persone di fede hanno dei valori. Vorrei che venisse valorizzata al massimo l'umanità delle cose: vivere con meno dolore e sofferenza possibile”. Secondo aspetto “affascinante”, per Bordin, è il caso caso “Robin tax”. “Senza dubbio Tremonti era la personalità politica più attesa alla prova. Già nel corso della campagna elettorale c'era attenzione per il suo libro e le sue tesi. Quello che sorprende, però, è che Tremonti, finora, non sia riuscito a emergere con contorni netti”.

    Bordin nota che nel centrodestra, ma anche nella stampa non necessariamente ostile al governo, la critica più frequente è che “una tassa sui petrolieri in Italia, imposta dallo stato, consiste, in buona percentuale, in una partita di giro. Non so bene cosa facesse Robin, però mi insospettisce un governo di centrodestra che toglie ai ricchi per dare ai poveri. Sospetto un filo di affettazione, per non dire di demagogia”. Colpa anche di alcune dichiarazioni tremontiane: “Dice in continuazione: ‘Invece di tassare gli operai, tassiamo i ricchi'. Ma quando sono stati tassati gli operai? Mi lascia perplesso l'idea di aumentarli attraverso la detassazione degli straordinari, in una fase che, se non è di recessione, è di stagnazione, e in cui gli straordinari in fabbriche non sono merce comune”. La conclusione è: “Speriamo che non diventi merce comune la cassa integrazione”. Mettendo assieme Robin tax, detassazione e mutui e “facendo un confronto tra l'impatto, non solo mediatico, delle proposte Tremonti e l'impatto delle proposte di Sacconi-Brunetta”, la bilancia, per Bordin, pende dalla parte di questi ultimi.

    Bordin non sa che cosa succederà riguardo alla possibile uscita dallo stallo del dialogo Berlusconi-Veltroni, però cerca di individuare “ciò che i due vorrebbero che succedesse”: “Ci sono motivi di scontro reali, ma mi sono convinto che il periodo che va dal 1994 a oggi non vada interpretato nella chiave del bipolarismo, quanto nella chiave di una tentata ricostituzione di un equilibrio instabile ma solido, quello tra pentapartito e opposizione di sinistra”. E' il “monopartitismo imperfetto” di cui parla Marco Pannella. Questo meccanismo, però, “non si ricrea perché Berlusconi e Veltroni non sono d'accordo su chi debba fare il pentapartito e su chi debba fare l'opposizione”. Veltroni, dice Bordin, dovrebbe cercare “di costruire un'opposizione solida che prenda le redini del governo nella prossima legislatura. Ma ora c'è una situazione malsana nei partiti, nella giustizia e nelle istituzioni. Persino il presidente della Repubblica si rende conto che rischia di passare nel tritacarne perché, inevitabilmente, il suo ruolo lo porta a entrare in rotta di collisione con l'uno o con l'altro”.

    Al momento di dire con chi Veltroni debba costruire l'opposizione, Bordin ha un momento di orgoglio radicale, forse perché negli ultimi giorni i Radicali, che, a detta di molti esponenti del Pd “pareva dovessero combinare solo guai”, hanno “presentato in commissione Esteri alla Camera una mozione sulla Cina e sono stati determinanti per portare la questione rom davanti al Parlamento europeo”. Cosa che “al governo non fa piacere” ma, guardando all'opposizione, “non c'è una prescrizione medica che vieta a Veltroni di occuparsi di questi temi”. L'ex Sinistra Arcobaleno, invece, “si è cacciata con le sue mani in questa situazione. Nelle previsioni elettorali avrebbe dovuto fare il 10 per cento. I suoi leader pensavano di attestarsi sull'8. Hanno preso il 3. Non può essere tutta colpa di Veltroni”.

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.