L'esercizio della libertà individuale è il problema, non la soluzione
Mi permetto, “per amore”, qualche glossa alle osservazioni del teologo e nostro collaboratore Vito Mancuso (1). La questione posta dalla sentenza che autorizza la disidratazione del corpo di Eluana, e la sua messa a morte, ci appassiona tutti.
Mi permetto, “per amore”, qualche glossa alle osservazioni del teologo e nostro collaboratore Vito Mancuso (1). La questione posta dalla sentenza che autorizza la disidratazione del corpo di Eluana, e la sua messa a morte, ci appassiona tutti. Sentiamo e pensiamo, con profonda convinzione ma senza arroganza o disprezzo per chi non è d'accordo, che non si tratta di una questione privata, dei termini di esecuzione di un lascito testamentario, un affare che si possa sbrigare in famiglia e dal notaio. Per ragioni troppo evidenti per essere richiamate in esteso. Ne faccio solo un breve accenno.
C'è una società in cui il capo dello stato rende visita al paziente Andreatta, in stato vegetativo da molti anni, e la sua famiglia attende la fine nella speranza cristiana, come attende la fine il sistema di cura e di relazioni, di assistenza e carità. Su tutte queste faccende tra la vita e la morte si stende il velo pietoso della discrezione, del discernimento umano e razionale, per sua natura flessibile. Ma qui campeggia l'idea caritatevole del primato assoluto della persona e della vita sulla legge, sul criterio scientifico probabilistico, su ogni altro possibile criterio compresa la disposizione testamentaria (intesa come omicidio pietoso del consenziente). E c'è una società, un'altra società, in cui la persona vivente ma non vigile viene spenta sull'onda dell'amore disperato di un padre, della sua famiglia o di parte della sua famiglia (come nel caso di Terry Schiavo), viene spenta per convinzione, per amore e anche per convenzione culturale, giudiziaria, domani legale (il testamento biologico o la sua sinistra cugina, l'eutanasia). Qui leggi e sentenze fissano con rigidità una “conclusione per il nulla” che diventa il simbolo della nostra libertà.
Sono due società diverse, la società della speranza e quella della disperazione. Possono convivere e convivono nei cuori, nelle teste, nelle aspettative di tanta buona gente convinta che la sofferenza e la morte vadano esorcizzate con l'appello alla dignità del morire “come vi piace”, e di tanti che al contrario a sofferenza e morte attribuiscono un significato. Ma sono e restano società diverse, in naturale e filosofico e storico conflitto. Per il professor Mancuso il conflitto etico discende da quello teologico: da una parte la libertà umana di scegliere per sé e disporre della propria vita, perché Dio è amore, perché l'Incarnazione rende concreto il problema dell'uomo, perché l'onnipotenza divina si realizza attraverso la libertà della creatura, e dall'altra l'obbedienza senza riserve al codice della natura o ai comandamenti di un Dio personale, onnisciente onnipotente e provvidente. E il conflitto lo risolve il diritto laico concedendo a ciascuno di fare quel che crede.
E invece a me sembra che il conflitto sia quello tra carità e legge, il tipico e primigenio conflitto che sta all'origine stessa del messianismo cristiano: come per l'aborto, il diritto potrà stabilire mille volte che, se lo vuoi, tu puoi staccare un sondino nasogastrico e procedere, ma tu non devi farlo. Puoi farlo, non devi. Per la semplice ragione che non sei creatore ma creatura, e il solo disporre della vita come di un prodotto della tua volonta è una manomissione dell'esistenza razionale, della dignità spirituale e razionale della persona umana, sia quella che “stacca” sia quella che è staccata.
E' significativo che le note del professor Mancuso sul caso di Eluana, piene di cura amorevole, di rispetto umano, di attenzione filosofica e teologica ai passaggi più impervi del caso, si aprano con un paio di fulminanti dichiarazioni relativiste. Non esistono per lui queste due società in conflitto, non esiste una discussione di etica pubblica in funzione della quale ci si attesta su usi, costumi ricevuti, norme riconosciute o date (le tavole, per esempio). Esiste soltanto la libertà individuale, che si certifica attraverso una concezione della vita irriducibile a un criterio comune, a una verifica tra i soggetti umani. A ciascuno la propria libera idea della dignità (2).
Osserva dunque Mancuso, dopo aver dichiarato la personale intenzione di lasciare libero corso alla sua vita naturale: “Ciò che è un valore per me non è detto che lo sia per lei [per Eluana, ndr]”. Aggiunge: “Una diversa concezione della vita produce una diversa etica” e “lo stato laico deve produrre, a partire dalle diverse etiche dei suoi cittadini, un diritto unico, tale da essere per quanto possibile la casa di tutti”, perché “la distinzione tra etica e diritto è decisiva”.
Ammiro la semplicità diretta e franca con cui il teologo cristiano abbraccia la forma radicale moderna e positivista della liberaldemocrazia o la sua variante procedurale del socialismo ciudadano in cui contano le maggioranze e le procedure, e basta (un liberale religioso come John Locke, per non parlare di Edmund Burke, non sottoscriverebbe mai quelle affermazioni). Venuto come sono da una giovinezza totalitaria, la mia decisione per la libertà è definitiva. Ma più invecchio più la sento fragile, ancora tutta da spiegare. E di fronte alla laïcité rigorosa, proceduralistica, di un Mancuso, mi viene sofisticamente da obiettare che: primo, se i tuoi valori sono sempre inferiori al valore della loro convivenza con valori opposti, allora non sono valori né relativi né assoluti, sono opinioni fuggevoli; secondo, come si faccia a concepire la vita e poi a produrre un'etica, io non lo so, per me si arriva a concepire la vita mentre si scopre, si rinviene, si riconosce un fondamento etico della vita stessa, poiché l'etica è una religione o una filosofia o perfino una incerta narrazione, ma non un'ideologia; terzo, il diritto è una serie di caselle particolari, che riconoscono la distinzione ma non la dissociazione tra etica e legge, caselle normative fondate su una norma fondamentale derivata dall'osservazione razionale della natura, della sua struttura creaturale e metafisica, e da principi dati, tramandati o rivelati, altrimenti il diritto si trasforma in un mostro onnipotente autoreferenziale come il Leviatano contrattualista, il contratto sociale giacobino, lo stato etico, lo stato autosufficiente del positivismo giuridico eccetera, fino al partito unico e alla classe, se vogliamo.
La parte più direttamente teologica dello scritto di Vito Mancuso è molto bella, conduce a conclusioni sentite con intensità e ragionate con grande intelligenza della cosa. Mi stupisce però. Mi stupisce come non credente, tanto per cominciare, il cristianesimo come implausibilità assoluta. Mancuso dice che nessun Cristo e nessun Pietro riscatterà dal suo dolore o dalla sua condizione vegetativa Eluana, come avvenne per la figlia di Giairo nel vangelo secondo Marco (l'episodio è rammentato dal cardinal Tettamanzi). Hai voglia a pregare, “non accade nulla di quanto richiesto”.
I miracoli sono cose successe tanti anni fa, e oltre tutto più che cose sono segni, questo è vero; ma che cosa resta della fede, sia pure di una fede da rifondare come quella che professa il teologo laico Mancuso, quando la sostanza di cose sperate si dissolve nell'implausibile, si scioglie nella corrosione acida dell'inverosimile? In che cosa si è salvi, di grazia, nella speranza o nel testamento biologico? E quanto alla ragione, che è quel che mi interessa come non credente, devo dunque rassegnarmi a restringerla ai dati sperimentali, alle diagnosi e alle prognosi piuttosto fallibili del possibile tecnico-scientifico, alla dimensione utilitaria che si disinteressa della verità? E l'impulso di allargarne lo spazio fino a comprendere la nozione di fede come elemento cruciale della condizione umana e della storia sociale del mio tempo, che debbo fare, debbo bruciarlo sull'altare del realismo, del relativismo e della solita vecchia morte di Dio? Certe volte il professore non ti lascia scampo.
Le teologie danno sempre il meglio di sé quando trattano la figura del padre, e lo scritto di Mancuso anche in questa ultima parte, dedicata al padre terreno e a quello celeste di Eluana, non fa eccezione (3). Mi fermo sulla soglia di questa definizione del divino, di questa teodicea complessa e sottile, semplice e beata, che Mancuso porta per mano a conclusioni da spirito assoluto hegeliano, conclusioni trionfanti e felici che parlano di “esercizio della libertà consapevole” come soluzione finale del problema, come happy ending. Mi limito a questa osservazione. L'esercizio della libertà consapevole non è la scelta etica che noi facciamo per risolvere il problema della distinzione del bene e del male, non del bene e del male per noi ma del bene morale in sé e per sé: l'esercizio consapevole della libertà è il problema, è il dilemma, è il metodo che si autotrascende accettando il tabù della vita indisponibile o realizzando la possente signoria dell'uomo sull'uomo. Il professore non sempre ti lascia scampo, ma qui non si scappa.
(1) Come ha detto con altre parole il cardinal Ruini nella sua straordinaria conversazione con Marco Burini (Il Foglio, 17 luglio), la teologia laica di Vito Mancuso rompe la forma cattolica ma si propone come modello di pensiero e di scrittura alternativo a una teologia accademica, irrilevante o inerte. Questo intervento del professor Mancuso sul caso di Eluana Englaro, la giovane donna priva da molti anni di coscienza vigile, del cui diritto di continuare a “vivere così” o di lasciare il mondo si sta discutendo oggi in Italia, dimostra che Ruini ha ragione.
(2) In tema di relativismo etico è anche significativa la citazione gloriosa e finale dal cardinal Martini, influente uomo di chiesa convinto che debba essere difeso lo spazio di un relativismo cristiano, anche nella tempesta veritativa scatenata da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI a coronamento del dramma novecentesco del Concilio. Dice il Martini citato da Mancuso che la dignità del vivere è più importante del vivere. Ora il bios, il vivere biologico, ha un ancoraggio materiale e oggettivo all'essere e al divenire, perché si coglie la differenza tra un corpo caldo e uno freddo, tra un occhio che si apre al mattino e un occhio che non si aprirà mai più; mentre la dignità del vivere è letteralmente disancorata, galleggia nel mare dello spirito, nella decisione di coscienza del soggetto umano libero. La dignità del vivere in opposizione alla vita biologica ha per sé forse la più vera e bella delle realtà cristiane, l'affermazione dello spirito contro la carne, ma è anche equivocabile, è esposta ai sofismi dell'Anticristo e alle lusinghe della disperazione, che cristiana non è, e alle seduzioni del nulla.
(3) E' un errore, secondo me, attribuire lo spirito maligno dell'insinuazione personale, frutto per di più di odio teologico deviato e dunque di fanatismo arcaico, da rogo inquisitoriale, a coloro che criticano duramente come “condanna a morte” la sentenza voluta dal padre di Eluana. E' un punto a cui tengo molto, riemerso sempre maldestramente in tutte le polemiche sull'aborto di questi mesi (sei contro l'aborto e allora dici che le donne sono assassine). Io non sono d'accordo con la critica all'amore di padre di Beppino Englaro, che è al di sopra di ogni considerazione, in quanto tale, in quanto amore. Ma le cose vanno nominate con il loro nome. Una sentenza che toglie la vita è una condanna a morte, come la distruzione di un feto nel grembo materno è un omicidio. Il che non implica affatto la responsabilità personale dei giudici o del padre ricorrente o della gestante. Mi viene da dire: magari fosse tutto risolvibile in termini di responsabilità personali. Qui è in atto una dialettica di grazia e peccato, da una parte, come nella vita di ciascuno di noi, e una guerra culturale del tutto impersonale all'inservibile concetto di persona umana, un avanzo del cristianesimo che il secolarismo ideologico tende a gettare nella discarica dei suoi incubi.
Leggi La scelta sulla propria vita è conforme al volere di Dio. Il dramma è che in questo caso manca di Vito Mancuso.
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