Ricercato per genocidio, latitante da 13 anni, responsabile del massacro di Srebrenica
Catturato in Serbia Radovan Karadzic
Tuzla. Arrivano da ogni angolo della terra, il loro lavoro è quello di recuperare i corpi degli scomparsi. Li vedi all'opera nelle fosse comuni, negli obitori, nelle celle frigorifere, concentrati su scheletri ridotti in pezzi.
Dal Foglio del 9 luglio 2005
Tuzla. Arrivano da ogni angolo della terra, il loro lavoro è quello di recuperare i corpi degli scomparsi. Li vedi all'opera nelle fosse comuni, negli obitori, nelle celle frigorifere, concentrati su scheletri ridotti in pezzi. Inglesi, francesi, americani, ma soprattutto bosniaci. Ti colpisce lo sguardo rilassato e rispettoso. Se volessi dare un volto umano alla pace e alla serenità dovresti ritrarre i loro visi. E allora, mentre guardi quell'archeologa forense china sullo scheletro di una mano che esce dalla terra di una fossa comune o quel giovane medico che sta prelevando con una piccola sega elettrica un campione di dna da un femore, non puoi fare a meno di pensare che loro siano degli angeli. Sono gli angeli di Icmp, International commission for missing people. Il loro lavoro è quello di cercare i dispersi delle guerre della ex Jugoslavia e in particolare quelli di Srebrenica. I più numerosi. Da un lato hanno un elenco con su scritti più di ottomila nomi, dall'altro tanti pezzi di ossa da ricomporre. Scheletri che un nome non ce l'hanno più, da dieci anni.
Ottomila e sedici persone, ma è un bilancio provvisorio, uccise due volte. La prima in quei giorni del luglio 1995, quando i serbi guidati da Ratko Mladic entrarono a Srebrenica, rubarono le uniformi agli olandesi e, travestiti da soldati delle Nazioni Unite, massacrarono ottomila persone. La seconda volta alla fine della guerra, quando gli occhi dei satelliti, su nello spazio, iniziarono a rivelare al resto del mondo che cos'era successo in quella piccola enclave bosniaca nel cuore della Repubblica Srpska. Dal cielo si vedevano le fosse comuni con migliaia di cadaveri accatastati. Fu allora che i serbi decisero a tavolino di uccidere un'altra volta. Si procurarono le armi, ruspe e tir, e tornarono sulle fosse comuni. Con le ruspe scavavano e caricavano i corpi sui grandi camion che partivano per destinazioni ignote e disseminavano i morti di Srebrenica in fosse sempre più piccole. Ma ci volevano tre, quattro o cinque viaggi per distruggere una fossa e ogni volta le ruspe scavavano e poi ripassavano più e più volte sulla buca creata, per spianare il terreno e nascondere quello che stava succedendo. E ogni volta le ossa venivano ridotte in pezzi sempre più piccoli, mentre un frammento di un piede andava a finire in Kosovo e quello di un braccio della stessa persona andava a finire in Croazia a bordo di grandi camion che trasportavano morte. Allora i satelliti dal cielo smisero di mandare sulla terra le fotografie delle grandi buche della morte. Ma arrivarono gli angeli di Icmp. Era il 1996 quando iniziarono il loro titanico lavoro.
Il viaggio di ritorno a Srebrenica degli scheletri è fatto di tappe lunghe e difficili e inizia nelle fosse comuni. I primi a entrare in azione sono gli archeologi forensi. Lavorano sulle fosse comuni proprio come su uno scavo archeologico, ma non trovano statue né monumenti. Contano le costole, le vertebre, le ossa delle mani e dei piedi, recuperano pezzi di crani frantumati, frammenti di abiti, cinture e oggetti personali, registrano con precisione sui loro taccuini la stratigrafia del sito. Mettono tutte le ossa che sembrano appartenere a una parte del medesimo corpo in piccoli sacchetti di plastica e tutti i sacchetti in grandi buste bianche. Come hai deciso di fare questo lavoro? Ho chiesto a una di queste archeologhe speciali. “Non lo so – mi ha risposto sorpresa – è una domanda molto strana, finora non me l'aveva mai chiesto nessuno, l'ho fatto e basta”.
Le grandi buste bianche vengono caricate a bordo delle macchine di Icmp. Inizia così il lungo viaggio di ritorno verso casa. La prima tappa è il centro di identificazione di Podrinje. Andranno a finire dietro una porta gialla. La maniglia è quella delle chiusure ermetiche, è quella delle celle frigorifere.
Quando entri ti si gela il sangue, e non sono i 4 gradi centigradi. E' l'odore della morte: 800 scaffali con più di tremila grandi buste bianche infilate una accanto all'altra. Uguali a quelle che gli archeologi hanno riempito poco prima alla fossa comune. Le chiamano body bags. Dentro ci sono le ossa. Una persona intera, se si è fortunati, altrimenti pezzi di corpi mescolati.
La prima cosa da fare è aprire le body bags e separare le ossa dagli effetti personali. I vestiti vengono lavati, asciugati e conservati in buste di carta. Prima però vengono fotografati e pubblicati su un grande libro. E' il primo passo verso il riconoscimento. I parenti degli scomparsi possono riconoscere gli effetti personali dei loro cari dalle fotografie. Una cintura, un paio di scarpe, un mazzo di chiavi possono farti avere il certificato di morte di tuo padre, tuo figlio, tuo fratello e soprattutto possono darti una tomba su cui piangere i tuoi morti.
I corpi intanto, o quel che ne rimane, giacciono nei frigoriferi in attesa della tappa successiva: il centro di riassociazione di Lukavac, una casetta davanti a un binario della ferrovia che sembra uscito dall'ultimo film di Kusturica. Qui ad aspettarli, in una stanza tutta a piastrelle nere lucide, con un piccolo lavandino e uno scolapasta, c'è Meho, un signore bosniaco sulla quarantina. Meho si china a terra, apre la body bag e prende i sacchetti. Si avvicina al lavandino, li apre. L'odore che avevi sentito prima nei frigoriferi ritorna ad appiccicartisi addosso, più intenso. Meho nel frattempo ha messo le ossa di un sacchetto nel colapasta e le sta lavando con cura, una per una, per assicurarsi che tutte siano recuperate. Quando ha finito le ripone su una rete metallica lì vicino e aspetta che asciughino per portarle al piano di sopra, dove un gruppo di giovani ricercatori le sta aspettando. “La cosa più importante che facciamo qui – spiega Cheryl Katzmarzyk, il capo di questa struttura – è riassemblare le persone. Per prima cosa bisogna capire quanti individui ci sono in una body bag e poi bisogna determinarne il sesso e l'età”. Prendono queste informazioni con un'analisi autoptica. Simulano l'ordine in cui gli archeologi hanno trovato le ossa nella terra e cercano di trovare il bandolo della matassa aggrovigliata della morte. Ricostruiscono un cranio con tutti i suoi denti, le mani, i piedi, tutto quello che è possibile.
La forma delle ossa
“Il bacino è la parte migliore per determinare il sesso del defunto”, continua Cheryl Katzmarzyk. “La forma delle ossa ti può rivelare se lo scheletro che stai guardando apparteneva a un uomo o a una donna. La pelvi, per esempio, quando è ricomposta è più larga negli uomini”. Ma non hanno mai visto lo scheletro di una donna qui a Lukavac, perché a Srebrenica hanno ucciso soltanto uomini. Giovani e vecchi, senza distinzione, tra i 10 e i 77 anni. Dopo l'analisi autoptica si passa al dna. Un rumore assordante, una nuvola di polvere di osso si alza dal tavolo: una piccola sega elettrica sta tagliando un frammento da analizzare. I corpi riassemblati ritornano al centro di Podrinje, nei frigoriferi, impacchettati in nuove body bags. Il campione osseo invece è destinato a un laboratorio, nel centro di identificazione di Tuzla, per il dna. I parenti sopravvissuti devono donare a loro volta il dna. Quattro piccole gocce di sangue su un foglietto di cartoncino bianco per capire se tra quelle migliaia di ossa c'è tuo padre, tuo fratello o uno dei tuoi figli. La risposta definitiva arriva da un computer: un software sofisticato. Tanto preciso che perfino gli americani dopo l'11 settembre sono venuti qui a copiarlo. In questo angolo di mondo dimenticato, sul confine tra oriente e occidente. Anche dopo lo tsunami, l'unica soluzione per rimettere ordine a quel caos creato dalla forza della natura è stato venire qui, a Tuzla, a imparare come si fa a ridare un nome alle ossa. Triste soddisfazione da una tragedia inspiegabile. Il database contiene tutte le informazioni necessarie. Combinazioni di numeri, lettere e colori. Controlla, allinea e accoppia. Il dna delle ossa dei morti da una parte e quello dei parenti sopravvissuti dall'altra. Alla fine la risposta tanto attesa. Accanto al numero di catalogazione degli scheletri appare un nome.
Un'ultima analisi, solo per sicurezza. Al centro di Podrinje lo scheletro viene tolto dal frigorifero e portato nella camera mortuaria. Gli anatomopatologi cercano segni di riconoscimento. Misurano le ossa per risalire all'altezza della persona, rilevano una fessura tra gli incisivi, trovano una vecchia frattura a un braccio o a una gamba. Solo alla fine contattano i parenti.
“L'abbiamo trovato”. Una notizia attesa da tempo. La morte adesso è accertata. Si spegne l'ultima speranza conservata nel fondo dei cuori per dieci anni. I parenti adesso hanno in mano un foglio con sopra un timbro, un certificato di morte. Il corpo torna ad avere un nome e può compiere l'ultima tappa del suo viaggio di ritorno verso casa.
A Potocari, davanti alla base dell'Onu dove è successo tutto c'è un grande prato semivuoto. E' un cimitero con 8.500 posti. Soltanto 1.323 sono occupati. Il corpo con il suo nome adesso può tornare lì, dove è successo tutto. Qui il defunto ha visto sua moglie, sua madre e le sue figlie per l'ultima volta l'11 luglio del 1995. Qui c'è un posto vuoto, una tomba che lo aspetta. Qui le donne sopravvissute potranno venire a pregare e piangere, nel luogo dell'ultimo saluto.
L'11 di luglio, nel giorno del decimo anniversario del massacro, verranno sepolti circa 600 corpi riconosciuti negli ultimi mesi. Un nuovo funerale di massa. Il numero delle tombe occupate salirà a circa 2.000. Gli angeli di Icmp continueranno a lavorare per gli altri 6.000 scomparsi. A Potocari sventola fiera una bandiera bosniaca, all'ingresso del cimitero, enclave musulmana nel cuore della Repubblica Srpska. Alcuni serbi a Srebrenica e altrove insistono: “Questo è il nostro territorio”. Per ora i corpi riposano in pace.
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