Melodie di un randagio

Piero Vietti


Alan Thomas Waits nacque il 7 dicembre del 1949, con la barba di tre giorni, sul sedile posteriore di un taxi. Appena fuori chiese al tassista di dirigersi in fretta a Time Square, l’autista non lo fece scendere fino a che non gli fu pagata la corsa.

Alan Thomas Waits nacque il 7 dicembre del 1949, con la barba di tre giorni, sul sedile posteriore di un taxi. Appena fuori chiese al tassista di dirigersi in fretta a Time Square, l’autista non lo fece scendere fino a che non gli fu pagata la corsa. Subito Tom si diede da fare per cercare un lavoro, ma data la giovane età trovò solo un posto da sindacalista al reparto maternità, da cui venne però licenziato dopo pochi giorni. Da allora rimase parecchio disilluso sul sindacato. Ha ricordi nitidi della sua infanzia: la musica messicana ascoltata dal padre Frank e il giorno in cui capì che avrebbe suonato nella vita: ancora bambino tornava dal turno in fabbrica, erano i giorni di Natale, e nella vetrina di un banco dei pegni vide un sassofono luccicante. Tornò a casa di corsa e chiese alla madre quello strumento in regalo. La madre tornò con lui al banco dei pegni. La luna era alta nel cielo. La signora Waits prese un mattone, sfondò la vetrina e regalò al piccolo Tom quel sax. Il resto è storia. Uno degli zii di Tom, Robert, aveva suonato l’organo in chiesa per una vita e quando lui era bambino andò in pensione: la parrocchia gli aveva permesso di portarsi a casa lo strumento, e ogni volta che il nipote andava a trovarlo rimaneva conquistato da quelle canne che si infilavano su, in alto, fin dentro al soffitto. Quando lo zio suonava faceva tremare i muri, le pareti di casa sua erano completamente scrostate, e oggetti e vestiti erano sparsi alla rifusa sul pavimento e in giro per le stanze. Una finestra rotta era appoggiata in un angolo e tutto era così affascinatamente trasandato, che Tom chiese alla madre perché non potesse tenere camera sua come lo zio teneva la sua. “Ma Tom – gli disse lei – zio Robert è cieco”.

Tom Waits è uno di quelli che non si possono immaginare bambini. Per questo è normale credere alla storia della barba di tre giorni e a tutto il resto. E’ sempre stato vecchio. Senza invecchiare mai. Quando a ventiquattro anni cominciò a raccontare al mondo le storie malinconiche dei suoi personaggi apparentemente sconfitti dalla vita con una voce da ciucca triste, fu chiaro che ci si trovava di fronte a un genio. Eppure quello era ancora poco rispetto a quanto avrebbe fatto vedere nei successivi trentacinque anni semplicemente ascoltando quello che la realtà faceva accadere. Facendo il lavapiatti al Napoleone’s Pizza House di National City, cominciò a girare per i tavoli durante le lunghe nottate di lavoro e a rubare vite dalle persone sedute a bere qualcosa. Pezzi di dialoghi, pianti disperati, mezze confessioni: Tom appuntava tutto e quando metteva insieme quelle parole le canzoni nascevano da sole.

La leggenda vuole che una sera, ubriaco, si mettesse al piano a fine serata e incantasse i pochi superstiti ancora seduti nel bar facendoli piangere e ridere insieme per ore. Due anni dopo, il suo primo disco racconterà proprio il pubblico di quella sera, e lui diventerà l’uomo solitario che in un monologo silenzioso fatto al tavolino di un locale pieno di fumo, immagina di parlare a una donna bellissima seduta a un altro tavolo: “Spero di non innamorarmi di te, perché innamorarmi mi rende triste”, canterà chiedendosi se alzarsi a conoscere quella ragazza. Quando si deciderà a farlo, però, la donna se ne sarà andata per sempre. E lui ordinerà un altro bicchiere. Poche canzoni dopo Tom diventerà Tom Frost, un uomo vecchio che chiama dal centralino la fidanzata di cinquant’anni prima, Martha, per chiederle come sta (trattenendo a forza le lacrime), in un crescendo stupendo che lo porta, a fine chiamata, a urlarle sussurando il suo amore ormai impossibile: “I love you, can’t you see?”.

Tom Waits sembra uscito da certi quadri di Edward Hopper, quello dei nottambuli nel bar con le vetrate nella notte di New York, dai viaggi di Kerouac o dalla penna allucinata di Bukowski. Non finge, Tom: diventa i suoi personaggi apparentemente disperati ma sempre in attesa dell’alba, che “arriverà come un colpo di frusta”, sotto un “cielo rosso borgogna” e una luna “che versa champagne di stelle”. Con gli anni, complici desiderati le sigarette e l’alcol, la sua voce diventa carta vetrata, viscere, marmitta, quasi rigurgito e infine strumento folle e dolcissimo. Una sera esce di casa, compra in un discount due bottiglie di whiskey, se le scola e torna a casa. Sdraiato sul suo pianoforte scriverà uno dei suoi capolavori, “Tom Traubert’s blues”, quello del walzer con Matilda, la sacca dei giramondo, quelli senza una casa. Pochi anni prima sussurrava forte in “Shiver me timbers”: “Accidenti! Io salpo! E la nebbia sale, la sabbia si muove. Io prendo il largo. O capitano Achab, non hai niente da dirmi? E tu dimenticami, non seguirmi. Io viaggio da solo”.

La voce cambia album dopo album, ed è come se man mano scavasse sempre più in profondo, a cercare quello che i suoi personaggi, e quindi lui, attendono veramente. Le cose desiderate arrivano quando uno le attende, come canta in “San Diego Serenade”: “Mai visto il mattino prima di avere vegliato tutta la notte, mai visto l’alba prima di aver spento la luce, mai visto casa mia prima di una lunga lontananza, mai sentito la melodia prima di aver bisogno di una canzone”. Ogni disco è una notte. E papponi, prostitute, spogliarelliste, ubriachi, angoli di città e macchine enormi su strade sconfinate che però alla fine riportano a casa, sono i protagonisti di ognuna di queste notti gracchiate da Tom Waits e disegnate da quel sassofono di cui si innamorò da bambino, dagli archi e da quel piano che lui in una canzone accusa di essere il vero ubriaco (“E’ il pianoforte che ha bevuto, non io”).

Poi. Quando alla fine degli anni Settanta Tom Waits è ormai un’istituzione della musica internazionale (paradossalmente vende molto più in Europa che nei suoi Stati Uniti) decide di dare idealmente fuoco a tutto (come Frank, il personaggio di una sua canzone) e ricominciare. Inventando qualcosa che prima non si era mai sentito. E che nessuno riuscirà mai a imitare. Ma ogni cambiamento che si rispetti nella vita di un uomo non nasce da una riflessione cervellotica su se stesso, ma dall’incontro con qualcuno. Meglio se quel qualcuno è la donna della propria vita. Mentre sta lavorando alle musiche del film dell’amico Francis Ford Coppola “One from the heart”, e vive in una stanza tutta sua negli studios (con pianoforte annesso), una ragazza che lavora alla produzione viene mandata dai piani alti a portargli una comunicazione. La ragazza si chiama Kathleen Brennan, bussa alla sua porta e quando Tom le apre capisce che lei è proprio quel qualcuno che aspettava. Un anno dopo la sposa, smette di fumare (e qualche anno più tardi di bere) e inventa “Swordfishtrombones”, un disco che cambierà la storia della (sua e non solo) musica. “Spadapescetromboni” fatica a trovare un produttore, nessuno vuole rischiare di mettere soldi in una cosa mai sentita prima. Quando esce è un trionfo.


Tom Waits



La vita di Tom diventa di colpo ordinata
, ma è lui stesso a dire che il suo lavoro “è sempre più allucinante”. Abbandonato il sax, Tom passa dalla musica rubata ai dialoghi della gente nei bar alla musica scovata direttamente nella realtà. “Il mondo fa musica in continuazione”, dice. Così trova il ritmo in una sedia trascinata per terra, in una porta che sbatte, in due assi di legno che si colpiscono tra loro e in una voce che è sempre più strumento musicale unico al mondo. Non c’è una canzone cantata uguale all’altra: tutto quello che vede diventa musica: “In the neighborood” è il racconto della vita di quartiere vista da una banda da circo che passeggia per le strade, si ferma a brindare a ogni incrocio, canta quello che vede e passa oltre. Tom e Kathleen si trasferiscono a New York, e lui gira per la città con un registratore: cattura tutti i suoni che sente, dal traffico ai lavori di un cantiere, e li riascolta la notte per tirarne fuori la melodia nascosta. La Grande Mela sembra fatta apposta per Tom, che dice: “E’ difficile vivere con dignità dato che non è un posto molto civile. Devi essere un po’ sbalestrato; se non ti adegui, New York ti spezza perché è la città stessa ad essere sbalestrata. Non è rotonda, è come un girotondo e tutte le volte che ti fermi è sempre in un posto diverso. Così se cerchi di procedere per linee rette ti stronca. Richiede un allenamento speciale”.

Comincia a fare tutto il contrario di quello che una strategia di marketing di un cantante imporrebbe: i suoi video escono quando l’album ha già venduto, va in tour anche se non è uscito nessun disco e non fa il “cantante impegnato” parlando di politica, ambiente o fame nel mondo con atteggiamento da guru. Più la vita di Tom diventa “normale” più la sua musica è eccezionale, nuova, fuori da ogni schema. Forse è l’unico artista catalogato sotto quasi tutti i generi musicali, dal jazz al blues, passando per il funky fino al rock. Insieme a “Swordfishtrombones” nasce la prima dei suoi tre figli, Kellesimone. “Non volevo essere come il tipo che si sveglia a sessantacinque anni e fa: ‘Dio mio, mi sono dimenticato di avere dei figli’ – diceva – Voglio dire, qualcuno si è preso la briga di metterci al mondo, giusto?”. Alla moglie dedica canzoni che sono continue dichiarazioni d’amore. Spesso canta i luoghi in cui lei è vissuta, bellissimi proprio perché c’è lei, come in “Johnsburg, Illinois”: la canzone dura un minuto e mezzo, pianoforte e voce. Una dichiarazione di fretta, fatta a chi ascolta, “come quando un uomo mostra la foto della moglie che tiene nel portafoglio prima di infilarsela di nuovo in tasca”, dirà.

La realtà continua a suggerirgli musica e testi per le sue canzoni: “Le parole sono dovunque. Tutto quello che devi fare è guardare fuori dalla finestra ed ecco migliaia di parole”. Waits continua a raccontare i derelitti, i vagabondi e i quartieri degradati. Con un’altra musica. Nel 1985 li canta chiamandoli “rain dogs”, cani randagi e ribadendo che lui continua a essere uno di loro (“For I am a rain dog too”). In questo disco, con musiche ancora più assurde e bellissime, Tom alterna con geniale naturalezza testi poetici (“E fingono tutti d’essere orfani, il loro ricordo è come un treno sempre più piccolo mentre se ne va. E tutto quello che non riesci a ricordare dice a quello che non riesci a dimenticare che la storia mette un santo in ogni sogno”) e sconcertanti (“E io inciampo sempre nella coda del demonio, tra le strisce di una luna piena. Dalle sbarre di una cella cubana. Dita insanguinate su un coltello porpora. Un fenicottero sorseggia un cocktail. Io sono sul prato con la moglie di qualcun altro”). Diventa man mano più inafferrabile, impossibile da incasellare in una definizione. Quando si pensa di averlo acciuffato lui è già da un’altra parte. 

Assurde riunioni di famiglia tra parenti cattivi, viaggi folli a Singapore e bicchieri di rum bevuti a ritmo di rumba si affacciano nella sua musica. E con loro la morte, il diavolo e il bisogno di una redenzione che per forza deve arrivare da quella realtà da cui lui estrae tutti quei suoni. Tre anni dopo mette in scena un musical teatrale sulla vita di Frank (quello che in “Swordfishtrombones” bruciava tutto e cambiava vita). “Sogna via le lacrime dagli occhi, sogna via i dolori, sogna via tutti gli addii, sogna via i domani” canta triste in “Frank’s wild years”, ma “più avanti la strada ha una svolta, una svolta per te e per me”. Tom Waits è veramente cambiato, e anche se i giornalisti di mezzo mondo continuano a raccontare dell’ubriacone fumatore incallito che passa da una donna all’altra, lui ha messo su una famiglia che resiste da quasi trent’anni (Kathleen scrive le canzoni con lui e i figli suonano in tourneé nella sua band), non beve più ed è diventato una persona “normale”. Anche se “that feel”, quella cosa dentro, non lo abbandona mai, come canta in una sorta di coro da osteria con l’amico Keith Richards, il chitarrista dei Rolling Stones (“Conosciuto in un negozio di biancheria intima”) che ancora oggi non si capacita di come Waits abbia potuto smettere di bere: “Ma c’è una cosa che non puoi perdere ed è quella cosa dentro. Puoi perdere i tuoi pantaloni, la tua maglia, le tue scarpe, ma non quella cosa dentro. La puoi gettare sotto la pioggia, bastonare come un cane o abbattere come un vecchio albero morto ma c’è sempre”. La canzone è in un album percorso dal passo della morte, “Bone Machine”. E se Tom dice che “saremo tutti solo polvere per terra” e si chiede “possono vivere queste ossa rinsecchite?”, fa anche dire a un ubriaco sognatore che “Gesù verrà a momenti”. Naturalmente, in una canzone di Waits Gesù non può che spuntare all’orizzonte “su una Ford nuova di zecca”; quindi – gracchia la sua voce – “occhi aperti”. 

Gli stessi occhi aperti che gli fanno venire spunti per i suoi pezzi guardando “una rissa tra magnaccia dodicenni impellicciati con dei coltelli a serramanico” o un ritaglio di giornale: un giorno vede un servizio su una donna morta suicida annegata nell’oceano. Per caso un fotografo di passaggio l’aveva immortalata alcune ore prima proprio davanti al mare, non sapendo che il giorno dopo avrebbe scattato un’altra istantanea allo stesso corpo senza vita. Tom vede le due foto e scrive “The ocean doesn’t want me today”, l’oceano non mi vuole oggi, immaginando i pensieri di quella donna davanti alle onde.

In una surreale conferenza stampa fatta prima del suo tour negli Stati Uniti, ha spiegato di aver scelto i posti in cui suonare sovrapponendo la costellazione dell’Idra alla cartina americana (ogni stella un concerto) e andando in alcune città “perché là c’è un tale che mi deve dei soldi”. Dopo avere risposto a tutte le domande dei giornalisti si è alzato, ha indossato la sua bombetta e ha spento un giradischi. Di colpo in sala stampa si è fatto silenzio. La telecamera ha allargato la ripresa: solo sedie vuote nella stanza, le voci dei giornalisti rimaste là, dentro a quel vinile. Lui racconta che la sua voce roca, da orco delle favole, gli è venuta cercando di imitare quella dello zio Vernon, operato alla gola da bambino. Dopo l’operazione, il medico aveva però ricucito la gola dimenticando un paio di forbici e una garza dentro. Forbici e garza vennero sputati sul tavolo dallo zio Vernon dopo un colpo di tosse durante il pranzo di Natale. Che fosse colpa dell’alcool o merito dello zio Vernon in realtà poco importa: non avendo mai preso una sola lezione di canto, Tom Waits inventa e modifica questo suo strumento con cui crea musica anche solo respirando (come in “Little drop of poison”, colonna sonora di “Shrek 2”) o scendendo così in basso da sembrare veramente provenire dall’inferno.

Notti e albe che si inseguono attendendosi l’un l’altra, primavere che fuggono e diventano inverni (“ma l’erba ricrescerà”), strade buie e immense che fanno da palcoscenico ai suoi diseredati che aspettano Dio, lo bestemmiano, lo cercano (anche se “Dio è fuori per affari”), vorrebbero addirittura aiutarlo (o si inginocchiano di fronte a un “Gesù di cioccolato”); dichiarazioni d’amore alla donna che gli ha cambiato la vita, storie di viaggi malinconici; ma anche suicido, morte, cose che finiscono e non torneranno mai più, uomini certi che l’amore resta anche se tutto passa via: nella musica di Tom Waits c’è tutto questo e anche molto di più. Ci sono tutta la tristezza, la gioia, la follia, il ritmo, il mistero, la bellezza, l’amore e il male del mondo. Ma proprio per questo c’è ancora un sacco di spazio. D’altra parte, “il mondo fa musica in continuazione”.


Il 17, 18 e 19 luglio 2008 Tom Waits ha suonato a Milano, unica tappa del suo Glitter and Doom Tour, dopo nove anni di assenza dai palcoscenici italiani. In Italia c'è un suo fan club ufficiale, il Blue Valentine (www.tomwaits.it). In Italia è anche disponibile la sua biografia, "Wild Years, la musica e il mito di Tom Waits" di Jay S. Jacobs, edito da Arcana, da cui sono tratte parte delle citazioni.

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.