C'è Kriminal al telefono. La risposta di Sergio Soave

Che cosa hai capito dalla lettura delle memorie di Giuliano Tavaroli? /4

Sergio Soave

Una premessa scontata ma doverosa. Un imputato ha il diritto di difendersi anche mentendo, è una facoltà che gli è concessa dal codice penale, che infatti non prevede il reato di falsa testimonianza per gli imputati ma solo per i testimoni. Giuliano Tavaroli quindi ha il diritto di dire quel che gli pare e lo esercita con dovizia insindacabile.

Leggi anche le risposte di Marco Ferrante, Daniele Bellasio e Francesco Cundari.

    Una premessa scontata ma doverosa. Un imputato ha il diritto di difendersi anche mentendo, è una facoltà che gli è concessa dal codice penale, che infatti non prevede il reato di falsa testimonianza per gli imputati ma solo per i testimoni. Giuliano Tavaroli quindi ha il diritto di dire quel che gli pare e lo esercita con dovizia insindacabile. Vuole presentarsi come il capro espiatorio di una cospirazione ad amplissimo raggio della quale sarebbe stato solo un fedele esecutore, il che porta il suo interesse a coincidere con quello di coloro che hanno avviato una colossale campagna di stampa sulla “nuova spectre” che il tribunale ha trovato priva di appigli e di riscontri escludendo Marco Tronchetti Provera dalle incriminazioni. Giuseppe D'Avanzo, invece, non è imputato di nulla, il che non gli dà il diritto legale di mentire.

    Naturalmente D'Avanzo non lo fa direttamente, usa e gestisce le dichiarazioni di Tavaroli per rimettere in piedi il suo teorema, anche se non è stato ritenuto fondato in sede giudiziaria. Tavaroli, che non ha nulla da perdere, mette il colpo in canna, e D'Avanzo preme il grilletto coprendosi col principo del diritto di cronaca, che consente al giornalista di riportare dichiarazioni altrui senza portarne, a quel che pare, la responsabilità penale. Così si può sparare in prima pagina, scritto a caratteri di forte evidenza “Il dottore voleva sapere se Colaninno pagò tangenti. Fu un lavoraccio. Trovammo a Londra il conto Oak Fund: Fassino e Rossi avevano la firma”. Bisogna leggere con attenzione: non c'è scritto che Tronchetti abbia ordinato di fare indagini su Colaninno, non c'è scritto che siano state pagate tangenti, non c'è scritto che le abbia ricevute Piero Fassino su un conto londinese. Chi legge, invece, capisce proprio quello che si vuole far capire senza dirlo esplicitamente. Così il plotone di esecuzione spara, ma nasconde la mano, come con le propalazioni selettive delle intercettazioni telefoniche, e forse anche peggio.

    Una condotta al limite della deontologia. Se alle allusioni di Tavaroli, che sono state espresse anche negli interrogatori giudiziari, fosse collegato uno straccio di prova, l'incriminazione di Tronchetti e un avviso di garanzia a Fassino e a Nicola Rossi sarebbero stati inevitabili. Invece niente di tutto ciò, e D'Avanzo sa benissimo che cosa significa, cioè che quelle dichiarazioni (fatte da un imputato che ha diritto legale a mentire) non sono suffragate da alcun riscontro oggettivo. La caparbia volontà di rilanciare la sua tesi sulla spectre italiana può aver indotto il giornalista a insistere anche in questo modo che rasenta ogni codice deontologico.

    Ci si domanda perché il responsabile del quotidiano abbia deciso di sostenere in modo così evidenziato la campagna del suo collaboratore, a rischio di rendere roventi i rapporti col maggiore partito di opposizione. I casi sono due: o a Rep. credono a Tavaroli e sono convinti che se saranno ammesse come prove le intercettazioni illegali ci saranno anche i riscontri delle accuse, o pensano che un altro scandalo colossale impedirebbe al Pd di collaborare seppure criticamente alla stretta sulle intercettazioni annunciata dal governo. In ambedue i casi se ne infischiano della reputazione e dell'onorabilità di persone che hanno l'unica colpa di rivestire o d'aver rivestito incarichi politici.

    Leggi anche le risposte di Marco Ferrante, Daniele Bellasio e Francesco Cundari.