L'analisi di Francesco Forte
Sorpresa, l'Italia tira
L'Italia al secondo posto nella classifica mondiale dell'export dietro alla sola Germania. Il nostro commercio estero è competitivo e dinamico, ed esercita una leadership vicina a quella tedesca.
Do il benvenuto a Mario Pirani nel club dei “non pessimisti”. Una società che, nonostante questa preziosa adesione, rimane riservata a pochi iscritti. In fatto di economia, nel nostro paese i declinisti sono ancora la maggioranza. Pirani, in un articolo pubblicato ieri su Repubblica, colloca l'Italia al secondo posto nella classifica mondiale dell'export dietro alla sola Germania. Il distacco sarebbe ancora più modesto se, assieme al centronord, non ci fosse il Mezzogiorno. Il nostro commercio estero è competitivo e dinamico, ed esercita una leadership vicina a quella tedesca. Se ciò è vero – e appare vero, stando ai dati che Pirani cita, tratti dagli studi di Marco Fortis pubblicati sui Quaderni della Edison – se ne desume che abbiamo un apparato industriale efficiente e ben inserito nell'economia dei mercati globali.
Fortis, professore all'Università Cattolica, commenta statistiche realizzate dalla Wto e dell'Unctad (la conferenza per il commercio e lo sviluppo dell'Onu). In particolare si sofferma sull'indice Tpi (Trade Performance Index, ndr) che riguarda la performance di 189 paesi nel commercio internazionale. Gli indicatori del Tpi sono il saldo dell'export, le esportazioni per abitante (quelle assolute sono viziate dalla diversa dimensione demografica dei vari stati), la quota dell'export di ogni stato sul commercio mondiale, la sua posizione rispetto a 14 macrosettori industriali.
Al primo posto c'è la Germania, al secondo l'Italia. La Germania conta su sette primi posti e due secondi, l'Italia ha tre primi posti (tessile, abbigliamento, pelli e cuoio) e quattro secondi: meccanica non elettronica, quasi a pari con la Germania, elettromeccanica, manufatti di base (come marmi, piastrelle, ceramiche, metalli) e industrie varie (occhiali, oreficeria eccetera). L'Italia è anche prima nel mobile, ma questo settore è legato al legno. Abbiamo anche ottime posizioni negli alimentari, con il vino e la pasta. In questa classifica i grandi assenti sono due giganti dell'economia come Stati Uniti e India, mentre la Cina si classifica al sesto posto con tre medaglie d'argento. Questi dati mostrano che abbiamo un apparato industriale robusto e che possiamo contare su un settore moderno dal punto di vista tecnologico, perché nessuno dei processi produttivi dei beni in questione è basato su manodopera a basso costo o sulla abbondanza di proprie materie prime.
Quello che Pirani dimentica. Credo sia il caso di aggiungere una considerazione alla trama di Pirani, ma senza rimproverargli nulla, perché un articolo non è un trattato. Negli anni Venti la nostra industria ha subito un processo di ristrutturazione che l'ha portata a essere internazionalmente competitiva. Al tempo stesso, però, si parlava di un settore in declino, si diceva che stessimo perdendo quote di export mentre le stavamo recuperando. Com'è possibile allora che i tassi di crescita della nostra produttività siano così bassi come l'Istat sostiene? E come regge la tesi sostenuta per anni dalla Banca d'Italia, quella dell'epoca faziana, secondo cui la produttività del lavoro e del capitale erano in declino? Poiché i dati sugli occupati e sul capitale materiale e immateriale non sono sovrastimati ma semmai sottostimati, se ne deduce che sottostimato sia il prodotto totale che questi fattori generano. Ovvero il pil.
Detto questo – una tesi costantemente ripetuta negli editoriali del Foglio – non è prudente concludere, come fa Pirani, che ci sia spazio per cospicui aumenti di salari. Semmai occorre dare più spazio alle retribuzioni basate sulla produttività e meno alle altre. Per questa ragione occorre passare dalla contrattazione nazionale accentrata a quella regionale decentrata. L'Italia, inoltre, non è tutta uguale ma presenta una marcata frattura geografica. Il centrosud non è al livello competitivo del nord, che gioca un ruolo importante nell'economia globale. Certo, il processo di ristrutturazione industriale è ancora in corso. Alla fine degli anni Sessanta la sinistra pensò che l'Italia fosse ricca e che potesse quindi cominciare l'epoca “distributiva”, dopo quella “produttiva”. Ne è seguito un inevitabile declino e sono stati necessari anni per uscire dal tunnel dei Settanta. Adesso però non usiamo l'indice Tpi per gonfiarci come la rana di Esopo: non “zapateriamo”, stiamo con i piedi per terra.
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