Ecco il dream team da sogno americano di Barack Obama

Christian Rocca

New York. Barack Obama fa sognare a occhi aperti, ma oggi nessuno è in grado di prevedere che tipo di presidente sarebbe se riuscisse, come è probabile, a sconfiggere Hillary Clinton alle primarie democratiche.

    Dal Foglio del 29 febbraio 2008

    New York. Barack Obama fa sognare a occhi aperti, ma oggi nessuno è in grado di prevedere che tipo di presidente sarebbe se riuscisse, come è probabile, a sconfiggere Hillary Clinton alle primarie democratiche e poi, come è possibile, a battere il repubblicano John McCain il 4 novembre prossimo. Le sue proposte sono ancora troppo vaghe e alternano ortodossia progressista ad aperture ai temi cari al mondo conservatore. Obama è contemporaneamente il senatore più di sinistra del Congresso, come lo ha definito l'indipendente e autorevole National Journal valutando i suoi voti espressi al Senato, ma anche l'unico democratico capace di attrarre consensi al centro e a destra. Il caso della guerra al terrorismo è il più emblematico. Obama è stato contrario all'intervento per destituire il dittatore Saddam Hussein fin dall'inizio, anche se ai tempi dell'autorizzazione della guerra in Iraq non era ancora senatore e quindi non s'è dovuto assumere la responsabilità di dire no a una decisione sui cui tutti, compresi i leader politici e intellettuali liberal e di sinistra, erano entusiasticamente d'accordo. Ancora in questi giorni, Obama spiega che da presidente ritirerebbe subito le truppe dall'Iraq, ma non tutte, per poter combattere più decisamente al Qaida in Afghanistan e in Pakistan, ma dice anche di essere pronto a rafforzare il contingente militare che comunque lascerebbe a Baghdad qualora i seguaci di bin Laden tornassero in Iraq. 
    Obama vuol chiudere il capitolo Iraq, ma è pronto ad aprirne un altro in Pakistan, se necessario. Con i nemici dell'America sostiene che sia giusto dialogare, ma non ha ancora spiegato per dire che cosa. In ogni caso, al contrario di molti suoi fan, Obama riconosce l'esistenza di un nemico e non dimentica mai di ricordare la missione benefica dell'America nello scacchiere internazionale e il ruolo di ultima e migliore speranza del mondo. Come tutto questo si tramuterà in politica una volta alla Casa Bianca è difficile da prevedere. Oggi il risultato di questa miscela di messaggi contrastanti è il paradossale sostegno che la sua politica estera riceve sia dai neoconservatori sia dai radicali pacifisti di MoveOn.org. La stessa ambiguità propositiva si avverte sulle questioni economiche. Le ricette di Obama variano da quelle liberiste che piacciono all'Economist a quelle populiste e protezioniste che spaventano perfino i liberal chic del New York Times e del Washington Post.
    Un modo per intuire la linea politica del presidente Obama probabilmente è quella di dare un occhio ai suoi strateghi elettorali e ai suoi consiglieri politici. La squadra di politica estera di Obama è coesa e compatta, a differenza di quella di John McCain e, in passato, di quella di George W. Bush. McCain ha con sé osservatori di affari internazionali aderenti alla scuola realista, come Henry Kissinger, ma anche i più vivaci tra i neoconservatori come Bob Kagan. Il modello McCain ricorda il gruppo di cervelli, autodefinitisi i “vulcani”, di cui nel 2000 si è servito Bush e dove si trovavano fianco a fianco analisti pragmatici vicini al padre e gli idealisti che poi hanno fornito la cornice intellettuale della risposta bushiana agli attacchi dell'11 settembre.
    La squadra di Obama è più omogenea, di più stretta osservanza progressista, in attesa di poter imbarcare anche i clintoniani orfani di Hillary (nel frattempo il senatore nero è riuscito nell'incredibile impresa di scippare alla Clinton il suo think tank personale, il Center for American Progress guidato dal fedelissimo John Podesta e ormai quasi integralmente schierato con lui).
    Obama ha già il suo Karl Rove, lo stratega politico ed elettorale che ha fatto le fortune di Bush. Il suo “architetto” si chiama David Axelrod, 52enne newyorchese trasferitosi a Chicago per studiare e per scrivere di politica sul Tribune, prima di diventare uno dei più esperti consulenti politici del paese, grazie anche alla sua straordinaria capacità di trasformare i candidati afroamericani in gioiose macchine da guerra elettorali. Alto, di sinistra, coi baffi, la voce monocorde e le giacche di velluto sdrucite sui gomiti, Axelrod si presenta come il classico reduce della contestazione studentesca che con gli anni è diventato professore nella stessa università dei suoi vent'anni. Insieme col compare David Plouffe, il manager della campagna di Obama, Axelrod è un progressita convinto che la politica sia una cosa alta e nobile, malgrado abbia calcato i marciapiedi del notoriamente ruvido mercato elettorale di Chicago. 
    Se David Axelrod è Karl Rove, a Obama manca ancora il suo Dick Cheney, ovvero un vicepresidente esperto e di grande competenza negli affari di politica estera. Obama, ancora più dell'inesperto Bush del 2000, ha bisogno di mostrare accanto a sé una figura politica, militare e di governo che rassicuri gli elettori preoccupati dalla sua potenziale impreparazione a gestire le delicate questioni di sicurezza nazionale. I nomi che circolano con più insistenza sono quelli di Jim Webb, senatore democratico della Virginia ed ex ministro della Marina militare negli anni di Ronald Reagan, e degli ex generali Wesley Clark, capo delle operazioni in Kosovo e oggi clintoniano, e Anthony Zinni, uno dei militari che fin dall'inizio si è opposto all'invasione dell'Iraq. Ovviamente c'è anche l'ipotesi di Hillary.
    L'attenzione, però, è sulla squadra di esperti di politica estera. Il team di Obama conta 250 persone, suddivise in gruppi da venti che si occupano di medio oriente, America latina, Africa, Asia del sud, Asia orientale, Russia ed Europa, difesa, reduci delle guerre, antiterrorismo, democrazia, sviluppo economico e istituzioni multilaterali. I senior advisor sono Gregory Craig, un grande avvocato che ha guidato la difesa di Bill Clinton ai tempi dell'impeachment e che negli ultimi anni dell'era clintoniana ha diretto la pianificazione politica al dipartimento di stato; Richard Danzig, altro avvocato, esperto di questioni militari ed ex segretario della Marina militare con Clinton; Scott Gration, generale in pensione, reduce dell'Iraq, dove è stato comandante della task Force West, esperto di questioni africane; Daniel Shapiro, esperto di questioni mediorientali noto per le sue posizioni falche contro la Siria ed Hezbollah, nonché l'uomo che rassicura la comunità ebraica d'America sulla politica israeliana di Obama; Denis McDonough e Ben Rhodes, trentenni prodigio di vasta competenza e di scuola realista che consigliano Obama e scrivono i suoi discorsi di politica estera. 
    I tre pilastri della sua campagna però sono Anthony Lake, Susan Rice e Samantha Power. Lake è stato il consigliere per la Sicurezza nazionale di Bill Clinton e nel 2005 si è convertito all'ebraismo. Progressista e interventista democratico, Lake era stato criticato per non essere riuscito a fermare il genocidio in Ruanda e per aver risposto lentamente alla crisi kosovara. Susan Rice, afroamericana come Condi Rice, lavorava al Consiglio di sicurezza nazionale di Clinton ed è sempre stata una rumorosa accusatrice del regime islamista del Sudan. Infine la star, Samantha Power, la tutor di Obama sulle questioni di politica estera dal 2005, nonché la beniamina dei giornali e delle televisioni. Giornalista, professore alla Kennedy School di Harvard e vincitrice del Pulitzer per il suo libro contro i genocidi, la trentottenne Power ha appena pubblicato una biografa intellettuale di Sergio Viera de Mello, l'idealista e alto funzionario delle Nazioni Unite ucciso a Baghdad. Samantha Power è convinta che l'America abbia il dovere morale di intervenire anche militarmente per prevenire massacri etnico-religiosi e violazioni di diritti umani, ma sempre nel rispetto del diritto e delle istituzioni internazionali.
    Con questi consiglieri, la politica estera del presidente Obama sembra seguire la corrente principale del pensiero politico più recente del Partito democratico, sebbene sia un misto di pragmatismo realista tradizionalmente associato con le politiche della destra americana e di idealismo internazionalista alla Bill Clinton e Tony Blair. La sua squadra propone un ritiro dall'Iraq per concentrarsi nella più ampia guerra contro al Qaida e favorisce incontri diplomatici con Siria e Iran al fine di cambiare i comportamenti di questi regimi. Sul conflitto israelo-palestinese la posizione è simile a quella di Bush, due stati e due democrazie, malgrado la comunità ebraica americana nutra qualche dubbio per le posizioni filopalestinesi di Obama di qualche anno fa e per la presenza nella squadra obamiana di uno dei politici meno favorevoli a Israele degli ultimi tempi, il consigliere della sicurezza nazionale di Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski. 
    A fronte della grandiosa retorica di cambiamento e di speranza, i consiglieri sia di Obama di politica estera e sia sulle questioni economiche non sono radicali né rivoluzionari. Sono quasi tutti esperti e analisti pragmatici, pronti a modificare le proprie convinzioni se il loro approccio non trova riscontro nellla realtà. I suoi consiglieri economici, ha scritto New Republic, sociologicamente appartengono alla stessa gang di outsider democratici che Clinton ha portato con sé alla Casa Bianca nel 1992, ma intellettualmente non possono essere più diversi. Clinton amava circondarsi di pensatori e filosofi, Obama preferisce ascoltare professori, analisti ed esperti meno ideologizzati. I clintoniani erano liberal che rigettavano esplicitamente le politiche progressiste degli anni Settanta e Ottanta, gli obamiani hanno un retroterra più accademico, meno da centro studi di Washington e, come si sa, il pensiero economico nelle università americane tende a destra. 
    L'analista James Pethokoukis ha provato a definire la politica economica di Obama come quella di un seguace del liberista clintoniano Robert Rubin sul commercio (tenerlo il più possibile aperto, ma aiutando i lavoratori), del finanziere e filantropo Warren Buffett sull'aumento delle tasse ai ricchi, e di Robert Reich sull'aumento della spesa pubblica in istruzione e scienza (al bilancio si pensa dopo).
    Il suo principale consigliere economico è l'eccentrico trentottenne Austan Goolsbee, professore da quando aveva 25 anni all'Università di Chicago, la scuola dei liberisti alla Milton Friedman, George Stigler e Gary Becker e quindi la patria intellettuale dei sostenitori dei benefici del mercato e dei danni causati dall'intervento pubblico. Definito “guru del futuro” dal Financial Times e seguace dell'economista comportamentale Richard Thaler, Goolsbee è un convinto sostenitore della globalizzazione e del libero commercio e pensa che l'aumento delle diseguaglianze di reddito non si deve a nessuno dei due fenomeni oggi così odiati dalla sinistra postclintoniana. La causa vera, secondo Goolsbee, è l'avvento dell'era dell'informazione tecnologica. La soluzione, quindi, è quella di investire maggiormente nell'istruzione, per colmare questa lacuna, più che sul taglio delle tasse come sostengono i conservatori. Della squadra economica di Obama fanno parte anche Jeffrey Liebman, professore ad Harvard ed ex consigliere di Bill Clinton sulle politiche volte a far entrare nel mercato del lavoro i beneficiari di assistenza sociale pubblica. Un altro consigliere è David Cutler, anch'egli economista di Harvard ed ex clintoniano, specializzato in politiche sanitarie.
    Obama contraddice spesso le tesi liberal centriste di Goolsbee, alimentando la corrente populista e protezionista che sta prendendo il soppravvento nella sinistra americana. In gioco proprio in questi giorni ci sono le primarie dell'Ohio, uno degli stati che ha perso più posti di lavoro per effetto della rivoluzione tecnologica, della globalizzazione e degli accordi di libero scambio col Messico. Obama sta cercando di sfruttare questo sentimento di insicurezza e di addossare la colpa di queste politiche non tanto su George W. Bush, ma sul suo principale sponsor, ovvero su Bill Clinton, il marito della sua avversaria Hillary. 
    Non è la prima volta che Obama lancia segnali contrastanti sui temi economici, al punto da disorientare i grandi esperti. Secondo l'Economist, malgrado la retorica progressista, la politica economica di Obama è più a destra di quella clintoniana. Un'analisi condivisa dall'editorialista del New York Times, Paul Krugman, perlomeno riguardo alla proposta di riforma del sistema sanitario che non prevede la copertura universale obbligatoria. Il Wall Street Journal, invece, crede che l'Obamanomics si piazzi a sinistra della HillaryClintonomics, come dimostra l'entusiastico consenso che Obama continua a ricevere dai sindacati. Al Senato Obama ha votato contro i trattati commerciali internazionali e per ridistribuire i redditi aumentando le tasse ai più ricchi per finanziare servizi e programmi a favore dei ceti medi e poveri.