Mi sbaglierò, ma vedo una certa caduta liberal

Giuliano Ferrara

Alemanno ha riposto già il piccone, Fini è un calendario vivente di ricorrenze progressiste e va in vacanza a Capri, Berlusconi vuole concertare anche e soprattutto con la Cgil.

    Editoriale dal Foglio del 5 maggio 2008

    Alemanno ha riposto già il piccone, Fini è un calendario vivente di ricorrenze progressiste e va in vacanza a Capri, Berlusconi vuole concertare anche e soprattutto con la Cgil (come racconta il cronista politico Augusto Minzolini), Bossi è così soddisfatto di averlo messo in quel posto a Casini che i suoi fucili spareranno bipartisan con la competenza sorniona di Maroni: insomma tutto sembrerebbe a posto o, come titolò un suo memorabile articolo il compianto Valerio Riva, il giorno dopo la caduta della rossa Bologna, “le lasagne sono sempre pronte”, e voleva dire che nulla sarebbe cambiato nella dotta rossa e grassa città. La lenta sostituzione di ceti di cui parlava il principe di Salina nel Gattopardo non prevede eccezioni rivoluzionarie neanche sotto sbarco Garibaldino, figuriamoci adesso. La spiaggia di Capalbio è già invasa dalla destra, raccontano le cronache mondane. E in una strana inversione di ruoli, Veltroni fatica a costruire un partito di plastica mentre Berlusconi radica nel plebiscito popolare impegnativo, drastico e una punta intimidente, il suo lieto fine delle libertà. Tutto bene, niente importa veramente, a ciascuno sarà reso il suo nella infinita giustizia politica italiana.
    Eppure senza bisogno di evocare una rivoluzione che non c'è, bisogna dire che molti di noi si sentono a buon diritto massi o sassolini in caduta liberal. Parlo per me, ma mi piacerebbe sentire il parere di amici terzisti, borghesi e prof vagamente liberali che si sono variamente compromessi con le nuove tendenze dopo la caduta dell'antico regime. L'impressione è che si vada riducendo l'area dello scherzo, della bonarietà goliardica, del godimento pop di un berlusconismo gaffeur e tollerante, imprevedibile e giocoso, fastoso e compromissorio. Forse è un'impressione o suggestione falsata dal mio spirito corsivista, dalla necessità di dire comunque qualcosa di lunedì e significare ai lettori il colore del tempo. Ma io la caduta liberal la sento. 
    Non offro un giudizio di valore, mi attengo al fatto. Quando lo conobbi, prima come editore e poi come leader di un partito in statu nascenti, Berlusconi faceva la sua rivoluzione liberale, straordinariamente bella e disordinata, nell'anticucina di un appartamento in via dell'Anima. Sotto, davanti al Raphael, aveva una sera incontrato i cronisti dopo una visita al Craxi politicamente morente, e si era comportato bene, molto bene, dicendo compromettenti parole di amicizia sul marciapiede delle monetine. Era un editore con molti debiti e molti nemici, straordinariamente dotato nella strategia di resistenza liberale che lo convinse a entrare in politica, a irrompere con la rivolta antifiscale, con l'innovazione delle forme, il partito azienda, il partito di plastica, i palchi azzurri e le performance da concertista.
    Anche il consenso che organizzava intorno a sé era amabile e caotico, poco consapevole e primitivo, ma spontaneo e ardente. Tutto si mescolava, destra e sinistra, storia nazionale e rinnegamento, voglia di futuro da americani in Brianza e sornionerie dorotee. Era un mondo zeppo di democristiani e di socialisti e liberali, era il refugium peccatorum della prima Repubblica appena spirata. C'era quell'avversione non sempre sana ma quasi sempre giustificata verso i giudici e i magistrati d'assalto, il trionfo degli avvocati e del sottomondo garantista. 
    Molto è mutato da allora. In meglio, ovviamente. Ora Berlusconi è per forza di cose diverso, l'investitura per il terzo regno è qualitativamente cambiata oltre che quantitativamente plebiscitaria. C'è di mezzo la sicurezza come legittima ossessione popolare, la forza smisurata della Lega e della sua secessione tanto più concreta ora ch'è dolce e fattuale e federalista-fiscale, la conquista romana delle centurie di Alemanno, l'autonomismo siciliano, il consolidamento territoriale del partito del presidente e la scomparsa dei democristiani. 
    La destra è nata, finalmente. Non so se è quella destra storica, legalista e rigorista, sognata dai numi reazionari che scelsero di morire tra le bandiere rosse per non mescolarsi con i nuovi venuti. So che è una destra vera o almeno verosimile. So che è una destra alla quale il consenso plebiscitario ricevuto, e il modo, dovrebbe a occhio e croce imporre qualche comportamento visibile diverso dal passato. So che nella lenta sostituzione di ceti forse si produrrà qualche rottura. E che sarà interessante, per noi che siamo stati al gioco con curiosità e letizia, in spirito di amicizia non servile, prendere qualche lezione da questa nuova scena italiana, perché non si può sempre star lì a darle, le lezioni. Defamiliarizzati come siamo, staremo a vedere. Con umiltà. Con distacco. Con disponibilità a divertirci e a educarci. E con la netta percezione che c'è tutto un mondo solo apparentemente roccioso, in realtà friabile, che è appunto in caduta liberal.

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.