Mi sbaglierò, ma vedo una certa caduta liberal
Alemanno ha riposto già il piccone, Fini è un calendario vivente di ricorrenze progressiste e va in vacanza a Capri, Berlusconi vuole concertare anche e soprattutto con la Cgil.
Editoriale dal Foglio del 5 maggio 2008
Alemanno ha riposto già il piccone, Fini è un calendario vivente di ricorrenze progressiste e va in vacanza a Capri, Berlusconi vuole concertare anche e soprattutto con la Cgil (come racconta il cronista politico Augusto Minzolini), Bossi è così soddisfatto di averlo messo in quel posto a Casini che i suoi fucili spareranno bipartisan con la competenza sorniona di Maroni: insomma tutto sembrerebbe a posto o, come titolò un suo memorabile articolo il compianto Valerio Riva, il giorno dopo la caduta della rossa Bologna, “le lasagne sono sempre pronte”, e voleva dire che nulla sarebbe cambiato nella dotta rossa e grassa città. La lenta sostituzione di ceti di cui parlava il principe di Salina nel Gattopardo non prevede eccezioni rivoluzionarie neanche sotto sbarco Garibaldino, figuriamoci adesso. La spiaggia di Capalbio è già invasa dalla destra, raccontano le cronache mondane. E in una strana inversione di ruoli, Veltroni fatica a costruire un partito di plastica mentre Berlusconi radica nel plebiscito popolare impegnativo, drastico e una punta intimidente, il suo lieto fine delle libertà. Tutto bene, niente importa veramente, a ciascuno sarà reso il suo nella infinita giustizia politica italiana.
Eppure senza bisogno di evocare una rivoluzione che non c'è, bisogna dire che molti di noi si sentono a buon diritto massi o sassolini in caduta liberal. Parlo per me, ma mi piacerebbe sentire il parere di amici terzisti, borghesi e prof vagamente liberali che si sono variamente compromessi con le nuove tendenze dopo la caduta dell'antico regime. L'impressione è che si vada riducendo l'area dello scherzo, della bonarietà goliardica, del godimento pop di un berlusconismo gaffeur e tollerante, imprevedibile e giocoso, fastoso e compromissorio. Forse è un'impressione o suggestione falsata dal mio spirito corsivista, dalla necessità di dire comunque qualcosa di lunedì e significare ai lettori il colore del tempo. Ma io la caduta liberal la sento.
Non offro un giudizio di valore, mi attengo al fatto. Quando lo conobbi, prima come editore e poi come leader di un partito in statu nascenti, Berlusconi faceva la sua rivoluzione liberale, straordinariamente bella e disordinata, nell'anticucina di un appartamento in via dell'Anima. Sotto, davanti al Raphael, aveva una sera incontrato i cronisti dopo una visita al Craxi politicamente morente, e si era comportato bene, molto bene, dicendo compromettenti parole di amicizia sul marciapiede delle monetine. Era un editore con molti debiti e molti nemici, straordinariamente dotato nella strategia di resistenza liberale che lo convinse a entrare in politica, a irrompere con la rivolta antifiscale, con l'innovazione delle forme, il partito azienda, il partito di plastica, i palchi azzurri e le performance da concertista.
Anche il consenso che organizzava intorno a sé era amabile e caotico, poco consapevole e primitivo, ma spontaneo e ardente. Tutto si mescolava, destra e sinistra, storia nazionale e rinnegamento, voglia di futuro da americani in Brianza e sornionerie dorotee. Era un mondo zeppo di democristiani e di socialisti e liberali, era il refugium peccatorum della prima Repubblica appena spirata. C'era quell'avversione non sempre sana ma quasi sempre giustificata verso i giudici e i magistrati d'assalto, il trionfo degli avvocati e del sottomondo garantista.
Molto è mutato da allora. In meglio, ovviamente. Ora Berlusconi è per forza di cose diverso, l'investitura per il terzo regno è qualitativamente cambiata oltre che quantitativamente plebiscitaria. C'è di mezzo la sicurezza come legittima ossessione popolare, la forza smisurata della Lega e della sua secessione tanto più concreta ora ch'è dolce e fattuale e federalista-fiscale, la conquista romana delle centurie di Alemanno, l'autonomismo siciliano, il consolidamento territoriale del partito del presidente e la scomparsa dei democristiani.
La destra è nata, finalmente. Non so se è quella destra storica, legalista e rigorista, sognata dai numi reazionari che scelsero di morire tra le bandiere rosse per non mescolarsi con i nuovi venuti. So che è una destra vera o almeno verosimile. So che è una destra alla quale il consenso plebiscitario ricevuto, e il modo, dovrebbe a occhio e croce imporre qualche comportamento visibile diverso dal passato. So che nella lenta sostituzione di ceti forse si produrrà qualche rottura. E che sarà interessante, per noi che siamo stati al gioco con curiosità e letizia, in spirito di amicizia non servile, prendere qualche lezione da questa nuova scena italiana, perché non si può sempre star lì a darle, le lezioni. Defamiliarizzati come siamo, staremo a vedere. Con umiltà. Con distacco. Con disponibilità a divertirci e a educarci. E con la netta percezione che c'è tutto un mondo solo apparentemente roccioso, in realtà friabile, che è appunto in caduta liberal.
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