Brevi saggi più o meno concupiscenti/11

La lingerie dangereuse

Sandro Fusina

Ma in quel periodo, per ragioni alimentari se non professionali, mi capitava spesso di cercare di immaginare cosa portassero sotto la maglietta e i pantaloni le donne che incrociavo. Sulla rossa padrona di casa non avevo dubbi. Bianca, semplice, fine, con il pizzo e senza pizzo, come quella che indossava mia madre, come quella che aveva indossato mia nonna, secondo me entrambe un po' sessuofobiche.

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    L'ambiente era anonimo e formale, in una palazzina seminuova lungo una via di palazzine identiche che si incrociava con vie identiche, in una delle prime città satelliti di Milano. Sopra mobili inglesi di media antichità, pendevano quadri di media qualità e di medie dimensioni, opere di autori medi italiani del Novecento: chiaristi lombardi e realisti siculo lombardi. Intorno al tavolo sedeva una popolazione omogenea per professione, disparata per ceto di provenienza. Professori universitari di mezza età e grado medio e infimo. Il tempo era molto tempo fa, prima di ogni riforma e riformina, quando ancora esisteva la figura ambita a vita dell'assistente di ruolo. L'occasione era di quelle in cui, con scansione più annua che semestrale, un rapporto di colleganza acidula si trasformava in un volenteroso tentativo di cordialità, una di quelle occasioni alle quali ciascuno dei presenti non avrebbe sopportato di non essere invitato e nelle quali ciascuno dei presenti avrebbe voluto essere altrove. Intorno al tavolo sedeva una decina di persone, tutte giovani in un arco ampio d'età, per una professione che costringeva a ritenersi giovane anche quando era stato festeggiato il compleanno che segna la metà statistica della speranza di vita.

    Poiché le finestre erano aperte su un malinconico specchio d'acqua che era stato una cava e che si fregiava nei depliant immobiliari del nome di laghetto, doveva essere l'inizio dell'estate, molto probabilmente la fine della sessione estiva d'esami, quando ancora i semestri erano di là da venire. Tutti eravamo scompagnati. Soprattutto il marito della padrona di casa, che faceva un altro, più redditizio lavoro, era assente. Non ricordo, ed è grave e sintomatico, se la padrona di casa avesse figli, in quel momento doverosamente al mare, o non ne avesse proprio. Tra le ragazze (altrove sarebbero state definite signore, al minimo giovani signore) la padrona di casa era la più interessante. Prima di tutto perché incorniciava il viso non perfetto in una massa di capelli rossi raccolti sulla nuca. E poi perché di lei si raccontava una storia fantastica.

    Il suo riserbo, più che medio, veniva attribuito alla sua gioventù, quella vera, non quella professionale, in un paese del sud d'Italia. “Poveretta”, diceva con affetto di lei un'altra ragazza sua coetanea e conterranea, “avresti dovuto vedere suo padre”. Con i miei pregiudizi sul Sud, mi immaginavo una storia di cicatrici lasciate da un faticoso riscatto da un'infanzia povera, dominata da un padre impresentabile. Poi mi era stato spiegato che il padre era davvero impresentabile agli occhi della figlia, ma per ragioni ben diverse. In un periodo e in un ambiente in cui si vagheggiava di un futuro radioso, sembrava che il padre della padrona di casa, anche se ormai vecchio, usciva di casa a cavallo avvolto in un mantello nero, armato di fucile, per andare a controllare che tutto funzionasse a puntino, cioè secondo la sua volontà, sulle vaste terre che appartenevano alla famiglia da generazioni.

    La signora rossa, che prediligeva i tailleur e le camicette in un periodo in cui nelle occasioni informali altre colleghe portavano già volentieri i jeans, era balzata direttamente dall'evo antico a una modernità che già si riteneva matura e pronta a slanciarsi nel futuro.
    Era d'estate, era tanto tempo fa. Il vino bianco era fresco. Nelle sere d'estate, con l'aria che sale da un laghetto, se pur artificiale, capita di avere più voglia di bere che di mangiare. E il vino un po' la lingua la scioglie, anche in una sala da pranzo sconfortante, anche intorno a un tavolo imbarazzante. Temo di essere stato io a introdurre l'argomento, giacché a un certo punto, abbandonati i pettegolezzi d'istituto, i ricordi di vacanze passate, le prospettive di vacanze future, ci si trovò a parlare di biancheria femminile. Sono anzi sicuro di essere stato io a introdurre l'argomento, perché in quel periodo, invece che alle varianti delle edizioni degli otto libri di “Il canapaio” di Girolamo Baruffaldi, come avrei dovuto, dedicavo il meglio delle mie energie a una specie di storia della mutanda, su commissione di una casa editrice tanto larga d'idee quanto stretta di borsa. Il progetto non era neppur nuovo. Francesi, inglesi e tedeschi lo avevano trattato con competenza e minuzia, nell'ambito di quella disciplina evanescente che allora si chiamava cultura materiale. Il mio non doveva essere che un disinvolto lavoro di compilazione, un lavoro di quelli che si definivano alimentari e che, appena si poteva, non si firmavano, come avevo già fatto con una storia della rosa e un'altra sull'agricoltura primitiva in Africa. Ma era un buon argomento, un soggetto eccentrico di conversazione, a una tavola in cui ciascuno, se voleva fare la sua carriera modesta, doveva impegnarsi nello spoglio lessicale di certi testi della letteratura italiana che persino i diretti discendenti degli autori dichiaravano di non avere mai letto e di non voler possedere. Il vino fresco faceva sembrare l'argomento così buono che persino la padrona di casa, ospitale ma taciturna, con il suo solito aspetto di civettina che por hablar no habla, mas presta mucha atención, intervenne nella conversazione.

    Intervenne nel modo più inaspettato, non per ricordare qualche miniatura di un libro d'ore in cui contadini e contadine sollevano disinvoltamente le vesti per scaldare le pudenda al fuoco di un braciere, ma per parlare della sua biancheria. Non sono un feticista, delle donne guardo gli occhi e la bocca, magari anche le tette e il culo e le gambe. Le caviglie soprattutto. Ma di quale biancheria indossino non me ne frega niente. A meno che non si mettano quella ridicolissima biancheria volutamente sexy capace di farmi sognare la quiete di un monastero. Ma in quel periodo, per ragioni alimentari se non professionali, mi capitava spesso di cercare di immaginare cosa portassero sotto la maglietta e i pantaloni le donne che incrociavo. Sulla rossa padrona di casa non avevo dubbi. Bianca, semplice, fine, con il pizzo e senza pizzo, come quella che indossava mia madre, come quella che aveva indossato mia nonna, secondo me entrambe un po' sessuofobiche, come si diceva in quei tempi in cui la lingua era ancora venata di reminiscenze reichiane. Mi sbagliavo, mi sbagliavo in modo marchiano.

    Come al solito, come anche ora, del mondo non capivo niente. Non capivo niente perché mi mancava una fondamentale educazione religiosa. Con una semplicità e una franchezza di cui non la credevo capace neanche alla seconda bottiglia di vino, la timida padrona di casa rivelò che indossava un tipo di biancheria che chiamare biancheria era un ossimoro e definire osée era un eufemismo. L'acquistava in un bugigattolo specializzato a due passi dall'università, che più che un negozio d'indumenti intimi mi era sempre sembrato un emporio per travestimenti di carnevale. Non lo faceva per predilezione o vocazione, ma per un fine più alto, per un dovere. Il movimento laico di forte ispirazione cattolica di cui il marito era una colonna consigliava alle spose di indossare nell'intimità indumenti eccitanti in modo che gli sposi trovassero nel “talamo nuziale un indirizzo alla loro concupiscenza e non fossero costretti a cercarla altrove”.

    Ho messo le virgolette perché, se la memoria non mi tradisce, come fa sempre più spesso, quelle furono le parole esatte che la signora pronunciò senza battere ciglio. Con l'immaginazione le tolsi le forcine che le tenevano i lunghi capelli rossi raccolti sulla nuca e la immaginai nel momento in cui si preparava per la notte. Era, ai miei occhi di miope, una rilettura radicale e sorprendente di quel motto che le bisnonne ricamavano sul camicione da notte in tela pesante: “Non lo fo per piacer mio, ma per far piacere a Dio”. Non lo fo per piacer mio, ma per cementare la famiglia, per tenerla unita. Lo stesso era il fine di due comportamenti così antitetici, diversi i modi che i costumi correnti mettevano e mettono a disposizione.

    Era quella la prima volta che sentivo pronunciare in un discorso a tavola la parola concupiscenza. Forse era la prima volta in assoluto che sentivo pronunciare la parola. Era una parola che non faceva parte di un lessico a me familiare. Mi resi conto che tutto il tempo che avevo dedicato alla lettura, allo studio e all'esegesi persino, degli autori decadenti, delle “Diaboliche” di Barbey d'Aurevilly o di “A ritroso” di Huysmans, che avevo speso nella lettura di tanta poesia fine secolo era stato tutto sprecato. Il mio razionalismo ipertrofico aveva impedito lo sviluppo degli organi fondamentali, il cuore e gli ipocondri, per capire lo stato d'animo che quegli scrittori, quei poeti avevano cercato di comunicare. Ero nella condizione di quegli sportivi che parlano, si appassionano, discutono con una loro fredda competenza di calcio senza avere mai calzato le scarpette, senza essersi mai trovati a tirare una palla in porta.

    Mi resi conto che nella mia esperienza avevo perduto qualcosa che non avrei mai potuto trovare, perché la fede e il senso del peccato sono come il coraggio manzoniano, se uno non ce li ha, non se li può dare. In una sera scialba mi toccò rendermi conto che a me l'esperienza della concupiscenza, che nel raddoppio della radice mette in contatto esplosivo la forza del desiderio e il detonatore del peccato, era negata. Dovevo accontentarmi del desiderio o, peggio della fregola. Invece del dramma della concupiscenza, mi toccava il romanzo o la commedia. Se il dramma della concupiscenza è faticoso, la commedia della fregola a lungo non può che diventare stucchevole. Resterebbe il romanzo, che mischia i generi. Ma anche della salute del romanzo da tempo non si diceva in giro un gran bene. Tutta la storia non ha che una morale: quando si può è meglio evitare di andare a cena con colleghi in una casa con quadri mediocri che si affaccia su un laghetto artificiale che lambisce una città satellite. Le sorprese possono essere insopportabili.

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