I neoMcCain

Christian Rocca

New York. John McCain non è amato dai vertici del mondo conservatore né dall'establishment repubblicano di Washington, anche se la diffidenza va scemando a mano a mano che il senatore conquista primarie e delegati.

    Dal Foglio del 6 febbraio 2008

    New York. John McCain non è amato dai vertici del mondo conservatore né dall'establishment repubblicano di Washington, anche se la diffidenza va scemando a mano a mano che il senatore conquista primarie e delegati. McCain, però, può contare sul pieno e convinto sostegno di buona parte dei neoconservatori, ovvero di quel ristretto gruppo di intellettuali e analisti politici di New York e Washington che a partire dalla metà degli anni Settanta si è trasferito da sinistra a destra fino a diventare uno dei pilastri della Right Nation americana. 
    L'infatuazione reciproca tra McCain e i neoconservatori risale al 1999, racconta Jacob Heilbrunn in un nuovo e interessante libro critico sul movimento neocon dal titolo “They Knew They Were Right”, anche se i primi segnali di contatto risalgono all'intervento nei Balcani dei primi anni Novanta deciso da Bill Clinton e osteggiato dai repubblicani con la visibile eccezione proprio di McCain e dei neocon. Nel 2000 la rivista Weekly Standard, diretta da Bill Kristol, alle primarie repubblicane ha sostenuto McCain, non George W. Bush, e da allora il rapporto tra questa ala di neoconservatori e il senatore dell'Arizona è solidissima. “Se McCain diventa presidente, i neocon saranno alla guida”, dice preoccupato Heilbrunn. Nella sua squadra di consiglieri ci sono Bill Kristol, sia pure informalmente, ma anche Robert Kagan, l'autore del saggio sui rapporti transatlantici “Paradiso e Potere”,  Gary Schmitt, ex direttore del Project for a New American Century, Max Boot, ex editorialista del Wall Street Journal, James Woolsey, ex capo della Cia di Bill Clinton. Le regole interne al New York Times impediscono all'opinionista neocon David Brooks di sostenere formalmente un candidato, ma racconta McCain sempre come un moderno eroe americano. Brooks e Kristol, nel 1997, hanno criticato i repubblicani di Newt Gingrich invitandoli a ispirarsi ai principi di quello che hanno definito il “national greatness conservatism” di Abramo Lincoln e Theodore Roosevelt. Due anni dopo è stato soltanto McCain a rispondere a quell'appello e a sostenere che gli Stati Uniti debbano “continuare a usare la supremazia negli affari del mondo a beneficio dell'umanità”.
    Un altro gruppo di neoconservatori, Norman Podhoretz, David Frum e Michael Rubin, preferiva Rudy Giuliani, mentre Michael Ledeen stava con Fred Thompson. Ora che Giuliani e Thompson si sono ritirati, non si sono fatti prendere dalla “Sindrome da rigetto di McCain” che ha colpito il tradizionale mondo conservatore. McCain, in realtà, si avvale anche dei consigli di avversari ideologici dei neoconservatori come Henry Kissinger, Colin Powell, Richard Armitage e Brent Scowcroft, ovvero del sancta santorum della scuola di pensiero realista. E tra i pro McCain ci sono anche ex segretari di stato e della Difesa di Reagan, da George Shultz a Robert McFarlane ad Alexander Haig a Lawrence Eagleburger, a dimostrazione che su questi temi il sostegno per McCain è trasversale ed esteso. 
    Michael Ledeen, David Frum e Michael Novak sono le eccezioni. Al Foglio Ledeen dice che non voterà McCain e spiega di essere seriamente preoccupato di una sua possibile presidenza perché “è un uomo a cui piace litigare, dotato di cattivo carattere e vendicativo”. Frum, ex speechwriter di Bush e columnist del Foglio, non ha ancora deciso chi sostenere, ma è più indirizzato su Romney, una scelta condivisa dal cattolico Novak.  
    Bill Kristol e Bob Kagan invitano a tenere i piedi per terra: “Senza McCain, non ci sarebbe stato il cambio di strategia in Iraq. Senza surge, ci sarebbe stato il fallimento e nessuna possibilità di vittoria nel 2008 per i repubblicani”; “I conservatori hanno perso il senso delle proporzioni e il contesto storico del dibattito, specie quando ad attaccare McCain sono quelli che un tempo dicevano che la guerra in Iraq e la guerra al terrorismo erano la questione decisiva”. Norman Podhoretz, decano del movimento, conferma al Foglio: “Anche se non sono d'accordo con McCain su numerose questioni, ora sostengo lui perché come Giuliani capisce la natura di quella che io definisco ‘Quarta guerra mondiale' ed è determinato a combatterla e a vincerla. Credo che seguirà la strategia delineata dalla Dottrina Bush, anche se probabilmente vorrà metterci un suo marchio personale”. Michael Rubin, esperto di Iran e Iraq per Giuliani, dice al Foglio che “McCain è il miglior candidato rimasto, ma se gli europei pensano che la politica americana tornerà a essere quella degli anni Novanta sbagliano grossolanamente. L'undici settembre è stato un punto di svolta”.