Anonimo straordinario
Trezeguet non si vede perché c'è. Come a Rotterdam nel 2000, come al San Siro contro il Milan nel 2005, come qualche mese fa col Torino. Sbuca alla fine, all'ombra di un difensore che lo perde anche se si chiama Nesta o Cannavaro o Cordoba o Materazzi o Pincopalla. Può essere di testa, di destro, di sinistro: non è quasi mai forma, è quasi sempre sostanza.
Dal Foglio del 23 marzo 2008
Trezeguet non si vede perché c'è. Come a Rotterdam nel 2000, come al San Siro contro il Milan nel 2005, come qualche mese fa col Torino. Sbuca alla fine, all'ombra di un difensore che lo perde anche se si chiama Nesta o Cannavaro o Cordoba o Materazzi o Pincopalla. Può essere di testa, di destro, di sinistro: non è quasi mai forma, è quasi sempre sostanza. La punta è identica al collo pieno, la spizzata non s'offende dietro una palla schiacciata con la fronte. Anzi. David non s'è mai formalizzato una volta: bello o brutto frega praticamente zero. Però non è Inzaghi, sgraziato e straordinario. Lui è più elegante, più raffinato, più potente. Non è che sia più forte degli altri: resta qualcosa di non catalogabile. La furbizia non spiega fino in fondo, il maledetto fiuto del gol è riduttivo, il senso della posizione è troppo banale per essere la risposta. E' un misto incontrollabile che neanche lui riesce a spiegare: David come fai a fare tanti gol decisivi? “Boh. Li ho sempre fatti. E' il mio mestiere”. Ecco, adesso vattela a cercare da solo la risposta a una domanda che forse non interessa a nessuno perché è come chiedere a un santo come riesce a fare un miracolo.
Trezeguet adesso è l'ultimo porto. Il campionato corre accanto a lui e assieme a lui: Inter-Juventus è la fine. O David o niente: chiuso lo scudetto a fine marzo, due mesi di pacchia per l'Inter e di agonia per gli altri. Ci sta David. Dice, racconta, ragiona, attacca. Paura mai, perché quelli che sbucano alla fine hanno il dispetto dentro. Gli hanno chiesto dell'Inter, di Calciopoli, della Roma. Vai Trezegol spara. E ha sparato: “Spero che lo scudetto lo vinca la Roma, gioca un calcio migliore e poi mi piacerebbe battere l'Inter dopo il caos dell'inchiesta di due anni fa”. Tutti a guardare, allora. La serie A si è aggrappata a uno che manco doveva più giocarla perché aveva fatto quel gesto così platealmente chiaro alla fine della B dell'anno scorso che tutti avevano già dato per fatto il suo addio. Persino quelli che lo stimano, quelli che lo adorano, quelli che vorrebbero essere lui: amico stavolta scegli, o resti e stai zitto, oppure fai quello che ti pare, i gesti, le accuse, i contratti stracciati, le sceneggiate, ma te ne vai. E' rimasto perché il copione con lui è sempre stato questo: la polemica e la pace in nome di un ingaggio che lo rende felice e di un pacchetto di gol che la Juve non vuole perdere. Quindici quest'anno, per ora.
Quindici, cioè il migliore della sua squadra e l'unico che potrà provare a fregare Borriello. Il che è tutto e anche di più, perché David fa così da otto anni: quindici, venti, ventidue gol. Significa che fa il suo e anche un po' quello degli altri: a Torino chi lo ama dice che metà dei punti della Juventus dal 2001 a oggi bisogna metterli sulle spalle di Trezeguet. Metà, cioè così tanti che da solo avrebbe vinto due scudetti. E però ogni anno David è in bilico, indeciso se andare o restare: è per questo che non sarà mai un simbolo di una squadra. Sarà l'icona di se stesso: l'effigie di una categoria di calciatori che non devono giocare col cuore o col cervello, ma con i piedi. Allora Monaco, Torino, Barcellona, Madrid non cambia nulla: Trezeguet resta perché è bravo e indispensabile, non perché è attaccato alla maglia, alla gente, al gruppo. Francamente se ne infischia, lui. Giusto, perché questo è un lavoro più che una passione: l'ha sempre pensata così, l'ha sempre vissuto così.
In un certo senso David è il paradigma del pallone moderno. Bello perché impersonale e forse anche asettico: io ci sono perché ti faccio vincere e quindi godere, tu mi paghi in proporzione, poi quando finisce finisce. A Trezeguet avrebbe potuto finire un sacco di volte, complice un carattere piuttosto agitato e poco accomodante. Franco-argentino, qualcosa vorrà pur dire. La prima volta all'inizio: arrivò dal Monaco per quarantacinque miliardi e si trovò davanti Del Piero e Inzaghi, se la giocava con Kovacevic per un altro posto. Poi panchina. Alla fine del campionato cominciò a fare rumore: “Se tornassi indietro, non firmerei il contratto con la Juventus. Perché a Verona io giocherò, però soltanto a causa dell'indisponibilità di Zidane. Ma nel caso in cui Zizou recuperasse per la partita successiva, tornerei in panchina: so bene che Ancelotti ha in mente un'altra squadra, della quale fanno parte Del Piero e Inzaghi. Ma io non mi sento inferiore a loro”.
No: né a loro né ad altri. Trezeguet forse è il miglior calciatore degli ultimi anni del campionato italiano. Non il più forte, non il più spettacolare, però quello più decisivo, quello che Fabio Capello disse di volersi portare ovunque: “Con David stai sempre sicuro”. Sono passati Ancelotti, Lippi, Capello, Deschamps, Ranieri: David è rimasto. Coi gol: 157 in sette stagioni. Tanti, così tanti che neanche te li ricordi. Trezeguet non ti viene in mente mai per una giocata. E' una specie di pensiero fisso, una certezza, un'idea: c'è lui, si segna. Gli altri hanno un tipo di gioco, un tocco, una movenza: i ragazzini li imitano, li scimmiottano, li copiano, corrono come loro, calciano come loro. David è inimitabile, perché è uno straordinario anonimo: per giocare come lui, dovresti capire bene quello che gli passa per la testa. Se lo guardi fuori, se cerchi un modo suo di stare in campo, di tenere il difensore con il corpo, di fregarlo con una finta sua, non ci arriverai mai. Di nuovo: di Inzaghi si ricordano tutti la capacità di restare novanta minuti in bilico sulla linea del fuorigioco. Avanti e indietro, tre volte troppo in là e una giusta, una sola perché quella gli basta per cambiare una partita. Trezeguet non fa neanche questo: non ha un punto di riferimento. E' un'identità senza volto. Il resto viene tutto a rimorchio: tipo la storia del suo essere il miglior francese dell'epoca juventina. Sembra una idiozia. Una squadra che ha avuto Platini e poi Zidane, ha avuto il meglio che la Francia abbia mai prodotto in un campo di calcio.
L'anonimato di Trezeguet non gli rende la giustizia che merita: i 157 gol sono cinquanta in più di quelli di Platini. Fatti, goduti e meritati in un calcio dove Le Roi ne avrebbe fatti probabilmente meno dei 104 segnati in sei anni. Ovvio che non lo dica nessuno. Michel è intoccabile e imparagonabile. Lo aveva lasciato scritto nell'aria l'avvocato Agnelli: “Nella Juve nessuno è mai stato al suo livello e se in futuro ci sarà qualcuno che lo supererà lo ammetteremo a malincuore”. Però se i numeri vogliono dire qualcosa, di fronte a Trezeguet uno juventino dovrebbe togliersi il cappello e inginocchiarsi: dove lo trovi un altro attaccante così? Lui paga questa lingua sempre troppo veloce che lo porta a essere considerato un rompipalle che appena una cosa non va come dice lui, comincia a sbraitare. In questi sette anni e mezzo alla Juve è stato sul punto di andarsene una marea di volte: all'Arsenal, al Chelsea, al Barcellona, al Real Madrid, al Lione. Il motivo quasi sempre economico e a volte anche tecnico: David vuole una squadra vincente perché detesta perdere anche le amichevoli. Così ogni tanto se ne esce con un'intervista tipo questa: “La società deve comprare gente forte che ci permetta di continuare a vincere, altrimenti…”. Altrimenti lui se ne va.
L'anno scorso la storia della serie B l'ha presa malissimo: voleva andarsene, poi il club e i compagni come Del Piero e Buffon lo convinsero a restare. Deschamps gli chiese quindici gol, lui ne fece sedici in tutto e al quindicesimo si lasciò andare allo sfogo in diretta televisiva: le due mani aperte a simboleggiare il dieci, poi un'altra mano, cioè il cinque, in tutto quindici, e poi il palmo sinistro sull'avambraccio destro. Me ne vado. Ciao. Au revoir. Polemico e un po' anche sgradevole: ce l'aveva con il club che gli aveva fatto un'offerta ridicola per il prolungamento del contratto. Si sono risieduti, hanno riparlato, si sono messi d'accordo. Il gesto rimane e David non è tipo che chiede scusa. Carattere, allora. Orgoglioso, capatosta, irascibile. E' lo stesso motivo per cui non gioca nella nazionale francese: con Raymond Domenech non si può prendere uno con una testa così. I segni zodiacali non c'entrano. Perché in Italia si sono eccitati tutti per una storia finta, inventata, ridicola: che David sia stato fatto fuori dalla Francia perché è uno scorpione. Troppo bella la notizia per rovinarla con la verità, certo.
Perché Domenech la squadra con l'oroscopo la fa davvero e non è neppure un mistero che non ami gli scorpioni. L'ha detto una marea di volte: “A parità di bravura scelgo chi mandare in campo facendo un'analisi del suo segno zodiacale e della situazione delle stelle in quella giornata. La regola comunque sarebbe questa: può giocare solo uno scorpione per volta. Perché altrimenti c'è il rischio che se ne metto due contemporaneamente giocano soltanto tra di loro. Li metto insieme solo quando la situazione è disperata”. Ai giornali italiani questa storiella è piaciuta così tanto che durante il Mondiale 2006 l'hanno presa, riscritta e copiata. Male. Perché sono andati a cercarsi il motivo dell'esclusione di Trezeguet dalle partite decisive della Francia prima della finale con l'Italia. Troppo complicato andare a vedere gli allenamenti, chiedere ai colleghi francesi degli scazzi tra David e Raymond: c'era già una storia confezionata e poi chi se ne sarebbe accorto. Hanno preso la data di nascita di David: 15 ottobre. Perfetto. Siamo in zona scorpione. Via tutti a scrivere. Corriere della Sera dell'11 luglio 2006: “Ricapitolando: Domenech ha la passione dell'astrologia, è uso non convocare gente dello scorpione (per esempio Pirés) e domenica è stato tradito proprio da uno scorpione come David Trezeguet il quale, manco a dirlo, era stato anche il più penalizzato da monsieur Raymond durante questo Mondiale. Ascoltando i consigli di Henry, che ama molto giocare da unica punta e che ha un rendimento nettamente migliore senza di fianco lo juventino, Domenech aveva scelto di rinunciare a Trezeguet. Poi, nella sera decisiva, usciti Henry e Zidane, gli è toccato, nei rigori, affidarsi proprio a lui. Che, da scorpione vero, ha sbagliato”. Perché da vero bilancia non avrebbe sbagliato, ovviamente. Poi che il 15 ottobre il segno sia quello chissenefrega. Così come se ne sono strafottuti tutti di quello che ha detto David: “Abbiamo due visioni del calcio completamente opposte. Poi lui è stato scorretto con me. Dopo calciopoli mi ha chiamato per dirmi che siccome giocavo in serie B non mi avrebbe più chiamato in nazionale. Mi ha lasciato un messaggio in segreteria dicendomi: ‘ti lascio il tempo di ritrovare la serie A'”. Raymond ha convocato anche rose da 36 giocatori e Trezeguet non c'era. E' un insulto al pallone, perché non esiste che David non possa trovare spazio in una rosa di 36 francesi. E' un insulto al buonsenso e alla statistica, pure. Perché con Henry, David fa una coppia da favola.
Si conoscono bene perché hanno giocato insieme ai tempi del Monaco. Se pensi a quell'attacco visto oggi ti viene da chiederti perché il pallone di Montecarlo non sia mai cresciuto veramente: quei due insieme fanno un attacco che qualunque squadra negli ultimi dieci anni avrebbe voluto. La Juve avrebbe potuto averla, se non avesse sacrificato Henry a fare l'ala e non l'avesse costretto ad andarsene. Partito Titì è arrivato Trezeguet che con il suo umore ad altalena alla fine è rimasto sempre a Torino. L'hanno definito anche il primo post-juventino, perché è l'unico attaccante degli ultimi 15 anni a rimanere per più di cinque stagioni. L'unica stella fissa, in club di stelle precarie. Sì c'è Del Piero: però è diverso, viene dal vivaio, è il simbolo, resterà nella società. Qui si parla degli altri, di quelli presi perché cambiavano il mondo e poi lasciati andare perché riempivano le casse. Partì per primo Roberto Baggio, poi su, fino a Pippo Inzaghi, passando per Vieri e Zidane. E forse a un certo punto avrebbero ceduto anche Del Piero se lui fosse stato d'accordo e qualcuno l'avesse accolto. Trezeguet è rimasto a metà tante volte. La più celebre nella primavera del 2004. “C'erano dei contatti con il Barcellona, squadra dove mi sarebbe piaciuto andare perché gioca un gran calcio. Poi, però, mi ha telefonato Capello e mi ha chiesto: sono finite le motivazioni o è questione di soldi? Gli ho risposto che la Juve mi aveva fatto una promessa. Lui mi ha richiamato qualche ora dopo: tutto risolto”.
Torino ancora, fino al litigio del 2007 e poi anche di più, perché di fronte a una trattativa si può sempre trovare un accordo e un pezzo di futuro. Vale la pena anche di rompere la tradizione di famiglia: i Trezeguet fanno i vagabondi transoceanici da qualche generazione, da quando il bisavolo Jean Albert lasciò il dipartimento di Lot e Garonna, destinazione Argentina. Hanno sempre fatto su e giù: il padre di David, Jorge, faceva il calciatore. Giocò a Rouen, dove è nato il figlio, poi tornò in America Latina, al Chacarita Junior e poi dell'Estudiantes. Ecco perché David parla invertendo la “v” con la “b” come gli spagnoli: perché fino a 17 anni è stato lì e lì s'è fatto giocatore. Sognava di diventare come Batistuta, non come Platini. Ha scelto la Francia dopo, quando s'è trasferito a Monaco e ha riscoperto le origini. Ha scoperto anche i gol. Tanti da sempre: dalle giovanili alla prima squadra. In campionato, in coppa, in amichevole. Dice che nella vita non ha altro. S'incazza e poi s'acquieta: “Mi piace che la gente parli di me per quello che faccio in campo. Io sono uno sportivo, non un personaggio pubblico. Vivo così, questo è quanto mi interessa. Tanti me lo rimproverano. Anche la stampa francese: i giornalisti dicono che non so vendermi. Ma va bene così. Non faccio le cose perché altri mi dicono di farle. Mi gestisco alla mia maniera. Sono rimasto quello che giocava nel Platense, in Argentina: io vado in campo, gioco, mi diverto e poi torno dalla mia famiglia”.
Le foto comprate da Fabrizio Corona e Calciopoli: è entrato in mezzo a storie e storiacce. Qualcuno non ha sopportato i suoi complimenti a Moggi: “E' il miglior conoscitore del calcio che abbia mai visto”. Anche questo fa parte del non sapersi vendere. Perché adesso è fuori moda e fuori luogo, certo. Dovrebbe prendere le distanze, dovrebbe censurare, dovrebbe sputtanare. Non ce la fa e allora dà fastidio. Non ce la fa e allora non gli credono. Neanche quando cambia e da prima donna diventa all'improvviso il più umile dei campioni: “Non merito il Pallone d'oro. Meglio che vada a chi fa spettacolo, a gente più completa come Ibrahimovic, Shevchenko, Ronaldinho, Henry”. Chi altro l'ha mai detto? Non ci sono tracce di modestia nel pallone. C'è il contrario. Abbonda, aumenta, esagera. Uno che fa il modesto arriva e lo snobbano. Allora meglio quando fa il gradasso, che guarda la madre in tribuna e gli fa segno di voler andar via. Magari a qualcuno avrebbe fatto comodo: Trezeguet venduto. Forse l'idea piaceva anche alla Juventus, prima di vederlo di nuovo in A con altri 15 gol già fatti. Adesso se lo tengono, anche se non è una bandiera, se non lo sarà mai, se non vuole esserlo. Poi un giorno diranno di nuovo che aveva ragione Domenech: “Gli scorpioni fanno casino”. Tanto nessuno controlla le date di nascita.
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