Un soldo per il tuo sorriso - 1
Perché stare con Barack è un atto di fede che fa mettere mano al portafoglio
Un soldo per il suo sorriso. Le parole, troppe parole, non servono, perché quel che vuol trasmettere, Barack Obama, ce l'ha negli occhi che punta dritti sempre verso qualcuno.
Dal Foglio del 9 maggio 2008
Un soldo per il suo sorriso. Le parole, troppe parole, non servono, perché quel che vuol trasmettere, Barack Obama, ce l'ha negli occhi che punta dritti sempre verso qualcuno, nel gesticolare che pare un immenso abbraccio, nell'orgoglio del colore della pelle, nell'ironia con cui ripete: “Chi l'avrebbe mai detto che sarei arrivato fino a qui”. Per questo sogno, per questa avventura, per questo sorriso, un milione e mezzo di individui hanno deciso di dare un soldo: mai tanti piccoli donatori si erano visti tutti insieme, pronti a iniettare nuovi fondi a ogni richiesta del candidato presidenziale. Cinque, dieci dollari. E se poi c'è da darne ancora un po', va bene. Altri cinque, dieci dollari. Poco alla volta, senza sapere che cosa ne sarà di quei soldini, ma con la precisa convinzione che saranno spesi bene. Un obolo per un atto di fede, la fede nella religione del cambiamento. Qui sta la diversità di Obama rispetto agli altri avversari, qui sta la sua vulnerabilità.
Come scrive l'Economist, “più di ogni altro candidato quest'anno, Obama ha saputo articolare l'idea di un'America più nobile. E questo in parte grazie a ciò che Obama è”, il figlio di una donna bianca e di un uomo nero nato nel 1960, quando i matrimoni interrazziali in molti stati erano addirittura vietati. Poi c'è come Obama si pone. La genialità del senatore dell'Illinois è stata quella di non dire nulla e trasmettere tutto, di mixare la retorica dei Kennedy con quella di Martin Luther King come una rockstar moderna ma rispettosa del passato, di coniugare la religione con la politica, di mettersi addosso l'aria di uno che sta andando deciso da qualche parte come un novello pifferaio magico. La direzione è quella dell'unità, del superamento delle antiche lacerazioni, in nome di un paese che ha conosciuto tutto, dalla segregazione alla schiavitù, ma che oggi rivendica fieramente la capacità di parlare con una voce sola per tutti. E' il patriottismo per cui, nella terra delle possibilità, dell'equità, della giustizia, un ragazzo nero può non essere condannato al ghetto e addirittura arrivare al soglio della Casa Bianca, perché la religione del cambiamento professata da lui diventa più forte di quella professata da un bianco, persino – così pare – di quella professata da una donna.
Nell'ultimo discorso, dopo la grandiosa vittoria in Carolina del nord che ha dato la certezza a molti commentatori che ormai la partita con Hillary Clinton è chiusa, Obama ha ribadito la sua vocazione unitaria: “Sappiamo che cosa sta per succedere, non sono mica un ingenuo. Continueranno i tentativi di giocare con le nostre paure e di drammatizzare le nostre differenze, di metterci uno contro l'altro in nome di un vantaggio politico, di tagliare e spezzettare questo paese in stati blu e stati rossi, in blue-collar e white-collar, in bianchi, neri e marroncini, in giovani e vecchi, in ricchi e poveri”. Ma noi ci ribelleremo, perché “nel momento in cui stiamo affrontando due guerre, in cui l'economia è in fermento e il pianeta in pericolo, non possiamo permetterci di dare a John McCain la possibilità di fare un terzo mandato Bush”. Basta questo, la promessa, la speranza. Un soldo per il tuo sorriso, un altro e un altro ancora. Non importa come Barack abbia intenzione di negare la possibilità ai repubblicani di vincere la corsa presidenziale, importa che sia lui a fare la battaglia, con il suo carico di non detti, i cosiddetti “details” che ora, soltanto ora, cominciano ad avere un peso.
Obama è diverso da tutti gli altri. Certo, il desiderio dei liberal di affidarsi a chicchessia pur di riavere indietro la Casa Bianca è superiore a qualsiasi valutazione di merito, come dimostra l'improvvida candidatura, nel 2004, di John Kerry. Ma nell'imposizione – a sorpresa – del senatore nero sulla macchina elettorale clintoniana, una sfida da Davide contro Golia, c'è una storia diversa, c'è il senso di una missione che va oltre le distinzioni del passato, c'è un afro-americano che aveva due anni quando King aveva un sogno e che oggi non vuole più che sia la rabbia a scandire il suo cammino. La storia del senatore nero dell'Illinois è diventata storia d'amore. Ha la voce di velluto, la sensualità delle movenze, il fascino di un sorriso irresistibile. A ogni uscita di Obama c'è una ragazza che gli urla “Barack ti amo” cui lui risponde “Ti amo anch'io”, in una danza che coinvolge una persona alla volta e allo stesso tempo l'America tutta insieme. E' lo stesso meccanismo per cui tanti cittadini si mettono lì, a ogni chiamata di Barack, a donare un piccolo obolo per non interrompere il sogno. Sono giovani, tantissimi. Secondo l'Economist, per ogni bianco che decide di non votare Obama a causa del colore della sua pelle, c'è quasi certamente un bianco indipendente giovane che decide di stare con il senatore dell'Illinois per un semplice atto di fede.
Come in tutte le storie d'amore, arriva il momento del confronto con la realtà. I dati elettorali confermano che Obama non ha presa sulla working class, che la sua storia si sta trasformando in fenomeno di minoranza, che entusiasma neri ed élite, ma lascia indifferente la classe media, che naviga pericolosamente verso il Partito conservatore. Doveva essere il candidato indipendente e rischia di essere il più liberal di tutti. Le ultime settimane, poi, sono state terribili, con Obama braccato a parare i colpi che arrivavano anche da molto vicino, dal reverendo Jeremiah Wright e dalle frasi maldestre della moglie Michelle, lei sì afro-americana arrabbiata. E' rimasto in piedi, Barack, anche con una certa grazia, non ha perso il sorriso e non ha ostentato le ferite. Ma la magia che lo circonda ne è uscita un po' ammaccata.
Ci sono “i delusi da Obama”, quelli che cominciano a dire che non si capisce dove voglia andare così determinato il senatore, i timorosi che forse il sogno di un presidente nero sia un azzardo. La vulnerabilità di Obama sta nella stessa Obamamania. Perché il fascino del sogno, la capacità di calvalcare un'onda che sta in bilico tra passato e futuro, il messianesimo che potrebbe portare a una presidenza epocale, il lungo abbraccio a un'America che non vuole avere paura possono, in un attimo, diventare una roba buona per Hollywood, per le pagine patinate dei giornali glamour. Sarebbe un gran bel paradosso se proprio la passione viscerale, l'atto di fede, l'amore senza se e senza ma fossero gli artefici della fine del sogno, la carrozza che ritorna zucca. E infatti metà del paese non ci vuole credere. Continua a dare il suo soldo per un sorriso, permette a Obama di gestire 245 milioni di dollari per traghettarla non si sa dove, ma accompagnata dalla musica del piffero.
Il Foglio sportivo - in corpore sano