Brevi saggi più o meno concupiscenti/18
Il falò del desiderio
Nient'altro, solo una scopata di meno. Evanescente come la vanità di essere uomo e alzarsi ogni giorno con una donna nel letto, le lenzuola sgualcite e gli occhi chiusi. I ricordi in fila, allo specchio. In fondo, una volta eri solo, prendevi il caffè nella stanza disfatta e sognavi una, una che t'adorasse.
Leggi Riparliamo di concupiscenza di Giuliano Ferrara
Nient'altro, solo una scopata di meno. Evanescente come la vanità di essere uomo e alzarsi ogni giorno con una donna nel letto, le lenzuola sgualcite e gli occhi chiusi. I ricordi in fila, allo specchio. In fondo, una volta eri solo, prendevi il caffè nella stanza disfatta e sognavi una, una che t'adorasse. Ti alzeresti dal letto, la sveglieresti con dolcezza, le pettineresti i capelli, la vestiresti di chiaro, da gita in barca, ed una volta là desidereresti finalmente di esser solo, prendere un treno, incontrare gli amici e i passanti, nei caffè all'aperto. Sperso, in una trattoria, davanti ad un piatto di bucatini alla matriciana, il guanciale rosolato nell'olio e il bavaglio per non macchiare la camicia di rosso pomodoro.
Vermiglio, come le chiappe al vento di una sconosciuta sdraiata in spiaggia, su un telo di spugna che assorbe tutto. Abbronzata e infradiciata dal mare. Che non bagna perché il mare non bagna gli attimi e il tempo. A quelli ci pensa il tic tac dell'orologio, stupido beccamorto, ossessivo come tutte le cose quotidiane, disincanto all'illusione di essere eterni, più duraturi di una pasta e fagioli, una vettovaglia canonica che giova al prete e ai predicatori ma non alla nostra digestione. Un venticello di broom broom che si confonde con le auto in strada, macchine d'acciaio che l'uomo fotte tutti i giorni, muovendo il cambio e spingendo il pedale. Per andare. Dove non si sa, è sempre una sorpresa. Magari a lavoro, con la voglia matta di scrivere qualcosa, o in tribunale, per affrontare la causa della vita, perché ci si stanca di ciò che non è il prezzo di una lotta. L'agonismo è concupiscenza, legge del più forte, narcisismo che supera i generi e le ideologie. Va a braccetto con tutti, il narcisismo, soprattutto con se stessi. E quando si ferma è per un attimo, uno scampolo di normalità.
Succede sovente davanti al televisore, di sera, con una mano sul bicchiere dell'aranciata e l'altra sul telecomando, sbracati sul divano nella brama di possedere tutti i canali: Rai uno, Rai due, Rai tre, Retequattro, Canale 5, Italia uno, La 7. Un'orgia via etere dove non ci si spoglia neanche e le donne sono solo dall'altra parte dello schermo. L'uomo guarda e la moglie mette il broncio: “Perché non usciamo stasera, c'è un bel film al cinema di via tal dei tali? Non possiamo passare i nostri giorni chiusi in casa, vediamo gente, facciamo qualcosa”. Pigrizia maschia dei nostri tempi: le donne non le capiamo più, in fondo non le abbiamo mai capite. Con una differenza, sino a cinquant'anni fa il marito (o il fidanzato) non doveva dare spiegazioni. Se aveva fame mangiava, se aveva sete beveva, se aveva sonno dormiva. Oggi è diverso, c'è tutto un guasto nella donna e siamo noi.
Loro ci guardano, ci solleticano e si sentono incomprese. Del resto hanno ragione, sono secoli che non comprendiamo un cazzo, presi soltanto dalla cupio dissolvi di lasciare qualcosa che non si decomponga con noi. Un rischiatutto dove non si vince mai e soprattutto non si vince nulla. Soltanto il gusto del tentativo, del gesto, come una velina che, d'un tratto, cambia sguardo e si mette la mano nei capelli. Una testimonianza. Roba da matti, dopo millenni persi a scrivere di donne, al dunque, soltanto per narrare la difficoltà di essere uomo. “Silvia rimembri ancor quel tempo”, ma lei non ricorda, non può, Giacomo Leopardi non l'ha mai capita. O le fotti o le canti, le femmine: maschilisti di merda sino in fondo.
E loro lì, a girar per casa, ad aspettare un cenno. Il mulo non ci fa caso. Concupisce con la tavola, con il lavoro, con i sogni. Mangia, a pezzi, la vita. Che è bella, sì, ma è troppo breve. Una colazione con brioche, eppoi il conto. Basta entrare in un bar e d'incanto si comprende tutto. C'è il vecchio che gioca a briscola, il ragazzo che beve il caffè ed il maschio che guarda. Manca la donna, è oscena: nel senso letterale, è fuori dalla vista, non ci è data. Ce la dimentichiamo sempre. Dai tempi di Adamo, quel bischeraccio, e di Eva. Dicono che fosse una costola. Che diamine, tutto questo casino per una costola. In realtà era molto di più, era il dramma di essere incompresi (o compresi, fa lo stesso), senza tentennamenti. Era la voglia matta di carne umana per non restare soli. Luigi Tenco, uno che ha avuto la concupiscenza della morte, lo ha cantato da dio: “Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare, il giorno, vedevo i miei sogni svanire, la notte”. Come si fa a non credergli, bisogna trastullarsi nei giorni a venire ma una via d'uscita va almeno cercata.
E allora si torna sempre lì, a lei, alla troia dagli occhi ferrigni che ci stringe alla gola e ci asfissia: “Coi tuoi piccoli occhi bestiali / Mi guardi e taci e aspetti e poi ti stringi / E mi riguardi e taci. La tua carne / Goffa e pesante dorme intorpidita / Nei sogni primordiali. Prostituta / Chi ti chiamò alla vita?”. Dino Campana, il poeta pazzo di Marradi, l'ha scritto un secolo fa, il resto è cianfrusaglia, solo una scopata di troppo nel tran tran di tutti i giorni. Mentre intimoriti dal tempo che che ci passa davanti, spossati, ci interroghiamo: scopare o comandare?
Il dilemma ci angustia da sempre, neppure il Riccardo III di William Shakespeare lo ha risolto: “Non potendo fare l'amante per occupare questi giorni belli ed eloquenti, sono deciso a dimostrarmi una canaglia e a odiare gli oziosi piaceri dei nostri tempi”. Perfino Lui, il gobbo, come misura alla deformità del potere, segno dei giorni piegati al desio di avere e comandare su tutto, ha avuto una sua lei. Un ritratto alla malvagità di essere uomini.
Cerchiamo tutti una Lady Anna che ci coccoli, che colga la nostra brutezza e per questo ci ami. Che ci illuda, magari. Ma non possa fare a meno di noi. Te ne accorgi persino al bocciodromo, quando per un pallino spostato, i giocatori si azzuffano. E' sempre la concupiscenza che li frega. Di vincere, di sfottere il nemico, di prevalere, di tornare dalla moglie e prima di andarci a letto poterle dire: “Oggi ho vinto a bocce, gli ho fatto un culo così a Michele”. Lei nemmeno lo conosce Michele ma basta la fotografia, con il giudice della gara in campo largo, prima del verdetto, che alza le spalle, impercettibilmente, come a dire: io decido ma non per volontà, per ruolo. Ogni vincita è questione di dettagli. Coi tempi che corrono bisogna fare attenzione a tutto, anche alle virgole. Son sempre quelle che ti fregano, sin dalle scuole elementari. Un segno d'inchiostro tra le parole, a scandire il ritmo del discorso. Sono importanti persino al telefono. Se le scandisci male, addio. Si scopre che magari hai un'amante, ti hanno licenziato, hai rotto la macchina. E allora sono dolori, cominciano gli interrogativi: come faccio a spiegarlo alla mia donna? Lei nemmeno ci pensa che sei ancora un bambino, ti vede come l'uomo per la vita. E allora scatta la voglia matta di non dire la verità, la concupiscenza per le bugie.
Anche i grandi imbroglioni potrebbero aver cominciato così. Mica si può pensare che uno come il conte di Cagliostro abbia progettato tutto, roba impossibile, neppure un maniaco ci riuscirebbe. Si tratta sempre di secondi: un'intuizione, un gesto, un'idea balenata per caso. E zac, il gioco è fatto: si concupisce con la bugia, col verosimile. Come nei romanzi, lavacri sommi di ogni infingimento. Uno inizia a scrivere sulla pagina, poi da cosa nasce cosa e di cupio in cupio si arriva al libro. Bagatelle dei giorni nostri. Persino Luciano Moggi c'è cascato. Parlava sempre, senza scandire le virgole, nei suoi vari telefonini. Parlava di sé con donne, con uomini, con dirigenti. Parlava di tutto, di arbitri, di belle facce, di buchi e buchini, di pallone, persino di ristoranti per gli incontri di lavoro. Concupiva con se stesso, in attesa che arrivasse qualche impiccione a dirgli: tu sei il Riccardo III del calcio. A quel punto, la deformità spacciata sui giornali, si ritraeva e tornava in silenzio.
Qualche giorno, prima di ricomparire in televisione, a Ballarò, su Rai tre, con la faccia mesta di un nobile decaduto a cui hanno portato via quasi tutto, tranne l'onore di aver concupito. Per Stefano Ricucci è stato lo stesso. Un'estate a far parlare di sé, con frasi rubate al cielo, foto di ricchezza e una moglie, Anna Falchi, bellissima: “Ahò, questi vonno fa i froci cor culo dell'artri”. Poi si è accorto che il culo era il suo ed è finito tre mesi dentro l'oblio del carcere. Una botta tremenda, da odiare l'estate tutta la vita. Questa vecchia puttana, cosparsa di ombrelloni e di nudità, dove ognuno mostra il corpo che ha ed ognuno si prende quello che merita.
Basta andare al mare, non importa dove, nei tanti infiniti luoghi di mare che offre un'agenzia di viaggi: l'esotico, il familiare, il trasgressivo, il lussuoso. Tutto cambia ma resta uguale. Arrivi sotto la tenda, ti sdrai sul lettino, ti spalmi di crema abbronzante ma non troppo. E aspetti l'ora di pranzo. Ti alzi, vai al ristorante in spiaggia, ordini un piatto di spaghetti alle arselle e lo mangi. Poi torni sulla sdraio, ti ricospargi di crema, stavolta contro le scottature, e ti guardi intorno. Le donne passano e pure gli uomini. Le ragazze ridono, le adolescenti si divertono, i vecchi si riposano. E tu aspetti, che arrivi l'ora di cena, per alzarti dal lettino e andare a casa, farti una doccia e uscire (di nuovo) per la cena. “Stasera dove andiamo, cara?”. Lei ti guarda e ti stupisce. “Stasera ho una sorpresa, ti ho preparato gli spaghetti che ti piacciono tanto, con le arselle”. Pensi, “No, ne ho mangiate un chilo a pranzo”. Un attimo, neppure il tempo di dire bah e lei ti sorprende ancora: “E per secondo, un rombo al forno con patate. Così ci facciamo una bella cenetta intima”. In salotto, la tavola è gia apparecchiata, tu avevi prenotato il ristorante migliore ma non importa. Funziona così: le donne ti anticipano, sempre. Quando sei casalingo vogliono uscire, se vuoi uscire sono casalinghe. Giovanni Mazzei, amico del liceo e delle prime vacanze in California (pagate coi soldi dei babbi, Paolo e Antenore) me lo ripete sempre, dopo un caffè preso insieme, le volte che ci vediamo: “M'importa una sega dell'Artusi, il dramma è che anche stasera non si tromba”.
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