Veni Edy vici
E' bello perché fuma nascondendo la sigaretta. La tiene col pollice e il medio, al contrario: il filtro verso l'esterno, la capocchia accesa all'interno. Trent'anni di Marlboro gli hanno insegnato a non bruciarsi, a far scorrere il fumo dal canale creato con le dita. Allora ogni tiro è una contorsione, un movimento strano eppure diventato spontaneo, facile, discreto.
Dal Foglio del 12 gennaio 2008
E' bello perché fuma nascondendo la sigaretta. La tiene col pollice e il medio, al contrario: il filtro verso l'esterno, la capocchia accesa all'interno. Trent'anni di Marlboro gli hanno insegnato a non bruciarsi, a far scorrere il fumo dal canale creato con le dita. Allora ogni tiro è una contorsione, un movimento strano eppure diventato spontaneo, facile, discreto. Poi urla cacciando fuori il fumo che è rimasto nei polmoni. Edy Reja appartiene a un mondo che sembra passato. I capelli, la pelle, la voce, la tuta. In panchina con lui c'è una generazione che nella realtà non esiste più. Perché nel pallone sono rimasti i Sonetti, gli Ulivieri, i Trapattoni, oppure gli altri: da Lippi in giù, quelli rampanti, forti, nuovi, eccentrici, protagonisti. Quelli che sembrano broker di Borsa come Colantuono e quelli che sembrano nerd in prestito su un campo di calcio, come Gianpaolo.
Lui appartiene a qualcosa che non c'è più: a una categoria di sessantenni che ha sgomitato, a una famiglia pallonara che ha cominciato in C, poi in B, prima di arrivare dove il calcio conta davvero. Se lo inquadri lo metti accanto a Capello, per età, amicizia, provenienza. Pieris Fabio, Lucinico Edy. Però è diverso. Da Capello e dagli altri della generazione. Reja è un nuovo Bagnoli con una faccia che assomiglia a quella di Zeman. Seduto, in piedi, di fronte a un microfono, quando parla, quando spiega, quando sceglie. Mai un eccesso. La voce: cupa, bassa, pacata. S'incazza solo quando non si vede, quando tira giù la felpa della tuta che è venuta su perché non smette di agitare le braccia. Quando getta la sigaretta e tira un bestemmione. Reja è una miscela: è l'Italia, ma anche l'est. Freddo e passionale, cinico e generoso. Orgoglioso. Tutto, niente. E' uno che ha la faccia ferita dal vento di casa sua, cioè del Carso, a due passi dalla Slovenia, dove pure la lingua è un'altra cosa, dove l'Italia si vede da un lato solo.
Ora è Napoli, un'altra cosa. Un altro codice, un nuovo lessico, un nuovo comportamento che lui non capirà mai fino in fondo, ma che ama lo stesso. Scarta un sacchetto, aggira un bidone, scavalca una discarica. Non capisce, non ce la fa. Se non sei un napoletano di questa storia di Pianura, di Serre, di Acerra, ti manca sempre un pezzo. Perché? Solo qui. Boh. L'altro giorno, al telefono, gli hanno raccontato che pure a Gorizia le discariche sono piene. L'hanno detto al Tg3 del Friuli. Però le strade sono libere, i bidoni nei cortili dei palazzi, i cassonetti ai bordi delle strade. Pieni, ma chiusi. La puzza della vita al nord è diversa, come l'umore e l'atteggiamento. Gli hanno detto che è colpa dei Borboni, che fecero grande Napoli e però la ridussero a una pattumiera. Francesi, sporchi, indifferenti all'educazione civica. Sa che i napoletani hanno ereditato l'approccio al menefreghismo, all'apatia, all'indolenza. Maledetti accidiosi. Non capisce lo stesso, perché non può. Non c'arriva, non ce la fa. Meglio.
Lui ama un'altra Napoli: il mare, la natura, la terra. Bella scura, viva. Un figlio di contadini conosce l'odore di quella buona. La vede, la sente, la tocca. Poi dentro la città: “La Napoli sotterranea, le cave di tufo, il primo acquedotto, i Decumani. Più che via Caracciolo mi piace immergermi nel ventre della città antica”. Poi però vede quella. E' la stessa dei cassonetti e della monnezza, vista da un'altra prospettiva: quella del San Paolo, lo stadio più esaltante e più deprimente. Piscio e passione, petardi e striscioni. Edy non c'entra con loro, non sembra adatto a una città eccessiva, sguaiata, esagerata. E' uno da dramma, non da commedia né da tragedia. S'innervosisce ogni volta che uno esagera, che stona, che supera il limite. Il presidente Aurelio de Laurentiis l'ha paragonato a Clint Eastwood. C'ha la faccia e forse anche un po' il portamento: asciutto, sicuro, energico. La sigaretta aumenta l'analogia. La tuta l'aggiorna.
Si mettesse una volta la giacca, Reja. In vent'anni di carriera da mister gli sarà stata vista addosso non più di cinque volte. Dice che sta comodo così, che quello è lui, uomo di campo e poi d'immagine, lavoratore non appariscente. E' formale solo quando gliel'impone il protocollo, come quando sono andati a portare la maglia del Napoli al cardinale Crescenzio Sepe. A lei, prego. Lì viene fuori l'altro lui: timido, riservato, modesto. Figlio di contadini. Uno che adora lavorare perché lavorando appari per quello che fai. Quando giocava era meno famoso di ora e forse è anche per questo. Per essere celebre da calciatore devi importi, da mister diventi noto anche se preferisci nasconderti. Perché sei solo, sei singolo, sei l'altro. Un individualista in uno sport di squadra, l'unico che non deve apparire perché c'è sempre. E' più facile mascherarsi, confondersi, mischiarsi. Reja si assume le responsabilità, ma desidera la retrovia.
E' uno da scia e forse visto adora pedalare, nel ciclismo non sarebbe mai stato un capitano. Passista di sicuro. Che non ama i velocisti né nella vita, né nelle corse. Lo Zoncolan è il punto di riferimento. Una salita, come metafora di tutto: del lavoro, dell'esistenza, della quotidianità, del calcio. La cima più dura di un giro d'Italia, la montagna che s'arrampica. Lui la conosce, la ama, la sfida. Chi vive vicino alle Alpi non può non sfidare una pendenza. Le sue squadre faticano, hanno alti e bassi, si riprendono, scattano. Il Napoli va a Milano ed è l'unica a mettere davvero in difficoltà l'Inter, fa nera la Juventus, però poi perde cinque a uno a Bergamo con l'Atalanta oppure due a zero contro il Cagliari in casa. Uno scalatore fa così: non può reggere sempre a mille. Molla, prende, va, rimolla. E' una questione di passo, di pedalata, di ritmo. Fino a quando non trovi il tuo, arranchi, strappi. Vinci o perdi. Reja vuole trovare il suo tempo, adesso. S'è preso la serie A l'anno scorso con un cammino costante e fatto di poche cadute. Stavolta è differente. Non ha lo squadrone che faceva paura agli altri in B.
Ora il Napoli è normale, medio, incompleto. Però c'è e chissenefrega se non gioca bene. Vogliono lo spettacolo? Allora non pretendano le vittorie. Se la prende quando dicono che la sua squadra non è brillante. “Andatevi a vedere le videocassette delle altre formazioni che ho allenato. Dovete capire che siamo una squadra giovane, piena di ragazzi e di gente nuova. Dobbiamo fare i risultati, prima”. C'è qualcosa di Capello, per forza. C'è perché non è solo il Friuli, l'Isonzo, la lingua, il vento. C'è che le origini comuni si sono ritrovate un giorno a Ferrara, passando dal vento alla nebbia, dal freddo secco all'umidità. S'incontrarono nel pensionato della Spal dove erano arrivati ragazzini. Sono coetanei, di fatto. Si sono conosciuti, si sono ritrovati. Amici al collegio, compagni di squadra. Da allora non si sono mai più allontanati. Fabio lo ripete spesso: “Ho pochi amici nel mondo del calcio. Uno di questi è Edy Reja”.
Edy, giusto: con una “d” sola che non sia mai qualcuno sbagli e raddoppi con quel nomignolo che improvvisamente ti fa diventare un altro tipo di attore o un altro tipo di ciclista: Eddie Murphy o Eddy Merkx. Esattamente il contrario di lui che non è simpatico come il professore matto e non sarà mai istrionico come il Cannibale della bici. Doveva tifare per Gimondi, Reja. E' un sospetto, non una certezza. Non può esserlo perché strappargli una chiacchierata è un'impresa titanica. Non ama parlare, tantomeno confidarsi. Per questo non s'è mai capito fino in fondo il perché di quel diminutivo anglofono. Edoardo poteva essere Edo. Italiano, autoctono, indigeno. Goriziano. Poteva e forse doveva, perché quando è nato lui, lassù avevano tutti paura che il confine fosse spostato in una notte. Allora s'aggrappavano alla patria, alla bandiera, alla lingua. E' diventato Edy, invece, e nemmeno s'è mai saputo se in fondo gli piaccia davvero. Non lo dice, perché la discrezione impone anche questo, così come non parla mai della vita privata. Gli sta al fianco la moglie Livia, la ragazza che Fabio Capello gli presentò ai tempi della Spal e che poi sposò, occhi azzurri e capelli rossi, una donna di quelle che non si vedono mai, eppure ci sono. Ha girato l'Italia per stargli al fianco e lo ha spinto ad allenare piuttosto che ad aprire un negozio di articoli sportivi.
Edy questo voleva fare: il commerciante. Scarpe, magliette, pettorine, palloni. Avrebbe consigliato perfettamente i tacchetti da usare: “Metti i tredici gommati”. Voleva una vita serena, voleva lavorare e tornare a casa. E' finito su una panchina perché Livia gli ha chiesto di provarci. Molinella, la prima. Poi Pordenone, di nuovo Monselice, Pro Gorizia, Treviso, Mestre, Varese. La prima volta in B a Pescara. E' stato anche il primo trasferimento vero, il trasloco di un'identità. La moglie accanto, sempre. Forse senza di lei Reja non avrebbe girato così tanto. Perché dopo Pescara a rimorchio è arrivato un giro d'Italia: Cosenza, Verona, Bologna, Lecce, Brescia, Torino, Vicenza, Genoa, Catania, Cagliari. Prima di Napoli, questo. Tappe, una dietro l'altra, sempre con la stessa faccia con lo stesso spirito. Ovunque ne hanno parlato così: “Un grande lavoratore”. E poi, serio, burbero ma sereno. Non ha fatto nulla per cancellare l'idea che gli altri hanno di lui. Stereotipo? Sì. Meglio lasciar credere, meglio farsi ritrarre dagli altri, che farsi un autoritratto. Gli piace quello che pensano di lui, anche se poi non è sempre così.
Cazzeggia quando non si vede. A Napoli piace poco perché dicono sia troppo freddo. Qualcuno è andato su Wikipedia e ha preparato una pagina su di lui in napoletano: “Allenatore d'o Napule. Nascette a Lucinico, nu paese vicino a Gorizia, ‘o 10 ‘e Ottobbre d'o 1945. Fuje chiammato ‘o mese ‘e gennajo 2005 ‘o posto ‘e Ventura. ‘O 2006 facette saglì o Napule in serie B, dase che arrivaje primmo in serie C1 B. O' carattere ‘e Reja pare nu poco friddo e scuntruso, ma chi ‘o sape bbuono dice ca nunn'è accussì. O' Mistèr d'o Napule ha fatto semp'avverè ca tene nu grosso rispetto p'à fatica d'e jucature e d'a ggente ca e và a guardà ‘o stadio”.
L'anno suo è stato quello scorso. Perché Napoli era l'occasione. A Brescia era andata male. Era il 1997. Lasciò prima di cominciare il campionato: un giorno si trovò in ritiro a Vipiteno con il presidente Gino Corioni. Parlarono, discussero, litigarono. Dimissioni. Ciao. Addio. “Il fatto è che i rapporti con il presidente Corioni non sono mai stati facili e adesso le cose si sono complicate. Non ci sarà da parte mia alcun ripensamento. L'avventura della serie A mi tentava, ma ho una dignità da difendere e non posso tornare indietro. Lascio il Brescia con molto rammarico e sono veramente dispiaciuto, ma ripeto che la rinuncia mi è imposta dalla mia dignità”. A Genova era finita male con Preziosi. A Cagliari uguale con Cellino. Fiducia a tempo, tira, molla, ritira, rimolla. Il solito, non il suo. A Napoli era arrivato quasi per disperazione. Cioè c'era un progetto, c'erano le idee, c'era la voglia di tornare grandi. Però era C1, comunque. Erano pochi, erano depressi. La gente triste, lo stadio da novantamila posti con tremila paganti. Era gennaio, quando le panchine si appendono a chi può tirarle su. Lo chiamarono al posto di Ventura. L'offerta: contratto fino a giugno 2005 e la promessa di guidare la squadra in caso di promozione. Eccola. Dalla C alla B. Il gioco? Meglio le vittorie. De Laurentiis, Marino, Reja, il trio che ha cambiato Napoli: due caldi e un freddo. Cioè Clint perché anche questo è un Western: quello che arriva da lontano, il tenebroso, il misterioso, lo scorbutico.
E' affascinante e anche se Napoli continua a dire che è poco passionale, se lo tiene. Per quanto non si sa. Ora sì. Ora e per un po'. Ha preso le critiche dopo la scoppola di Bergamo: “Troppo difensivista, troppo cauto, tanto che s'è preso cinque gol”. Ha ingoiato amaro, Reja. Perché? Napoli e il Napoli non possono pretendere più di quello che hanno. A lui dicono che non ami osare: invece gioca con Lavezzi, Zalayeta, Hamsik e Bogliacino. Poi finisce che pareggia o che vince uno a zero. Certo che quelli sulle tribune vogliono lo spettacolo, certo che sognano Maradona. Napoli non sarebbe Napoli, sennò. Però a questi Reja serve come mai: tiene i piedi a terra, in una città che è troppo facile all'euforia. Prende le responsabilità, ammette gli errori, sa dire: “Ho sbagliato”. L'ha fatto dopo la sconfitta con l'Atalanta. “E' stata colpa mia”. Non è facile, non succede quasi mai. Con lui sì, però non bisogna dirgli che non ci prova, che ha paura, che ama gli incontristi perché lui era un mediano ai tempi in cui giocava, che detesta i trequartisti perché sono poco concreti e non fanno vincere. Anzi a lui i giocatori che svolazzano piacciono, comunque. A Cagliari si trovò a gestire Zola. L'ultimo, non il primo. L'ultimo cioè quello che doveva essere dosato, centellinato, coccolato. E' lui che l'ha fatto rinascere, prima che decidesse di abbandonare. “Non fate pressione su Gianfranco. Va protetto, va salvaguardato. E' prezioso per noi e per l'Italia”. E'lui che ha tenuto Zola in B per prendersi insieme la A. Gianfranco non dimentica: “Reja è un grande. A Cagliari è riuscito a darmi tanto e ad insegnarmi tante cose, nonostante avessi 37 anni”.
Dicono che si impari da Edy. Che cosa? Il rispetto, il sapersi gestire, l'idea di non mollare. Se c'è un teorico della vittoria all'ultimo minuto adesso è lui, che l'anno scorso in B vinse una decina di partite alla fine. Anche qua c'è un po' di Capello. “Non è un caso”, dice Zola. Non può esserlo, no. E' sempre questione di passi, alla fine. La salita arriva e devi essere preparato. Sempre. Reja vuole trovare il ritmo senza mettersi in bici. Il calcio, la vita, i risultati, il pallone, le partite. Pronto a non farsi fregare: “Il campionato mi sembra lo Zoncolan. Lo scali, lo scali, e non vedi mai la cima. Che fatica. Quella montagna l'ho fatta in bici da ragazzo: è durissima, la più dura di tutte. E c'è sempre qualcuno alle spalle che non molla, diamine”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano