Brevi saggi più o meno concupiscenti/20
Il desio dei Trombadori
Allora andiamo, tu e io (hypocrite lecteur) a passeggio per la selva del peccato quotidiano, ché tanto ci è concesso secondo Legge a noi mortali: di riconoscere la volontà del Creatore pure al cospetto di pensieri e immagini che nella nostra mente sempre affiorano in contravvenzione a essa.
Leggi Riparliamo di concupiscenza di Giuliano Ferrara
Allora andiamo, tu e io (hypocrite lecteur) a passeggio per la selva del peccato quotidiano, ché tanto ci è concesso secondo Legge a noi mortali: di riconoscere la volontà del Creatore pure al cospetto di pensieri e immagini che nella nostra mente sempre affiorano in contravvenzione a essa, come accadde in origine – dicono – all'angelo orgoglioso di nome Lucifero, così prossimo quanto un'ombra nel cuore degli umani (Isaia, 14:13: “Tu dicevi in cuor tuo: io salirò in Cielo, innalzerò il mio trono al di sopra delle stelle di Dio”). Allora andiamo: a battere i sentieri della concupiscenza, principe dei peccati, con la parola scritta e letta in pubblico, in una parabolica simil-confessione (ma solo l'inginocchiatoio può attendere quella vera) utile forse soltanto a rivelare la fragilità morale del nostro raziocinio (l'uomo è “sproporzionato”, dice Pascal, “…qualcosa di mezzo tra il niente e il tutto”). E cominciamo a riflettere sul desiderio come abuso (il concupire) di cui nessuno tracciò mai l'esatto confine se non per la parola del Creatore (Genesi 4:7, a Caino: “il peccato sta spiandoti alla porta, ma tu lo devi dominare”). E quando mai, tentati nel pensiero magari come Eva, avremmo potuto resistere al desiderio, o non avremmo potuto concepire l'immagine di un piacere totale tanto nell'anima come nel corpo? “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi”, dice Giovanni. E noi deboli con lui: “perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo”.
E noi che figli siamo, e tutto ciò sappiamo, pure nel mondo stiamo. Come re Achab di Israele, che aveva tutto ma non la bella vigna di Naboth, e tanto la invidiò e se la prese dopo che sua moglie Jezebel ebbe fatto uccidere con l'inganno il proprietario. O come il grande re Davide, marito di tante mogli, e pure oltremodo concupiscente di una bella maritata che ottiene ed ingravida mentre lo sposo è militare in guerra ed ivi perde la vita (“per caso”, si disse). A che valsero, a che, le lagnanze ( le “geremiadi”) e le condanne dei profeti, le parole di Elia, o di Nathan, se lo scandalo della concupiscenza vive e continua a vivere da sempre sotto il sole come il “nulla di nuovo” di cui ci parla l'Ecclesiaste nella attesa di eventi imperscrutabili? E' giudaico, il sapere biblico. E però anche cristiano. “Chiunque nega il Figlio, non possiede nemmeno il Padre”, testimonia Giovanni: ma solo il dono della fede assicura questa verità. Ebrei e cristiani, fratelli maggiori e minori, sistole e diastole nell'intimo dissidio di una storia non profana d'occidente che però si vuole laica, mondana, e sempre aperta al “folle volo” di un conoscere che tanto più attrae quando più talora è fuorviante. Crocifiggere la carne, “con le sue passioni e le sue concupiscenze” (Galati, 5:24) resta pegno e pietra di paragone della vita cristiana. E' una parola!
Il passaggio per la “porta stretta” attesta la morale in una sfera superiore a quella dei costumi mondani che debbono elevarsi alla sua altezza, e non viceversa (“sforzatevi di passare per la porta stretta…”). Facile, a dirsi: ben più arduo e santo è lo sforzo di conformarvi atti e pensieri quando Satana getta i suoi ami come un'ombra adescando la mente per dubbi razionali e desideri concupiscenti di trasgredire l'interdetto (Genesi, 3:1: “Ha Dio veramente detto: non mangiate di tutti gli alberi del giardino?”). Verità di ragione e verità di fede, con la “tentazione” intrisa nel pensiero: ecco un bel cruccio spirituale che ci accompagna come la coscienza del Grillo parlante quando segue e ammonisce Pinocchio perduto nel mondo. Scomoda e fastidiosa, la “coscienza”. Nel mondo di oggi, poi: dove l'uomo sembra ivi gettato quale “invisibile trottolina” e gira e rigira senza sapere perché dopo che quel “maledetto Copernico” lo ha spinto a riconoscersi quale “vermuccio” nell'infinito ordine siderale (Pirandello ne “Il fu Mattia Pascal”).
Ce ne faremo una ragione, o meglio ci proveremo. Ma sarà sufficiente? O converrà piuttosto che qualche “verità di fede” sovvenga ancora a suggerire il discrimine del Bene e del Male, vale a dire il sentimento del limite umano (“non amate il mondo né le cose del mondo”, dice Giovanni) senza che ciò non valga ad “accabler” ogni nostro intendimento e impulso ad agire, a costruire una morale e una cultura nel mondo e per il mondo? Non sono domandine da poco, hypocrite lecteur. Infatti non prevedono una risposta esauriente, per quanto e soprattutto se ragionevole. Saldo come la Rocca di T.S. Eliot resta custodito nel tempo il Verbo: e altrettanto però permane mutando di forme e di pensieri la sibilante lira della concupiscenza (desiderio smodato, abuso di qualcosa di legittimo, eccetera, eccetera). Quanto a me e te, caro lettore, nel nostro piccolo non resta che riconoscere senza appello una intima situazione di coscienza che fu dai latini tanto bene riassunta: “video meliora proboque, deteriora sequor”.
Il mondo sembra in genere quasi fatto apposta per i paradisi artificiali d'ogni colore e fattezza (e che razza di mondo-mondano sarebbe, altrimenti?) tanto che l'allucinato Carlo Baudelaire non solo consigliava i peccatori di assaporare i fiori del male ma anche di perdervicisi dentro (“enivrez–vous”, diceva). Noi però, peccatori più modesti e più avvertiti, non avremo la forza di reggere a tal punto una simile sfida. Trascinati o adescati di volta in volta da forme più o meno particolari e graduate di concupiscenza, lo riconosceremo e forse in parte anche ce ne pentiremo. Qualche volta sapremo perfino dire di “no” alla radice suprema del peccato. E se ci farà del bene, non sarà a prima vista. Si nutre di balsamiche alchimie (elisir) il tempo che ci resta. E il planetario della vita è costellato di ammirevoli Ersatz (sostituti, surrogati) adeguati per tutte le epoche e per tutti i gusti.
Così grande può apparire talvolta la distanza tra Cielo e Terra all'anima bella e tanto semplicetta da scambiare addirittura l'esistenza mortale con un temporaneo e paragnostico “esilio” dove solo può accampare diritti l'infelice ironia romantica (vedi lo Schlegel) o il desiderio di una felicità inattingibile, in luogo del “bene operare” di cui parlano i precetti e le virtù teologali. Se ne vanno volentieri per questa strada per lo più gli artisti, i chierici vaganti, i saltimbanchi, i poeti e però anche tanti uomini e donne comuni presi così “per incantamento”. E' la forza del desiderio che talvolta li muove, o la passione, o la misteriosa “brama”, di cui parlava Umberto Saba, avvertendone i sintomi senza però riuscire mai a distinguerne la “natura”, se mai ci fosse. Il Male non è un principio, si dice, è solo assenza di Bene. In questo vuoto scorre il torrente della concupiscenza (“carnis et oculorum”) che fa quasi tutt'uno, pare, col flusso della vita. Non c'è che dire. Siamo in tal modo sempre soli, noi viventi, dinanzi al bivio dove biforcano il vizio e la virtù. Perfino Eracle vi rimase implicato. E della concupiscenza (desiderio del desiderio) fu vittima responsabile anche quel re Candaule di Lidia che pagò con la morte l'avere incitato la fidata guardia Gige ad ammirare le fin troppo da lui amate nudità della moglie (“nessuno vedrà la regina”, aveva detto). Contravvenire l'interdetto, ma guarda un po'. Che ci sia un qualche “problema del sesso” a tormentarci da un bel po' tempo? E che non sia tanto facile alla fine sbarazzarsene, come parrebbe invece ai più moderni e più aggiornati?
Dicono che oggi il bandolo è stato afferrato, che molti tabù sono crollati, che la felicità – o quasi – è a portata di Baedeker fisiopsicologico, eccetera. E però: “nulla di nuovo sotto il Sole”, ripetiamo con Qoelet, mentre davvero “il cielo è sempre più blu” (Rino Gaetano). Consapevoli, e pur sempre indecisi o incapaci di comporre in uno verità di ragione e verità di fede (Tommaso d'Aquino) ci riconosciamo allora malauguratamente tra coloro “che son sospesi” non senza indagare nell'intimo e virtualmente pronti a riconoscere la colpa originale insita nella “natura umana” della quale peraltro ci pare di poter solo prendere atto sine remedio. Ci sarà perdono per il perplesso e per il miserrimo ignavo? Ci sarà finalmente il Giudizio? E come meritare la Grazia? Quando il Papa di Roma formula il precetto morale e razionale (“etsi Deus daretur”) apre una via piena di luce riconoscibile per la carità del teologo tomista che mette in evidenza (anche al “laico pensoso”) le virtù salvifiche della “retta ragione”. L'orgoglio laico è di conseguenza invitato e pressoché persuaso ad ipotecare la sua originaria e superba petizione di principio (“etsi Deus non daretur”) che il desiderio illecito verrebbe a imporgli.
Ma come tuttavia evitare di cadere in fallo, nel vuoto della fede e nel conforto della sola ragione per quanto bene indirizzata ma pur sempre schermo indifeso dinanzi alle malizie lusinghiere della vita su cui la concupiscenza (“carnis set oculorum”) può esercitare il suo ingannevole e smodato richiamo? Se la “carne” è debole la “ragione” non è da meno. Come rinunciare ad amare le cose “del” mondo, mantenendo pure alta la fiaccola dell'amore “nel” mondo? Tutto ciò che non è amore di Dio, si esercita alla fine sul colmo rischioso della eresìa. Ne sapevano già qualcosa i “trombadori” dell'alto medio evo, i poeti e i suonatori della lingua italo-celtica, che precedettero i provenzali troubadours nell'amore cortese e per cantare in lungo e in largo la bontà intrinseca dell'amore terreno (il “domnejar”) prima che Innocenzo III ne perseguisse la “haeretica pravitas” (crociata contro gli Albigesi, 1208). Erano quelli i canti dell'amore-passione, della gioia del mal d'amore elevato in rapporto dialettico con l'interdetto, che definirono fin dal principio un simmetrico ritmo spirituale nel tormentato cammino dell'occidente (arte, religione, filosofia…).
Nei fervidi trastulli del “fin'amor”, l'uomo del nostro medioevo tesseva la trama di una poesia che per culmine di concupiscenza suggeriva piuttosto di “padroneggiare” il desiderio di fronte alla Dama inaccessibile (Bertrand de Ventadorn: “ai domna, aiatz de vostr'amic mercey…): e inaugurava la lunga tradizione (fino a noi!) di una erotica “teologia crucis” posticipante il piacere della carne anziché allontanarlo ( e Denis de Rougemont su Tristano e Isotta annotava: “…ciò che misura l'amore sono le pene che si vivono per esso…”). Così il melodioso “amor de lohn” consumato da Jaufrè Rudel di Blaya, crociato per amore (1147) della mai vista e sempre agognata Melisenda, contessa di Tripoli, apriva il conto spirituale dell'occidente con la gioia perversa ed erotica della “sofferenza” e della “attesa desiderante” che prende il posto di più alte finalità trascendenti (“amor de terra lohndanha / por vos totz lo cor mi dolh'…”).
Che i cavalieri “troubadours” non disdegnassero affatto anche i piaceri di una virilità piena e conclamata è d'altra parte ben noto (così Guglielmo IX di Aquitania nel suo “Farai un vers, pos mi sonelh: “…la fottei tanto quanto sentirete / cento e ottantotto volte / così che per poco non mi ruppi l'apparato…”). E però vedere l'amata nuda, giacere accanto a lei abbracciati nel letto, senza che l'uomo faccia nulla contro la volontà della donna, restava la prova suprema della “cour d'amour”, quale sublimazione rituale della più alta concupiscenza paga di sé in se stessa (“En un vergier sotz fuella d'albespi /tenc la domna son amic costa si,/ tro la gayta crida que l'alba vi...). Che si trattasse di “amor purus”, cioè fondato sul controllo del desiderio, dubbio non v'era. Ma non perdeva il suo connotato sensuale tanto quanto l'adulterino “amor mixtus” (quello cioè che “in extremo opere Veneris terminatur”) e come tale da lodare, secondo il valente Andrea Cappellano, che di desiderio carnale (e di eresia) si doveva intendere parecchio se ai primi due libri del suo “De Amore” (1180) ne fece seguire un terzo (“De reprobatione amoris”) in cui opportunamente (o per dissimulare?) condannava in nome delle “verità di fede” ciò che prima aveva esaltato in nome delle “verità di ragione”.
Ma la pianta frondosa del canto alimentato da quel modo d'essere concupiscente (l'amore detto “disonesto” e cioè in contrasto con la dottrina cristiana) avrebbe poi lasciato impronte smaglianti e decisive nella cultura, nella poesia e nello spirito libertino d'Europa. E tra coloro che “la ragione sommettono al talento” si contano tra l'altro tipi d'eccezione come Federico II e Jacopo da Lentini (“Amor è uno desìo che ven da' core…”) e poi Cino, Guittone, Guido Cavalcanti, e gli altri seguaci d'Amore: erano dunque loro i “lussuriosi” che Dante – seguendo san Tommaso – consegnerà alle pene d'Inferno assieme a Paolo e Francesca (“Amor condusse noi ad una morte…”) non senza avvertire il radicato dolore del distacco da quanto di mondano e “concupiscente” aveva sostenuto e amato nel tempo della prima giovinezza (“E caddi come corpo morto cade”).
Naturalismo tra neoplatonico e neoaristotelico (Averroè), in odore di catarismo, o altro che fosse: di tale cibo spirituale si nutrì il modo di vita, il canto e la vena poetica dei nostri maggiori d'Europa, tale che il loro canto seduce ancora e alberga variamente nell'animo inconsapevole dei peccatori occidentali moderni e contemporanei (di letteratura, carne e diavolo, a guardarsi un po' in giro, ce ne sarebbe per tutti: da Swinburne, a Rilke, a George, a seguire di delizia in delizia fino all'estenuato e sbracatello oggidì. Quanto all'Italia, senza scomodare il solito D'Annunzio, basterebbe l'iniziale “Jaufrè Rudel” di Giosuè Carducci: “Contessa, che è mai la vita?/ E' l'ombra d'un sogno fuggente./ La favola breve è finita, / il vero immortale è l'amor..”). Sic transit gloria mundi. Per quanto lastricata di buone intenzioni, si comprende allora fino a qual punto sia malsicura la via di salvezza battuta anche dai “trombadori” odierni, più o meno eccellenti. Ignavi, o perplessi, o pure in bilico sul discrimine del Bene e del Male, non resterebbe conclusione diversa dal prendere atto che le vie della concupiscenza, malgrado le avvertenze, sono imprevedibilmente infinite: molto difficile (impossibile?) è prendere il volo e abbandonare la “tentazione dei pensieri” al suo corso mondano, senza che intervenga provvidenziale il dono della grazia e il soccorso della fede.
Ed è superfluo o quasi aggiungere che il fatto ci riguarda molto da vicino ( cioè personalmente) lettore odierno, “mon semblable, mon frère”: che ti ritieni ormai scaltrito o meglio moralmente accostumato perché necessariamente “câblé” dalle più elementari e stremate oscenità del desiderio buonisticamente dichiarato “libero”, della trasgressione orgogliosa, tra videonovelas e videoporno e discoteche e saune per tutti i generi e transgeneri, culto del corpo a specchio di Narciso, molteplicità di copule che celebrano gli imperativi del senso sovrabbondante una ragione da tempo isolata, precaria e pure sottratta ai legami di un solido fondamento morale. De te fabula narratur, ci diremo allora così a vicenda, riguardo alla concupiscenza e alla “brama di Eros”, incamminati come siamo nella selva spaesante e oscura dei peccati quotidiani. Ci sarà alla fine, una via d'uscita? Se ci sarà, preghiamo Iddio che ce la mandi buona (con François Villon: “que tous nous veuille absouldre”). (Immagine: Pablo Picasso, “Arlecchino e donna nuda” (1970), Parigi, Galleria Louise Leiris)
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