La Joshua Generation

Stefano Pistolini

Provate a proiettare sullo scenario americano del presente il sermone che domenica, durante la funzione di mezzogiorno, Barack Obama è stato invitato a pronunciare alla Chiesa apostolica di Dio a Chicago

    Dal Foglio del 17 giugno 2008

    Provate a proiettare sullo scenario americano del presente il sermone che domenica, durante la funzione di mezzogiorno, Barack Obama è stato invitato a pronunciare alla Chiesa apostolica di Dio a Chicago, e già che ci siamo estendete l'esperimento a casa nostra, al flusso di messaggi in arrivo dalla politica italiana – e poi state a vedere l'effetto che fa. Obama ha condotto per 16 mesi una campagna inattesa e formidabile. E' stato accusato di essere un manipolatore, uno “spara promesse”, un illusionista in difficoltà alle prese coi problemi reali. Ma Obama ha travolto l'America, le ha fatto riscoprire l'impudicizia della passione politica, ha sradicato le routine elettorali parlando d'altro, evocando aspirazioni perdute, progetti trasformati in illusioni, lo sconforto degli obiettivi mancati. Obama ha lavorato ai fianchi l'ansia e la disillusione americana, la nostalgia per il suo ottimismo e la voglia di riassaporare quegli entusiasmi che sono la colonna vertebrale della nazione. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e ora il tetto delle sue aspirazioni è il cielo. Se nella settimana dopo l'abbandono di Hillary lui ha cercato di far cambiare idea a chi lo classifica un “candidato senza sostanza”, affrontando le questioni pragmatiche di un'economia in crisi di fronte a piccole platee di provincia, domenica Obama s'è passionalmente riproiettato – in occasione della festa del papà – sui valori, sul recupero di quelli smarriti e sullo slancio di un cambiamento inteso non come novità propagandistica, ma come inesauribile questione morale, in questo caso relativa alla decenza che impone a un padre d'essere veramente tale, in termini educativi e di trasmissione dell'esperienza. 
    Obama chiama a corresponsabilità i concittadini, i padri, i capifamiglia: se in tempi difficili è sacrosanto puntare l'indice su chi governa perché affronti i problemi più gravi – lavoro, sanità, fonti energetiche – altrettanto importante è che l'uomo qualsiasi americano non si dimetta dal mandato che ha reso possibile la costruzione di una nazione. Perché una paternità non s'esaurisce nel momento del concepimento. La dignità di un padre non si dispiega nella sua capacità di riprodursi, bensì nell'avviare quel figlio al bene. Se l'America si sente in crisi, non tutta la croce va gettata su chi comanda. A ciascuno le sue responsabilità – e proprio “responsabilità” per Obama è la parola chiave del cambiamento che ogni americano deve produrre, i padri prima di tutto, a cominciare dai padri afroamericani come lui, protagonisti di assenze, abbandoni, egoismi e infantilismi che squassano le fragili strutture familiari. E, dice Obama, a fianco alla “responsabilità” si colloca l'“empatia”, secondo cardine dell'insegnamento paterno: non soltanto la spinta a primeggiare, non soltanto l'accensione della speranza e della sana ambizione, ma anche la capacità di mettersi nei panni altrui, di guardare attraverso occhi diversi. Praticando quella reciprocità che la società del presente scambia per pernicioso eccesso di gentilezza. Ecco: sarebbe interessante ascoltare parole così da un protagonista della politica italiana e sorvegliare le reazioni. Sentir dire: protestate e pretendete, ma per l'amor di Dio, datevi tutti da fare, siate decenti e all'altezza. Contribuite con dignità e impegno, come cittadini e come padri.

    “La mia casa sulle fondamenta di Cristo”
    Parole inconsuete quelle di Obama, che tornano a stuzzicare l'etica degli americani e ripropongono l'autoanalisi collettiva, prima che il posizionamento. Postpolitica. Ma con dentro un fil rouge di strategia elettorale, annodato al fattore religioso del discorso: pronunciato in una chiesa, in una chiesa nera di Chicago che non è la vecchia Trinity Church di Obama e Jeremiah Wright (il suo “padre” – almeno spirituale – ripudiato per eccesso di narcisismo), bensì la più conservatrice Chiesa Apostolica di Dio. Barack ha parlato da fervente cristiano nella casa di Dio, da politico che ispira la sua visione all'insegnamento e alla coerenza di Gesù. Nel testo approntato per il sermone si legge, a poche righe dalla fine: “Dobbiamo fare tutto ciò che possiamo per costruire casa sulle fondamenta più solide”. Ma qui, improvvisando, Obama dal pulpito, percependo la spiritualità dell'occasione, ha aggiunto parole cruciali: “E per me questo vuol dire costruire la mia casa sulle fondamenta di Cristo”. E ancora: “Perché io posso sbagliare come padre, marito e servitore della nazione. Ma se riesco a instillare nelle mie figlie l'insegnamento che Dio veglia su noi anche nei momenti più oscuri, sapremo che è sempre possibile farcela”. Questione di fede. Solo così potremo vedere giornate luminose. Uno slancio e un'apertura di dialogo che non sfuggirà a quella che Obama chiama la “Joshua Generation”, gli evangelici under 40 (come coloro che ai tempi dell'Esodo riuscirono ad approdare alla Terra Promessa; gli altri, Mosè incluso, vagarono invano per il deserto), i giovani credenti cui guarda con interesse elettorale e che potrebbero preferire la sua ispirazione alla navigata operatività di John McCain. Portando alla sua candidatura democratica quei voti che per ultimo ha intercettato Jimmy Carter. I voti della gente che crede nella famiglia, nella congregazione e nella preghiera. Nel nome del Padre, appunto. Il Padre numero uno, quello originale.