Il candidato giusto nel partito sbagliato

Christian Rocca

New York. La sintesi, perfetta, della campagna elettorale americana che si concluderà il 4 novembre con l'elezione del quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti è di Dick Morris (...): “un candidato che è altamente eleggibile è il nominato di un partito destinato alla sconfitta”.

    Dal Foglio del 20 maggio 2008

    New York. La sintesi, perfetta, della campagna elettorale americana che si concluderà il 4 novembre con l'elezione del quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti è di Dick Morris, già stratega elettorale della seconda vittoria di Bill Clinton, oggi militante anticlintoniano e vicino ai repubblicani: “Un candidato che non può essere eletto sta per essere nominato da un partito che non può essere sconfitto, mentre un candidato che è altamente eleggibile è il nominato di un partito destinato alla sconfitta”.
    Il candidato “ineleggibile” è Barack Obama, afroamericano, inesperto, troppo elitario e liberal rispetto al resto del paese. Il partito che non può essere sconfitto è il Partito democratico, in vantaggio in ogni sondaggio nazionale e, recentemente, capace di conquistare tre seggi della Louisiana, del Mississippi e dell'Illinois in collegi solidamente conservatori. McCain, invece, è il candidato eleggibile per eccellenza, eroe di guerra, tosto sui temi della sicurezza nazionale, conservatore ma di spirito libero e indipendente. Il suo problema è che il Partito repubblicano, dopo otto anni di George W. Bush e altrettanti di una leadership disastrosa al Congresso, è in via di disfacimento e incapace di trovare nuove energie. 
    Scelto senza grande entusiasmo alle primarie del partito, anzi odiato da gran parte della base e dai vertici repubblicani, McCain è l'unico del mondo conservatore in grado di poter cavalcare con credibilità l'onda del cambiamento provocata dalla candidatura di Obama e dal risentimento anti Bush, ma il senatore dell'Arizona non ha ancora chiarito quale sarà la sua strategia. Obama, e quasi tutti i commentatori politici, sono convinti che il disagio sulla guerra in Iraq, l'insicurezza economica, il dollaro debole, il prezzo della benzina, la crisi dei mutui, la spesa pubblica fuori controllo, l'inefficienza post Katrina e il basso indice di gradimento del presidente saranno i fattori decisivi a novembre. In questo scenario per McCain non ci sarebbe scampo, tanto più che ogni giorno si consolidano l'entusiasmo pro Obama e i mal di pancia per McCain, accompagnati da una grande mobilitazione, anche finanziaria, a favore dei democratici.
    Circola però anche un'altra analisi, opposta: in Iraq la situazione è cambiata e l'inesperienza e l'ingenuità di Obama (parole di Hillary Clinton) sulle questioni di politica estera alla fine favoriranno McCain. Se si aggiunge che il senatore nero dell'Illinois non riesce a convincere la working class bianca, gli ispanici e i cattolici, in particolare quelli residenti negli stati in bilico, allora la partita torna a essere aperta, anche perché grazie alle sue campagne pro-immigrazione McCain è in grado di ripetere l'ottimo risultato di Bush con gli ispanici, i quali tradizionalmente votano democratico. 
    C'è un altro elemento: è vero che gli americani vogliono cambiare aria a Washington, ma l'America resta un paese conservatore, tanto che la vittoria democratica di metà mandato di due anni fa, ma anche quella nei  tre seggi alle suppletive dei giorni scorsi, è stata ottenuta con candidati ben più che moderati, duri contro il terrorismo e quasi tutti pro life. Infine, come ha ricordato Bill Kristol ieri sul New York Times, agli americani piace che i due partiti si dividano il potere di Washington, ma preferiscono mandare un repubblicano alla Casa Bianca e i democratici a guidare la maggioranza del Congresso. A conferma di questa tendenza ci sono i sondaggi nazionali, per quanto possano valere: Obama e McCain sono più o meno appaiati o con un leggerissimo vantaggio di Obama su McCain, ma con più difficoltà rispetto a Hillary negli stati decisivi: Florida, Pennsylvania e Ohio. Mentre al Congresso sono gli stessi repubblicani a prevedere una sconfitta di almeno venti seggi alla Camera e di almeno cinque al Senato. 
    La strategia di Obama è chiara: accelerare sul cambiamento e non farsi caricaturare come il classico candidato liberal, tassatore e incapace di difendere il paese, ma soprattutto cavalcare la crisi repubblicana e spiegare che votare McCain è come eleggere Bush una terza volta, specie sui temi della guerra al terrorismo e dell'economia. McCain ha due strade davanti a sé. La prima – consigliata da Dick Morris, ma anche dall'editorialista del New York Times, David Brooks e da molti altri – è quella di esaltare la sua biografia di senatore bipartisan, di condurre una campagna elettorale che guardi al centro e che punti dritta ai voti degli indipendenti e dei tanti democratici che non sopportano il misticismo della candidatura Obama. L'idea è che i voti conservatori arriveranno lo stesso e che, a mobilitarli, ci penserà inconsapevolmente lo stesso Obama. La seconda strada per McCain – sostenuta dai conduttori radiofonici, dai conservatori tradizionali e dai vertici evangelici – è quella di corteggiare la base della Right Nation e di ricostruire la coalizione reaganiana che ha dominato negli ultimi trent'anni.
    L'editorialista del Wall Street Journal, Peggy Noonan e l'opinionista liberal del New York Times, Frank Rich, sostengono che ormai è troppo tardi, che McCain è troppo legato a Bush per potersi permettere una credibile strategia nettamente separata dall'eredità bushiana. Allo stesso tempo c'è chi dice che senza Bush, McCain non riuscirà mai a convincere la base del suo partito, perché è storicamente tiepido sulle questioni etiche, non usa toni da crociata sul diritto a portare le armi ed è convinto che il surriscaldamento terrestre sia causato dall'uomo. 
    Il senatore repubblicano non ha ancora deciso quale strada prendere, probabilmente qualche indicazione si avrà dalla scelta del vicepresidente: Joe Lieberman o addirittura Mike Bloomberg indicherebbero la via del candidato nuovo e indipendente, Mitt Romney o qualche altro big conservatore una più tradizionale. McCain al momento prova a tenere tutto insieme ed è per questo che, come vice, si chiacchiera molto di due governatori, Tim Pawlenty del Minnesota e Bobby Jindal della Louisiana, entrambi in grado di giocare tutti e due i ruoli. 
    Ai conservatori, McCain dà sicurezze sulla lotta al terrorismo, sulla riduzione fiscale, sul pareggio del bilancio, sul libero commercio, sui giudici che nominerà nelle Corti federali e, soprattutto, sulla riforma sanitaria centrata su incentivi fiscali alle famiglie, invece che sull'intervento pubblico di Obama e Hillary. Agli indipendenti, offre proposte di buon senso sull'immigrazione, soluzioni ambientaliste sul global warming e la sua esperienza nella battaglia contro lobby di potere e sperperi clientelari di denaro pubblico.