Brevi saggi più o meno concupiscenti/24
Il dolce stil antico
In principio della concupiscenza avevo cinque anni. All'asilo arrivò una bambina israeliana, forse un anno meno dei miei. Aveva i capelli rossi e le lentiggini, facevamo a correre veloci e mi sorrideva. Appena la vedevo, mi veniva un piccolo affanno, e quando ero sicuro di essere solo, dicevo il suo nome. Un giorno le chiesi se voleva giocare a una fiaba e le alzai un poco la gonna, ma prima che rispondesse, scappai sui gradini del tempio.
Leggi Riparliamo di concupiscenza di Giuliano Ferrara
In principio della concupiscenza avevo cinque anni. All'asilo arrivò una bambina israeliana, forse un anno meno dei miei. Aveva i capelli rossi e le lentiggini, facevamo a correre veloci e mi sorrideva. Appena la vedevo, mi veniva un piccolo affanno, e quando ero sicuro di essere solo, dicevo il suo nome. Un giorno le chiesi se voleva giocare a una fiaba e le alzai un poco la gonna, ma prima che rispondesse, scappai sui gradini del tempio. Mi appiattii contro la grande porta, mentre sentivo il sangue scorrere forte. In terza elementare c'era una bambina di quinta, era alta mezza spanna più di me. Mi carezzò una guancia e la mano le profumava di caffè, come fosse stata adulta. Dopo, ogni volta che a casa sentivo odore di caffè, era come riaverla accanto – fragranza contro fragranza. Una stregoneria.
A quindici anni, in classe c'era una ragazza, il suo volto era così bello e i suoi sorrisi così di fronte a me, che non li potevo accogliere, e se li avessi accolti sarei morto. Abitava a un quartiere dal mio, una decina di vie con in mezzo solo il rinforzo di una piazza. Era un pericolo. Per evitare di incontrarla, e deluderla con un balbettio, cambiai la strada per andare a scuola. Quando arrivavo, controllavo se lei si trovava già al portone del liceo; se c'era, restavo dall'altra parte del viale, nascosto tra le macchine e gli alberi, e da là dietro guardavo mentre, lontana, rideva e parlava con gli altri. Era tutta per me e avrei potuto continuare a custodirla negli occhi. Nessuno se ne sarebbe mai accorto. Cosa c'era di meglio? Era mia senza saperlo, era a disposizione, e io felice.
Da ragazzo, ho concupito con tutte le forze quello che sentivo di non potere avvicinare; quello che avrebbe potuto essere mio, se lo avessi innanzitutto rapito con la mente. Infine, ho concupito quello che poteva essere mio, ma forse perché l'esito sarebbe stato terribilmente incerto. Per me è stato questo, concupire. E desideravo con le viscere potermene stare di nascosto nel parco di una certa villa – io entravo spingendo una piccola porta, e da un muretto vedevo Firenze sino a buio. E a buio, scendevo dal muretto e portavo a casa il turbamento. Per tutta la giovinezza ho concupito la libertà. A dodici anni spiai a lungo una vecchia bicicletta a un angolo di strada. Era senza lucchetto, sempre sola. Era abbandonata? Non mi volli rispondere. Era come se qualcuno possedesse la macchina della libertà e non ci andasse in giro. Mi turbava. Ancora adesso non so se la rubai, o se la presi perché me lo stava chiedendo. Balzai sul sellino e la inghiottii con un rapido morso. Uscivo di casa gridando la gioia dentro di me, giravo l'angolo e pigiavo lesto con le gambe. Potevo fare tutto, ero onnipotente. Telefonai a un amico che stava dall'altra parte della città. Gli dissi: “Tra deci minuti sono da te. Ciao”. Un super-eroe a pedali. Scantonavo in campagna e alle curve sentivo il fresco dei fossi. Decisi che il terzo giorno sarebbe stato l'ultimo di libertà. Avevo fatto la fantasia che la bicicletta fosse di tutti e stesse facendo il giro della Terra, di ragazzo in ragazzo, e che al terzo giorno io dovevo riconsegnarla all'ignoto. La mattina presto uscii di casa e presi la bicicletta all'angolo dove la tenevo mezza per terra, in modo che non interessasse a nessuno e così nessuno la volesse prendere. Insomma, era mattina presto e partii per l'ultima corsa. Arrivai sino al mare. Proprio davanti alle onde. E respirai a fondo l'odore di quell'aria che avevo conquistato. Voltai la bici e tornai.
La mattina del quarto giorno, feci un malinconico giro di ritorno, finché scesi e la rimisi a posto, il suo posto, e questo fece parte di una perfezione intangibile. In seguito, ho concupito le fidanzate per poi rimettere a posto anche loro, e scappare al terzo giorno: perché la vicinanza distruggeva la concupiscenza. Ho concupito il trio opera cento di Schubert, e il Vespro della Beata Vergine Maria di Monteverdi, e gli assoli struggenti di Hendrix e i versi di Marina Cvetaeva, “Giovinezza/ mia rossa scarpina spaiata/ giovinezza/ va dagli altri”. Ho concupito ciò che stava al limite dei miei confini. E alla fine ho preso a concupire Dio, mia fortezza – che Lui non mi lasci andare.
Da qualche anno mi sembra che la concupiscenza non ce la faccia più; che la concupiscenza abbia scritto la sua propria condanna. E io ce l'ho con le immagini perché vogliono sostituire le mie decisioni, e vogliono che io sia un'ombra. Se Ulisse fosse vissuto in questa ingannevole vita di immagini che paiono corpi pieni e proprio sentimenti – nel cinema, in televisione, su internet – la sua avventura sarebbe stata di vagare da fermo. Ulisse non lascerebbe Itaca, un occhio catodico lo farebbe per lui. Penelope lo attenderebbe senza sapere che lui è a casa. I Proci avrebbero tutto. Sì, ho questo disagio da quando al cinema circola una nuova sostanza espressiva, la concupiscenza dell'assoluto che è essere seduti in platea e avere la sensazione di galoppare in una tempesta, solo che è sempre la stessa tempesta. Il dolby surround – che viene nelle case e ruggisce sotto il nome di home theatre. Vibrano i vetri delle finestre, le chiavi appoggiate sulla tavola; e in tv suona un telefono, e io porto il cellulare a un orecchio, e mio figlio esclama indignato: “Ma babbo, è il film!”. Lui ride. Ha dodici anni. A me non va bene questa cosa nuova; che tutto sia verosimile e io tradito nell'intelligenza della realtà. Che se la finzione è come la realtà, dove è finita la realtà, e dove è finita la finzione? Ma poi dove sei finita – concupiscenza?
C'è dunque questo modo plateale che investe la platea. Mi succede allora che entro in una sala cinematografica, siedo in una poltroncina con due misure di popcorn: gigante per il figlio, a norma per la moglie. Subisco il nuovo approccio col cinema: ottico, acustico e gastrico. Prima ancora che si spengano le luci, provo una sensazione di profondo disagio. Non capisco se stiamo andando al cinema o a ruminare in una stalla ologrammatica. Non vorrei più andare a vedere i film: prima ancora di entrare, per strada, so che le immagini mi tradiranno. Non avrò alcuna emozione, sarò apatico. Sarò seduto a non fare niente, e obbligato a una fatica. Mangerò, e sarò senza appetito; senza sete, e starò bevendo. Al cinema, e senza film. Uguali le storie, gli effetti speciali, omofone le musiche, e allora potrebbe darsi che nel nuovo mondo dello spettacolo viga la legge contadina di quando si ammazza il maiale, ché non si butta via niente. E dunque uguali anche i dialoghi, e a ricalco le scene di battaglia. Film senza uno spirito che vi si incarni. Come se ormai le persone del mondo dicessero sempre la stessa frase. Alla fine, tristemente, i presenti si alzano in piedi, lasciano la platea e siamo fittizi.
Penso al tenebroso “Apocalypse now”, e che a rivederlo oggi, a casa e dolbizzato, sia il capofila di un cinema che voleva rappresentare la crudezza della guerra moderna. Sembrava l'epica fine dell'occidente, invece era la fine epica dell'udito. Mi parrebbe che sia stato questo il termine ultimo della corsa, l'apocalypse now. Le emozioni che hanno lo stesso urlo, la stessa gragnuola di decibel, e forse questo sulla via del rock, dei Cream e di Jimi Hendrix. Del resto, la Fender e l'amplificazione di Woodstock sono state la sola traduzione poetica e corporale del modo di produzione elettrico – e alla fine, nel cinema dopo il delta del Mekong, dopo Hendrix e Coppola, è uguale il grido di un gladiatore, di un mostro spaziale in agonia; i colpi del martello sui chiodi di Gesù, una carta da giuoco che cade sul pavimento.
Narciso non fu tradito come noi: l'acqua c'era di già, e ci sarebbe stato il riflesso solo se un giovinetto si fosse accostato allo specchio lacustre. Invece, mai le immagini sono state finestre evanescenti come ora – e friabili i desideri. Mai il tradimento delle immagini è stato una tale metafora dell'eclisse delle pulsioni, sessuali e sensuali. C'è in giro una dea ignota, ed è Apatia. Là dove regnava il non dicibile e l'inquieto, la smania, è spazio esploso. Guardo, e vedo che il privato, l'inconscio sono saliti in superficie nella forma dello spettacolo iper-reale dal gran buco della serratura televisiva, e che faccio esperienza attraverso i fatti degli altri.
La concupiscenza è una rappresentazione sovraesposta, totale quanto irreale. Il buio è sotto i riflettori, e mica è più buio. No, è una conversazione che comincia, finisce e riparte. Come se vedessimo sempre le stesse due persone che si incontrano, dicono ciao e buona sera, girano l'angolo; e di nuovo si incontrano allo stesso angolo appena visto, e dicono ciao e buona sera. Succede già nei giochi di playstation. Più e più volte di più e più film, un uomo e una donna si consumano al muro di una rampa di scale, a un angolo di strada, a una stazione di benzina. In piedi, nel luogo più pubblico – più rognoso. L'uomo tiene la donna in collo, lei sbarra gli occhi. Questa è la nostra accanita gioia. E la concupiscenza non ha una lingua con vocaboli personali, ma universali. Accendi pure la tv a sera, e guarda; su ogni canale locale c'è qualcuno che grida: “Scopami”. Nessuno che stia zitto in modo probabile. Chiudi gli occhi, il dialogo gira intorno a se stesso e una voce dice, decine di voci dicono: “Scopami”. Per il resto, prevale l'epressione politicamente corretta, “fare sesso”. Poi qualcuno scoprirà che “fare sesso” viene dall'America, è lessico proprio del capitalismo, non è cultura liberata, allora esploderà un termine tibetano, che ne so, “cuccurucuccuccù”, e conversando la gente dirà: “Tu è molto che non fai cuccurucuccuccù?”. Povera realtà, che giaci morta, senza “tu” né “io”. La concupiscenza è caduta in un'imboscata. Intossicata da un cibo contro-natura. Come accade ai gatti quando passano da una dieta di polmoni, o anche di salutari topi, alle scatole di intrugli biscottati. Miagolano al cielo come amleti con la coda. Io vedo, e vedo che non vedo. Sento, e sento che non sento. E così come per il racconto cinematografico, altrettanto per la vecchia polpetta al tegame.
Allora una sera siamo in viaggio, è tardi, abbiamo fame. Un amico più giovane di vent'anni, fa: “So un posto”. Fermiamo la macchina, ed eccoci a sorpresa in un locale della catena mondiale di cibo rapido. Ci mettiamo in fila e ordiniamo le cose a colori che si vedono nei cartelli sopra la cassa. Andiamo coi vassoi arancioni, sediamo, mastichiamo. Un niente morbido, e ho finito di cenare. Ci alziamo, ce ne andiamo, camminiamo senza peso come gli astronauti – come se avessimo mangiato i fantasmi delle polpette. Via dunque, dalla mangiatoia spaziale e assieme ospedaliera: linda, anestetica, accecante; tavola che è tavolo operatorio. Usciamo in strada, ripartiamo e mi pare improprio che non ce ne andiamo a bordo di un razzo. In questo nuovo mondo, la vecchia concupiscenza ci è rimasta secca. Viene alla mente l'ultimo film di Kubrik, “Eyes wide shut”, prima che morisse. Film sulla notte della città e sui sogni più oscuri divenuti realtà; quando la libertà è una tiranna e non più il fantasma che diceva Buñuel. Dato che osceno vuol dire ciò che non è augurale – e se c'è un luogo non augurale, ma funesto e luttuoso, è quello di una libertà sfrenata. Dov'è la natura iniziale? Dove i laghi e gli stagni e il letto dei fiumi in cui rispecchiarsi e vedersi?
Qui, mi viene conveniente riportare quello che mi ha detto un amico pittore, Claudio Sacchi, sulla concupiscenza. Un artista figurativo che non lascia niente al relativismo interpretativo dell'astratto. Dipingere per lui è imitare ad arte la realtà, perciò, con devozione, fabbrica lui stesso i colori per le immagini come facevano i pittori del Rinascimento – credo che lo faccia per essere sicuro che tutto provenga dalla materia naturale, e così le immagini restituiscano la gamma dei colori possibili. Il segreto minuzioso della luce. Una volta lui mi spiega che la pittura ad arte non ha mai rappresentato la sensualità attraverso scene di sesso in corso: e che il sesso mentre è in atto è stato dipinto soltanto in modo caricaturale, per scherzo o celia; o come a Pompei: documentato. Per dire a noi di adesso, che loro di prima erano così, e così la loro vita. Non c'è niente, mi dice poi questo amico, di più inestetico del coito e della sua fatica; della laboriosa malagrazia dei corpi riuniti, della ricerca delle posizioni per conseguire il godimento. E insomma niente è meno pittorico e rappresentabile del piacere mentre è in corso.
La concupiscenza, sorta come leggendario, o escatologico, atto di disobbedienza, come ferita della Creazione, subito debolmente ricoperta con una foglia, fa sentire il suo ghigno e svela la lunga storia della disobbedienza che continua e si dilata come tessuto da tempo smagliato, ormai senza maglia. Già avvenuta la catastrofe, il capovolgimento di tutto – katastrofè. “Non fabbricarti nessun idolo e non farti nessuna immagine di quello che è in cielo, sulla terra o nelle acque sotto terra. Non devi adorare né rendere culto a cose di questo genere. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio e non sopporto di avere rivali…”. Terzo comandamento. Ci abbandonano l'ardore e il brivido, l'alto e il basso della temperatura. Servirebbe uscire da un'altra porta e dopo camminare per una strada fatta vera dai nostri stessi passi. Respirare. (Il lungarno fiorentino, foto Moshe Admoni)
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