Il signore dei Prandelli

Beppe Di Corrado

Cesare segna. La penna è sempre la stessa, mangiucchiata dal nervosismo. Che scrive, che pensa, che racconta. L'appunto è lo schema della vita: Manuela, il calcio, la famiglia, il lavoro, i figli, le vittorie, le sconfitte. Si cambia, per forza. Prandelli si mette il cachemirino violaceo e s'ingella i capelli.

    Dal Foglio del 26 gennaio 2008

    Cesare segna. La penna è sempre la stessa, mangiucchiata dal nervosismo. Che scrive, che pensa, che racconta. L'appunto è lo schema della vita: Manuela, il calcio, la famiglia, il lavoro, i figli, le vittorie, le sconfitte. Si cambia, per forza. Prandelli si mette il cachemirino violaceo e s'ingella i capelli. Saluta la Fiesole. “Grazie”. Adesso chiama Donadel. Si riconosce da qua: dall'uomo che chiama per spiegare la partita. Così è come se Cesare parlasse a se stesso, al foglio che ha finito di scarabocchiare nello spogliatoio. Donadel, quello che sta in mezzo, cioè un pezzo di sé. Donadel, quello che s'è portato dietro da Parma, cioè un altro pezzo di sé. La fedeltà, il rapporto, l'amicizia. Uno che ha Frey, Liverani, Mutu, Vieri sceglie Donadel perché vede il pallone come non lo vede più nessuno: moderno e però antico. E' il rito, il ricordo ma pure lo schema alla lavagna. E' un riflusso trapattoniano, un insegnamento involontario che diventa un meccanismo automatico. Prandelli adesso parla e dà una pacca sulla coscia. Capito? Fallo.

    Dicono sia il migliore, lo dicono ora con quella punta di esagerazione che si concede sempre a un uomo che non smetterà di soffrire per i fatti suoi. Forse è davvero il più bravo, comunque. Cerchi un altro così e non lo trovi. L'anno scorso ai ragazzini del torneo internazionale di Arco fecero una domanda: chi è l'allenatore dei tuoi sogni? “Prandelli”. Primo, più di Capello e di Spalletti. Cesare è un progetto in corso, un lavoro che trasforma un cantiere in un gioiello. L'allenatore del futuro: giovane e tosto, l'unico a saper individuare i ragazzi, a provarli, a crescerli, a svezzarli. Buttati dentro e nuota. Allora è il domani. Montolivo, Pazzini, Cacia. Nomi e ruoli sono il dettaglio. E' l'atteggiamento che funziona, il piano studiato per riprendersi il calcio. L'organizzazione, dice lui. Così la rosa, la squadra, il gioco. Tutto. La Fiorentina piace perché c'è Cesare, perché hai l'idea che dentro ci sia un'anima che regge l'ingranaggio. Lui ne fa parte e poi ci mette pure la faccia. Assomiglia al manager all'inglese. Alla Ferguson, oppure alla Wenger. E' lì che si ispira: all'Arsenal che da dieci anni è una multinazionale gestita come un laboratorio d'arte. Va via uno, ne arriva un altro. “Vedi? Loro hanno perso Henry e tutti credevano che sarebbero crollati. Invece sono primi in Premiership e giocano il più bel calcio d'Europa”. Lui ha perso Toni, gli mancano 50 gol in due stagioni, però sta là, come prima. Zona Champions. Ha bisogno di continuare, di rimanere lì dov'è, di portare avanti il programma accumulato sui bigliettini che scrive mordendo il tappo della Bic. Non li porta mai in panchina, come fanno gli altri.

    Lì lui ha bisogno di vedere, di capire, di ragionare. Il foglio allontana dalla realtà, traccia uno schema che non si può applicare sempre. La flessibilità pallonara ha il naso a patata e una voce da bresciano di campagna. Orzinuovi è la terra, l'origine, il rifugio. Negli ultimi anni è stato anche la malattia di Manuela e poi il dolore intollerabile dell'assenza. Però fa tutto parte del pacchetto e di un personaggio che ha commosso con la dignità di una scelta. Prandelli lo prendi e lo inquadri in una casella fuori catalogo con la difficoltà di chi sa che è impossibile capire che cosa è successo, quello che pensa, quello che prova. Bisogna sorvolare, sfiorare, accarezzare. Non si entra, meglio di no. E' il rispetto che chiede e che dà. Lui è la panchina. Tornato perché non c'era alcun altro posto dove sarebbe potuto essere se stesso per davvero. La gente dice d'aver capito: allora l'applauso, l'affetto, la solidarietà. Tornato per continuare quello che fa da quasi vent'anni: mettere insieme il meglio che gli offrono e portarlo in campo ogni weekend. Firenze è la sublimazione del concetto, è l'ultima tappa di un percorso cominciato quando aveva ancora la possibilità di giocare. Era il 1990, l'anno del Mondiale. Prandelli aveva appena lasciato la Juventus per tornare all'Atalanta: aveva un ginocchio messo male. Gli offrirono il contratto: “Non voglio rubare lo stipendio”. Allora lo misero a fare l'allenatore delle giovanili.

    E' lì che ha cominciato, coi ragazzini diventati poi ragazzi e alla fine calciatori. Uno era Alessio Tacchinardi che parla di Prandelli come di un messia pallonaro. Un altro era Domenico Morfeo. Ma anche Mutarelli e i fratelli Zenoni. Li ha cresciuti sul campo e nelle stanze d'albergo. S'è incazzato, li ha puniti, li ha fatti divertire, li ha fatti ridere. Come a Viareggio nel 1993. Allenava la Primavera dell'Atalanta al Viareggio: il giorno dopo avrebbe dovuto giocare la finale del torneo con il Milan. Prandelli li mandò a letto tutti, poi andò in camera, si mise una maschera del diavolo che gli aveva regalato un tifoso. “Mi travestii e cominciai a bussare in tutte le camere. Quelli mi aprivano e io li spaventavo. Tacchinardi scappò in bagno per la paura. Si sdrammatizzò. Ci aiutò a ridere e a caricarci. Poi vincemmo”. Quei ragazzi li ha rincontrati nella vita: alcuni se li è portati con sé, con altri avrebbe voluto ma non ci è riuscito. E' strano che nessuno abbia rivendicato e che non ci siano lamentele. Sembra che a Cesare nessuno abbia da rimproverargli qualcosa. Solo Bojinov, forse. Ma mai direttamente. Allora Prandelli viaggia sereno a cavallo di una carriera che ha fatto dell'autostrada un simbolo. E' uno da incroci famosi per i caselli più che per gli stadi: Brescia-Cremona-Torino-Bergamo-Verona-Venezia-Firenze. A4, A21, di nuovo A4, A1. A Cremona, dove cominciò a giocare sul serio, andava in bicicletta da Orzinuovi. Poi tornava e si fermava a vedere l'Oglio.

    E' un padano convinto, Cesare: innamorato della sua terra, dei suoi colori, dei suoi sapori, innamorato di quel paese che era anche di Manuela, incontrata in piazza quasi per caso e diventata compagna e sposa. Bergamo, poi. Bergamo, cioè la città che l'ha trasformato in calciatore e in allenatore a qualche manciata d'anni di distanza. Bergamo che vuol dire Atalanta, una società, uno stile di vita che lui ha sempre adorato. Ci arrivò da giocatore prima di fare il grande salto verso la Juventus. Quando rientrò per finire la carriera e poi per trasformarsi in mister, disse così: “Spero che qui per me ci siano sempre le porte aperte”. Lo sono state e forse lo sono ancora. Per anni, Prandelli è stato lì, con gli allievi, con la Primavera, con la prima squadra. Subentrò al posto di Francesco Guidolin, forse l'unico con cui abbia avuto dei problemi. E' stato qualche anno fa, durante un Palermo-Fiorentina: Francesco lo accusò di non aver fermato i suoi giocatori dopo l'infortunio di un calciatore del Palermo. Fu bagarre a bordo campo, poi anche in sala stampa. Non si sa se poi si sono chiariti, non si conosce bene neppure che cosa gli abbia detto Guidolin. Riservati come sono tutti e due non lo sapremo mai.

    Resta lo scontro, raro e praticamente unico. E' uno che non si agita molto in panchina, Prandelli. Urla con le mani a megafono, ordina, organizza, sistema. Per le cose grosse chiama Donadel. E' quello che sta in mezzo, ecco perché è un po' come parlare con se stesso. Mediano. Tosto, preciso, rompighiaccio. Pochi gol. Trapattoni lo prese alla Juventus perché aveva bisogno di uno così che teneva la squadra facendo fare quello che volevano a Platini e Boniek. Pochi gol, così pochi che una volta un bambino disegnò su un quaderno la parabola di un suo tiro finito dentro e lo fece mostrando solo la gamba, il pallone, il portiere, la porta. Era un uomo senza volto. Irriconoscibile e sconosciuto, un mediano di quelli dell'epoca che erano così tanti da confondersi. Adesso quelli così diventano personaggi: sono rari, unici, difficili da trovare. Gattuso diventa star perché è il solo orso in un mondo di agnelli.

    Prandelli non è mai stato celebre: ha vinto tre scudetti e una coppa dei Campioni, ma non sarà mai ricordato per questo. Casa sua è la panchina: segno di riconoscimento e strumento di lavoro. “Sarà banale, ma da qui il calcio è completamente diverso. E' più emozionante vedere esordire un tuo ragazzo che vincere una coppa europea”. Dice anche che l'allenatore l'ha fatto per colpa di Emiliano Mondonico. Tutti lo paragonano a Sacchi, Capello, Trapattoni, lui dice che il Mondo è stato l'uomo che gli ha cambiato la vita. Perché era calciatore quando Emiliano allenava l'Atalanta. Con lui, Cesare diventò capitano. Decise di festeggiare in ritiro a Roncegno. Entrò nella stanza del mister con la complicità di alcuni compagni e la mise sottosopra. “Io facevo sempre un sacco di scherzi. Gli altri mi sfidarono: ‘Scommettiamo che al mister non hai il coraggio di fargliene?'. Così io e Stromberg, la sera prima di rientrare a Bergamo, entrammo nella stanza di Mondonico e la smontammo pezzo per pezzo: armadio, comodini, letto. Poi spiammo, bisognava vedere la sua faccia. Quella notte, senza l'aiuto del massaggiatore Cividini, il mister avrebbe dormito per terra”.

    L'omaggio a Mondonico non è il solo. Se pensa a un altro maestro, dice di botto Franco Ferrari. Cioè nessuno per tutti. E' l'allenatore che prepara a diventare allenatori a Coverciano. “E' lì che si impara tutto”. Adora le dediche un po' così. Ce ne fu un'altra strana. Arrivò dopo la vittoria dello scudetto da mister con l'Atalanta Allievi nel 1992. Gli chiesero se voleva dedicarlo a qualcuno. La famiglia, la moglie, i compagni, il mister, i tifosi? “A Giulio Ceruti”. Chi? Lo capirono solo a Bergamo, dove mezza città si mise a piangere e l'altra metà a ridere. Giulio era uno dei massaggiatori dell'Atalanta ai tempi di Mondonico. La società aveva deciso di retrocederlo alle giovanili. Prandelli lo dedicò a lui per convinzione e per uno spirito anticonformista che ha sempre avuto. Anche nel look. Adesso si spara quel bel maglioncino violaceo sotto il giubbotto in pelle o in piumino made in Della Valle. Prima era un fissato dei giubbini jeans e dei berretti colorati.

    A Verona diventò famoso perché se ne metteva sempre uno giallo. Pietro Fanna, che gli stava accanto, se lo metteva blu, così facevano l'accoppiata in onore dei colori della squadra. Alè-alè-alè. Coi tifosi ha sempre avuto un rapporto particolare: adora andare sotto la curva prima e dopo la partita, li accarezza con queste piccole cose, tipo i colori che indossa e le sciarpe che mette. Poi li cazzia di brutto: l'anno scorso, quando ci fu l'omicidio Raciti, fu il primo a dire che sarebbe stato pronto a far finire lì il campionato. Due mesi fa, alla morte di Gabriele Sandri, uguale. “Io ho vissuto l'Heysel. C'ero quel giorno e credevo di aver visto tutto. Mi sbagliavo”. Piace anche per questo, Prandelli. E' intelligente. E' saggio. E' moderato. Non ha paura di parlare. Dopo la vittoria del Mondiale 2006 e l'addio di Lippi girò la voce che potesse essere lui il nuovo ct: “Parliamo di cose serie, per piacere. Prima che iniziasse questo Mondiale c'è stata una forte campagna contro la squadra azzurra e il suo allenatore. Ebbene chi ha dignità non deve salire adesso sul carro dei vincitori ma mantenere le stesse posizioni”.

    Non si agita in panchina e non lo fa neppure fuori. Forse così ha retto l'urto di presidenti invadenti come Maurizio Zamparini, che lo volle disperatamente a Venezia. Per dirgli sì, Cesare rinunciò alla serie A. Se l'era conquistata con il Verona partendo dalla B, poi l'aveva mantenuta alla grande con un campionato di lusso. Scese di nuovo in B, per riprendersela ancora. Però il suo posto è stato Parma. Prandelli quello vero è cominciato lì, con una squadra che aveva appena finito di essere la grandissima piccola. Gli lasciarono Cannavaro per un anno, poi via Fabio, squadra nuova e società in vista del fallimento. Lui fece l'inimmaginabile. Il gioco, il divertimento, la rivalutazione dei calciatori. Con quei miliardi fatti grazie a Prandelli il Parma non fallì. Poi altro: Ghirardi a Parma ci è arrivato dopo una telefonata con l'ex mister. In bresciano. “Prendi il club e salvalo”. Cesare è altro: quello che aveva trasformato Adriano in un Imperatore, quello che ha fatto diventare un calciatore vero Mutu e che ha costruito il Gilardino che nel 2004 meritava di giocarsi l'Europeo da titolare. Ecco i giovani, la scommessa, il desiderio. Prandelli crea il futuro, l'ha sempre fatto.

    Senza di lui Adriano s'è perso, Gilardino ha smesso di segnare. Mutu, invece, con lui, continua a essere sempre più forte. Mettiamo che sia anche un caso. Però è bizzarro: questi lo seguono e diventano campioni, lo abbandonano e sbracano. Lui non si prende meriti. Dice che ci vuole la gente giusta. Una volta l'ha detto anche agli universitari a Parma: “Per fare un grande calciatore non ci vuole solo l'intelligenza. Bisogna essere delle brave persone, ma trovarne anche altre brave quanto te, che ti guidano quando ti perdi”. Lo avevano chiamato a spiegargli che cosa ci fosse stato nella sua vita. Sogni, idee, progetti. Passato e presente: “Speravo di frequentare il liceo artistico e di diventare poi architetto. Il calcio mi ha portato da un'altra parte e su un'altra strada. Mi consolo avendo fatto dell'arte un mio hobby”. Anche qua prende la stessa penna. Segna. Mimmo Paladino, Francesco De Maria, Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi. Segna perché è un collezionista e un giorno vorrà uno di questi artisti appeso a un muro di casa sua.

    Gli piace la Transavanguardia: colori, idee, l'abbattimento delle regole, ma pure il ritorno alla pittura. Dice che gli ricorda la sua Fiorentina, pronta a fare qualcosa di nuovo nel pallone. L'arte è un paragone costante, un'idea che coltiva quando può. Con Manuela gli piaceva andare alle inaugurazioni del museo di Arte contemporanea di Bergamo. Era la vita, la passione comune. Comprerà un quadro della Transavanguardia quando vincerà lo scudetto. Ora guarda, sceglie, aspetta. Niccolò e Carolina sono diventati grandi. Lo erano già nel 2004, quando Cesare scelse di rinunciare alla Roma per stare di più con la moglie. Lui protegge, come ha sempre fatto. Firenze non è Orzinuovi, non può. Però è casa sua: c'è il fiume e un'autostrada.