Ritratto di famiglia (ciellina) in un interno ugandese
Il segreto del Meeting di Rimini è che Vicky c'è, ha l'Hiv ed è bellissima
Mentre in Auditorium si presenta il libro di Luigi Giussani “Uomini senza Patria”, si chiude il Meeting intitolato “O protagonisti o nessuno”. Vivendolo e parlando con chi racconta il suo lavoro in questi giorni, emerge come il Meeting sia innanzitutto luogo di educazione di un popolo.
Rimini. Mentre in Auditorium si presenta il libro di Luigi Giussani “Uomini senza Patria”, si chiude il Meeting intitolato “O protagonisti o nessuno”. Vivendolo e parlando con chi racconta il suo lavoro in questi giorni, emerge come il Meeting sia innanzitutto luogo di educazione di un popolo. Giussani diceva che l'educazione è introduzione alla realtà totale: venerdì quasi mille persone hanno affollato un salone per sentire una serenata di Dvorák spiegata da un professore, mentre nella sala accanto altrettanti sentivano discutere di regole del mercato. Poco prima un professore anglicano aveva presentato un libro del cattolico Chesterton sull'eugenetica e un'ora dopo un gruppo di musicisti di Napoli avrebbe spiegato l'influenza della canzone napoletana su Mozart. Nel frattempo ogni dieci minuti partivano visite guidate per spiegare a centinaia di persone le conquiste dei portoghesi nel 1500, le opere di Guareschi o la Primavera di Praga. Impressiona la quantità di realtà e di fatti su cui si tenta di dare un giudizio con mostre e incontri. E come sia un luogo di incontro vero tra persone da tutto il mondo. Forse mai come quest'anno non è stata la politica a farla da padrona. Incontri e storie come quella di don Aldo Trento (pubblicata ieri dal Foglio) hanno riempito i saloni. Martedì pomeriggio ha parlato Vicky Aryenyo, donna dell'Uganda sulla cui storia Emmanuel Exitu ha girato un film premiato da Spike Lee a Cannes: “Greater”.
Vicky viveva a Kampala con il marito e due figli. Durante la terza gravidanza suo marito le chiede di abortire e minaccia di lasciarla se terminerà la gestazione. Vicky non capisce, pensa a uno scherzo. Il terzo figlio nasce e il marito la abbandona. Lei lavora in un ospedale e prova ad andare avanti da sola. A quattro anni, nel 1996, il figlio più piccolo si ammala di tubercolosi. I medici pensano sia un problema di alimentazione e lo rimandano a casa. Poi Vicky è colpita da una forma grave di erpes, ma i medici minimizzano: tutti l'hanno avuto. Nel giro di un anno è sempre più stanca, sta male, smette di lavorare e un giorno, a casa, cade a terra. Si sveglia in ospedale, i medici le fanno il test dell'Hiv: è positiva. “Perché io? – si chiede nel letto circondato da malati che muoiono uno dopo l'altro – Sono sempre stata fedele a mio marito”. Capisce allora che il marito le chiedeva di abortire perché sapeva della malattia. Quando Vicky esce dall'ospedale il figlio peggiora: anche lui è positivo all'Hiv. Tra il 1998 e il 2001 è come se vivesse in un altro mondo pur restando in questo.
Gli amici e i parenti li abbandonano, i figli più grandi lasciano la scuola per portare soldi a casa. Nel 2001 alcuni volontari dell'International Meeting Point vanno a casa sua, dicono che possono aiutarla. Vicky non ci crede: “Perché se i miei amici non mi aiutano più dovrebbe farlo della gente che non conosco?”. Anche il terzo figlio lascia la scuola: la maestra e i compagni lo chiamano “scheletro”. L'unica reazione di Vicky è il pianto, il cuscino che assorbe le sue lacrime. Tornano quelli del Meeting Point, tra loro c'è Rose Busingye, un'infermiera che lavora lì. Dal naso e dalla bocca di Vicky esce pus in continuazione, i piedi sono piagati, il suo corpo vivo ma quasi in putrefazione. Rose le si siede accanto. Vicky si vergogna del suo odore, si sposta. Rose le si risiede accanto. E così altre tre, quattro volte. Rose le dice: “Se non vuoi venire tu al Meeting Point lascia che ci venga tuo figlio: ha una vita che può ancora vivere”. Vicky rifiuta, ma la frase le rimane in testa. Un giorno va al Meeting Point. Quando entra vede molti malati come lei. Stanno ballando. Di sicuro ha sbagliato posto, si dice, non è possibile che un malato possa ballare e sorridere, essere felice. Torna a casa. Dopo un po' suo figlio comincia le cure al Meeting Point, lei ogni tanto ci va, ma resta in disparte.
Un giorno Rose la invita nel suo ufficio. “Vicky – le dice, guardandola negli occhi – tu hai un valore, e questo valore è più grande del valore della tua malattia. Ce la puoi fare, hai solo bisogno di ritrovare la speranza. Devi vivere per vedere i tuoi figli crescere”. Poi silenzio. Rose la guarda. Più tardi, a casa, Vicky ha ancora quegli occhi addosso, in testa, nel cuore. Continua a sentire quelle frasi. Da quando ha scoperto la malattia sono le prime parole di speranza che sente. Nessuno l'aveva mai trattata così. Comincia ad andare al Meeting Point, inizia la terapia. Rose non le ripeterà mai più quelle parole, ma è come se lo facesse in continuazione, con quello sguardo. Vicky capisce che anche lei può vivere, non importa in quale condizione. “Se Rose mi guarda in questo modo – si chiede – come sarà il volto di Dio?”. Ma capisce che Dio la guarda attraverso il volto di Rose, che “il volto di Dio era sul volto di Rose. E' Cristo che è venuto da me”. La terapia prosegue, i tre figli tornano a scuola. Lei e il piccolo stanno sempre meglio. Perché hanno fatto un grande incontro su cui possono appoggiarsi, dice. “Lasciamo stare Lazzaro che è resuscitato tanti anni fa. Se non avete mai visto un miracolo, sono io, eccomi qua. Perché ero morta”.
Oggi Vicky è una donna bellissima, “libera”, dice di sé: “Quando moriremo, io e mio figlio moriremo come tutti, non schiavi del virus”. Ha perdonato suo marito e ha imparato a dire “sì” a quello che succede, a portare il peso della malattia che sa che non porta da sola: “Cl è una cosa viva, non un'associazione, e don Carron (il responsabile di Cl, ndr) è padre della mia speranza”. Il giorno dopo il suo incontro al Meeting è andata a visitare la mostra sul carcere, dove alcuni detenuti incontrano i visitatori e offrono panettoni cucinati da loro. Vicky, abbracciandoli uno a uno, ha detto loro che anche la sua malattia è una condanna, una prigione, ma che lei è libera. Come dicono quei detenuti. Che già oggi saranno a Padova, nel carcere di massima sicurezza in cui scontano la loro pena. Dove, dice uno di loro, “non vedo l'ora di tornare per raccontare a tutti quello che ho incontrato qui”. Perché “la conoscenza è sempre un avvenimento”, e non a caso sarà anche il titolo del Meeting 2009.
Il Foglio sportivo - in corpore sano