Ritratti di compagnia/2

Il corsaro e l'Alitalia

Stefano Feltri

C'è un prima e un dopo nella vita di Roberto Colaninno. La linea di confine è ovviamente la scalata a Telecom del 1999. Non solo per il ruolo di protagonista che gli toccò nella più spericolata operazione finanziaria della storia d'Italia. E neppure perché lo rese molto ricco, concedendogli i mezzi per costruirsi la carriera successiva.

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    C'è un prima e un dopo nella vita di Roberto Colaninno. La linea di confine è ovviamente la scalata a Telecom del 1999. Non solo per il ruolo di protagonista che gli toccò nella più spericolata operazione finanziaria della storia d'Italia. E neppure perché lo rese molto ricco, concedendogli i mezzi per costruirsi la carriera successiva. C'è un altro aspetto più rilevante per capire il Colaninno presidente della nuova Alitalia. Lui non voleva vendere. Ecco come andò. E' la primavera del 2001, il titolo Telecom vale intorno ai 2 euro per azione. Marco Tronchetti Provera si prepara a offrirne 4,75. I compagni di avventura di Colaninno, la razza padana capitanata da Emilio Gnutti – oggi quasi estinta, almeno nelle cronache – freme per vendere. Pregusta la ricca plusvalenza. Colaninno vorrebbe restare e resistere, anche con nuovi azionisti. Ha un'idea, un piano industriale. Negli occhi ha ancora i grafici con cui i consulenti gli spiegano le prospettive della nuova economia centrata sulle comunicazioni. Esce da Telecom perché non ha abbastanza denaro per resistere alla cordata Tronchetti.

    E' destino di Colaninno non disporre di capitali all'altezza delle proprie ambizioni. Eppure il capitalista ha saputo farlo e i capitali è riuscito quasi sempre a trovarli altrove. Come nel 1981, quando convince Carlo De Benedetti a investire nella Sogefi, una holding di accessori per auto, nata da un'intuizione di Colaninno e da lui controllata con solo l'8 per cento. All'epoca lui è ancora un imprenditore locale, uno che, per dirla con Aldo Bonomi, non sta tra flussi e luoghi, ma solo nei luoghi. E' il ragionier Colaninno (la maiuscola arriverà qualche anno dopo, pare sulla Gazzetta di Modena), che ha abbandonato l'università di Economia a Parma per lavorare alla Fiaam, fabbrica di filtri per auto. E' bravo. Anche senza laurea diventa amministratore delegato a 29 anni. Quando il proprietario alla soglia della pensione decide di lasciare in eredità ai figli soldi e non fabbriche chiede a Colaninno di vendere. E il ragioniere la offre all'Ingegnere – che la maiuscola già se l'è guadagnata – cioè Carlo De Benedetti, allora reduce dal breve e burrascoso passaggio alla guida della Fiat. L'affare non si conclude. Se ne riparla dieci anni dopo, all'inizio degli anni Ottanta, quando De Benedetti vuole diversificare gli investimenti di Olivetti. Nasce Sogefi, evoluzione della vecchia Fiaam. E' il primo segnale dell'ambizione di Colaninno, cui segue la battaglia contro Steno Marcegaglia sul futuro della Banca agricola mantovana. Colaninno la vorrebbe proiettata sul piano nazionale, ambiziosa; il padre dell'attuale presidente di Confindustria la preferisce come banca del territorio (finirà preda del Monte dei Paschi di Siena).

    Ma ormai l'ascesa di Colaninno è iniziata, grazie al legame con De Benedetti: “Era un simpatico ragazzo del popolo, ricettivo come una spugna”, disse di lui una volta l'Ingegnere, che lo coopta nel cda del gruppo Finegil, raggruppamento delle testate locali del gruppo Espresso. Il passo successivo è l'ingresso in Olivetti. “Mi serviva qualcuno disposto a farsi guidare”, racconta ancora De Benedetti, sempre parco di elogi verso il suo allievo. E' il 1996, l'Ingegnere è costretto a ritirarsi in ombra, ad accontentarsi di fare l'eminenza grigia in un'Olivetti in subbuglio. La Cir, holding principale della galassia debenedettiana, riorganizzò gli asset dell'Olivetti mentre gli azionisti, sempre più scettici, volevano ridimensionare il ruolo di De Benedetti. Colaninno la vive come un'investitura: guiderà l'Olivetti, un'industria simbolo del capitalismo italiano (all'imprenditore mantovano piacciono i simboli del capitalismo).

    L'Ingegnere sceglie Colaninno perché con un pugno di stock option si garantisce un reggente sconosciuto alla stampa, uno che non dovrebbe oscurarlo né rubargli il ruolo. Si sbaglia. Colaninno vende i gioielli di famiglia, cioè Omnitel e Infostrada, e fa resuscitare l'attenzione della Borsa per il titolo. L'ingresso in Olivetti è anche la prima occasione per conoscere il mondo di Mediobanca, che deve ratificare (con sua grande sorpresa) la sua nomina alla testa del gruppo di Ivrea. Incontra a Milano, accompagnato da De Benedetti, Enrico Cuccia, ma soprattutto Vincenzo Maranghi. Sarà questione di feeling tra delfini, ma i due si piacciono. Colaninno racconta a Rinaldo Gianola in un libro intervista che Maranghi salutandolo gli dice: “Complimenti, oggi ho conosciuto un secondo Cireneo”.

    In realtà è un'impressione sbagliata. Quando Colaninno si lancia in un'avventura non lo fa con lo spirito di portare la croce. Anche Maranghi si accorgerà di aver sottovalutato il manager mantovano. Quando arriva il momento della scalata a Telecom, la Mediobanca di Cuccia e Maranghi per la prima volta nella sua storia si impegna direttamente in un takeover. In quell'occasione Colaninno stringe rapporti anche con Matteo Arpe, curatore della progettazione finanziaria della scalata e futuro amministratore delegato di Capitalia (fu Colaninno a cercare una mediazione tra Arpe e Cesare Geronzi, prima che il giovane banchiere lasciasse l'istituto romano). La madre di tutte le scalate è anche l'origine dell'iscrizione di Colaninno nel registro degli imprenditori di sinistra, cosa che di solito gli viene rinfacciata. L'audacia di lanciarsi all'assalto del colosso telefonico solo perché sottovalutato e con una debole catena di controllo seduce il primo ministro di allora, Massimo D'Alema. Il momento decisivo è l'assemblea straordinaria degli azionisti Telecom del 10 aprile 1999: l'ad Franco Bernabè vuole lanciare un'opa su Tim, per incorporarla e far lievitare il valore delle azioni Telecom, così da bloccare Colaninno.

    D'Alema ordina al ministero del Tesoro di non presentarsi, per far mancare i voti necessari. Nonostante un tentativo di Mario Draghi, potente direttore generale del Tesoro, il ministro, Carlo Azeglio Ciampi, si adegua e il progetto difensivo fallisce. Colaninno vince. Solo due anni dopo è costretto a seguire Gnutti e a vendere. “Non sono mai stato più ricco di stasera. Ma non sono mai stato più incazzato”, dice dopo aver strappato una buonuscita che, sommando le varie componenti, si aggira attorno ai 200 miliardi di lire. Anche perché l'abbandono dei telefoni significa la fine del sogno del terzo polo televisivo, con il progetto di rilanciare La7 (di proprietà della Telecom) cancellato. Soldi che gli serviranno per comprare la Piaggio e rilanciarla, con il sostegno di un banchiere amico come Corrado Passera, al quale lo lega l'esperienza olivettiana (Passera lo aveva preceduto alla guida dell'azienda).

    Vorrebbe comprarsi la Fiat, cerca denaro e alleanze in giro, lo stesso Silvio Berlusconi guarda con simpatia il suo tentativo, ma i soldi non sono abbastanza e gli Agnelli fanno capire che non gradirebbero l'ingresso di un estraneo. E per evitare sorprese preparano l'equity swap. Colaninno si concentra sulla Vespa: è pur sempre un simbolo del made in Italy, del paese, e soprattutto risponde alla nuova filosofia di Colaninno: “Investire in imprese industriali controllate da noi direttamente”. Industria e controllo diretto, due parametri che anche l'operazione Alitalia rispetta in gran parte. Oggi, mentre l'antica razza padana scompare, con la holding di Gnutti, Hopa, ormai svuotata e l'altro pilastro della finanza bresciana, Fingruppo, in fallimento, Colaninno si prepara alla sua terza vita. L'indulto del 2006 cancella tre dei quattro anni alla condanna del tribunale di Brescia per il crac Italcase e lo libera dalle ultime pendenze della vita precedente. Ora è di nuovo in pista, alla guida di un altro simbolo dell'impresa italiana, Alitalia.

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