Sonnecchia Obama, spunta Sarah

Giuliano Ferrara

Dove sonnecchia l'uno, spunta l'altra. Sarah Palin, la nostra Dea della fecondità che apparve in marzo a incartare il Foglio per nutrire di immagini e idee la campagna contro l'aborto, ha risvegliato l'America il giorno dopo che Barack Obama, il nostro predicatore preferito i cui discorsi sul Cristo della politica e il dovere educativo dei padri avevamo pubblicato integralmente e fiduciosamente, l'aveva addormentata.

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    Dove sonnecchia l'uno, spunta l'altra. Sarah Palin, la nostra Dea della fecondità che apparve in marzo a incartare il Foglio per nutrire di immagini e idee la campagna contro l'aborto, ha risvegliato l'America il giorno dopo che Barack Obama, il nostro predicatore preferito i cui discorsi sul Cristo della politica e il dovere educativo dei padri avevamo pubblicato integralmente e fiduciosamente, l'aveva addormentata. Tra la Palin e Obama c'è una relazione politica, culturale e simbolica strettissima.

    Prima della Convenzione di Denver, Obama aveva scelto come vicepresidente il vecchio, simpatico ed esperto, ma un tanto polveroso, senatore Joe Biden, onnipresente nel legislativo e nei talk show della domenica dal 1972, da quando Palin e Michelle Robinson Obama avevano otto anni. Poteva appuntarsi come vice una governatrice donna o un altro outsider capace di raddoppiare la sorpresa da lui fatta all'America quando aveva reinventato l'oratoria lincolniana contro la “casa divisa” e battuto la macchina di potere dei Clinton anche con il nuovo linguaggio della politica in rete. Invece ha dato prova di debolezza, di volersi tutelare come un qualsiasi politico nel cui cuore una terragna ambizione prevalga sull'evanescente speranza e la sua “audacia”, e ha cercato la rispettabilità come la può offrire il potere senatoriale costituito.

    Giovedì sera della settimana scorsa, arrivò il flop a cui seguì il contrattacco fulmineo di John McCain. A conclusione della Convenzione democratica, in una scenografia di cartapesta pretenziosa, un tempietto paganeggiante imperial-liberale palesemente eccessivo per l'umile community organizer del South Side di Chicago che la leggenda obamiana rimandava fino a poco prima, il candidato afro-americano ha tenuto un discorso che suonava atrocemente falso, con una finta avocazione a sé di autorità e competenza nelle specifiche materie di uno scontro elettorale tradizionale, con un accento da esemplare e fiacco politico liberal, un Kerry o un Gore qualunque, lontano dal centrismo politico e dal tratto demotico dei democratici sudisti (Carter, Clinton) ai quali soltanto toccò, negli anni di Reagan e dei Bush, il piacere di effimere (e pericolose per la sicurezza internazionale) vittorie personali. Mai una rinuncia timorosa alla propria presunta vocazione profetica fu celebrata con tanta pompa spettacolare come nella sera dell'incoronazione di Barack Hussein Obama.

    McCain ha rovesciato il cilindro. Nel giro di poche ore, dalla sera di giovedì alla mattina di venerdì scorso, McCain, che non aspettava altro, ha rovesciato il suo cilindro e ha tirato fuori il coniglio. Un gesto che lo consacra vero maverick, un geniale e imprevedibile giocatore di dadi capace di fare le cose a modo suo in un paese che spesso ammira simili performance. McCain si è fatto vivo di buon'ora in un piccolo stadio popolare in Ohio con al suo fianco Miss Congeniality, l'autenticità in persona, un campione femminile e postfemminista di energia sessuale riproduttiva, una social conservative di classe mondiale, una cacciatrice di caribù e una perforatrice di sottosuolo alla ricerca di petrolio, una schiaffeggiatrice di vecchi leoni e politicanti corrotti, una talentuosa e anche un po' surreale superwoman intrisa di valori familisti potenti e disordinati, di cultura amministrativa della piccola città, di anticentralismo al limite del separatismo, di orgoglio antisnobistico e antipolitico. Ed è stato subito un boom.

    Michael Gerson, speechwriter di George W. Bush e intellettuale di eccezionale talento, aveva messo in guardia Obama dagli esperti d'apparato, e gli aveva consigliato in modo imparziale, nel Washington Post, di non farsi risucchiare nei programmi, nelle issues di dettaglio, nel chiacchiericcio demagogico e politico solito. “Nel suo discorso Obama dovrebbe approfondire i suoi argomenti intorno all'essenziale ruolo pubblico svolto dalla religione e liberare il partito dal suo recente secolarismo. I valori religiosi non devono essere tollerati per buona educazione. Nella storia americana, sono inseparabili dalla battaglia per la giustizia… Perché il suo discorso sia memorabile, Obama deve trovare un modo per ribadire il suo tema iniziale dell'unità della nazione, da qualche tempo marginalizzato dalle sparatorie quotidiane della politica politicante”. Si era già visto, nel confronto dal pastore Rick Warren alla Saddleback Church, che Obama rischiava di diventare, in particolare sulle questioni di etica e di stile di vita, un figlioccio cerebrale e insincero della scuola filosofica di Harvard piuttosto che quel generoso rinnovatore bipartisan che aveva promesso di essere. E così è stato.

    Sarah Palin ha chiuso dignitosamente il cerchio, dopo il grave errore di Obama. Lo ha chiuso a modo suo, con tutta la carica sovversiva della politica locale in situazione di estrema frontiera, tra i ghiacci e il permafrost del northern exposure; con tutto il suo impulso di rottura stilistica personale, spregiudicato e non garantito come il suo timbro di voce e la sua compiaciuta capacità di mordere come un pit bull col rossetto; con la sua femminilità e maternità oltranzista e supermaternità delegata alla diciassettenne Bristol e al suo maschietto riproduttore: il tutto un vivente manifesto antiabortista e prolife che non ha bisogno di dichiarazioni aggiunte. Due giudici della Corte Suprema dovranno essere nominati dal prossimo presidente, e l'aborto è il sottotesto maggiore di queste elezioni, 35 anni dopo la celebre sentenza Roe vs. Wade. Sarah ha ricevuto una quantità di applausi e di attacchi dal momento in cui è comparsa in scena accanto a suo marito e alla sua spettacolare famiglia, bimbo Down compreso. E non si sa se gli porteranno più consensi gli applausi deliranti dei suoi ammiratori della religious right, la simpatia delle small town disseminate nella vastità americana o i fischi sconsiderati, disperati e sessisti della più ipocrita cultura del mondo, quella politicamente corretta del progressismo americano corrente.

    Non è detto che questa fantastica e imprevista chiusura del cerchio, questa nuova formidabile rottura dell'incantesimo liberal, voglia dire automaticamente vittoria per McCain, naturalmente. I repubblicani sono in seria difficoltà dall'inizio del secondo mandato di Bush, e per loro esclusiva colpa. Il discorso di ieri del candidato del Grand Old Party dovrebbe però essersi ispirato, almeno stavolta, al consiglio di nuovo imparziale di Gerson, che vuole un candidato in grado di rompere il guscio del suo stesso partito: “Quale che sia il contenuto del discorso di McCain”, ha scritto ieri sul WP, “c'è un modo per capire se avrà avuto successo. Gli elettori dovranno essere in grado di dire: non ho mai sentito un repubblicano parlare in questo modo”. Se il ticket elettorale repubblicano ricomincerà a volare sulle ali dello humour feroce e delle idee del radicalismo conservatore culturalmente e spiritualmente più forte del mondo, McCain ce la può ancora fare e, ciò che è più importante, Obama può essere costretto a evadere ancora una volta dal banale ovile kennediano dove si amministra da decenni il potere dei democratici americani. Sarebbe comunque una bella battaglia.

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    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.