8 settembre
La dolce crudeltà dell'armistizio
Ma già ai primi di luglio, tra il 9 e il 10, l'onda degli eventi era salita alta, con gli alleati che sbarcavano in Sicilia risalendola poi indisturbati, forse solo per consentire a Robert Capa di scattare la famosa fotografia con il contadino curvo in avanti che indica la via al militare statunitense.
Agosto è un mese di liquide, torbide passioni. Di solito, a settembre le febbri si placano, le emozioni si raffreddano. Si riconquistano cieli tersi e asciutti, un ritorno alla realtà e alla sobrietà, gli eventi che riprendono il loro normale scorrere e gli uomini possono seguirli, anche prevederli. In Italia, a Roma, l'agosto del 1943 si portava appresso un groviglio di sconvolgimenti e prometteva orrori, l'arrivo di settembre ci diede scarse speranze. Io leggevo Cardarelli: “Distesa estate, stagione dei densi climi/ dei grandi mattini/ dell'albe senza rumore -/ ci si risveglia come in un acquario…”, e agognavo il momento di potermi arrampicare anche quell'anno, assieme ai miei amici, sull'immenso fico del giardino, sempre carico dei frutti zuccherini. Ma già ai primi di luglio, tra il 9 e il 10, l'onda degli eventi era salita alta, con gli alleati che sbarcavano in Sicilia risalendola poi indisturbati, forse solo per consentire a Robert Capa di scattare la famosa fotografia con il contadino curvo in avanti che indica con un bastone al militare statunitense la via più rapida per arrivare a Catania e Messina senza colpo ferire.
Poi ci fu il 19 luglio, con il bombardamento di Roma, il cimitero al Verano sconvolto, gli scheletri ghignanti tra le lapidi infrante e gli avelli spalancati, i carri funebri sgangherati e disseminati sul piazzale davanti, i cavalli morti a pancia all'aria e gonfi di putrefazione, la basilica di San Lorenzo in macerie e Papa Pio XII che appare come per magia, tutto bianco, a benedire i vivi e i morti. Subito dopo, c'era stato il 25 luglio, la caduta e l'arresto di Mussolini: noi, in periferia, fummo svegliati dal gracchiare delle radio a tutto volume, dal vocìo concitato da finestra a finestra, dalla gente che si rovesciava per le strade e le piazze, ebbra e urlante, in un baccanale tra dissacrante e purificatorio: Dio mio, come può essere triste la gioia di una liberazione…
Il 13 agosto, nuovo bombardamento alla città, sebbene proclamata “aperta”. C'era poco da sperare. E infatti arrivò l'8 settembre. Non sapevamo cosa volesse significare quella parola, armistizio. Certo, la guerra era finita, ci abbracciavamo ridendo. Ma i sommovimenti del luglio avevano scoperto al vivo le piaghe del paese, e non lasciavano tranquilli. Si facevano congetture, purtroppo amare. Una prese corpo proprio accanto a me, e ne avvertii il peso. Avevo un amico assieme al quale costruivo modelli di alianti, con sottili e lunghi tondelli e listelli di legno, masselli di leggerissimo balsa, carte veline, vernici e una colla, che ci fabbricavamo da soli sciogliendo vecchie pellicole fotografiche nell'acetone, odorosa e inspiegabilmente inebriante (allora non sapevamo perché).
Io cincischiavo su un modello, di disegno tedesco, che si chiamava “Lupus otto”, con ali a gabbiano. Non lo finii mai. Mi annoiava la continuità, allora. Mi sentivo come una crisalide vuota. Svolazzavo qua e là, ero una brutta farfalla. Lui invece era costante, e mise a punto un bel modellino che planò dolcemente lungo i pendii o per le strade, allora libere dal traffico e deserte. Il padre del mio amico era un ex carabiniere – forse un corazziere – grande e grosso. Vivevano, con la madre, in una casa piccola e modesta. Ma lui era un autista di Casa Savoia, del re Vittorio Emanuele III che abitava a Villa Ada, lì a pochi passi. Una sera, appunto l'8 settembre, l'uomo non tornò a casa. Un evento inconsueto, la famiglia entrò in agitazione tutta la notte. Il giorno dopo, una visita misteriosa, una busta di banconote, una notizia mormorata: aveva guidato l'automobile del re nella fuga verso Pescara. Denaro continuò ad arrivare alla famiglia fino al ritorno a casa del padre, dopo il 4 giugno del 1945, la liberazione di Roma.
Quell'estate ci aveva abituato alle notti fatali, ci si risvegliava stralunati e il mondo, o un pezzettino di mondo, era mutato: una di quelle mattine trovammo il parco Nemorense, teatro di giochi e avventure a duecento metri da casa nostra, pieno di soldati: un vero accampamento, di un reparto della Divisione Piave. Non sapevamo perché li avessero sistemati lì, si affaccendavano attorno a piccole cose, lavarsi, gironzolare, chiacchierare, fumare, senza precisi obiettivi, tanto meno militari, almeno in apparenza. L'8 settembre fu per loro un segnale più forte di quanto lo fosse per noi. Non ricordo, non saprei se il giorno stesso o due giorni dopo, l'accampamento cominciò a squagliarsi. Letteralmente, si svuotò, i soldati sciamarono, si sparpagliarono. Sparirono. Ma altri militari cominciarono a sbucare non sapevamo da dove, come spinti da un rovello oscuro.
Casa nostra era proprio all'imbocco della Via Salaria, dove esce da Roma lasciandosi a sinistra Villa Ada e poi attraversando un vecchio ponte sull'Aniene, ormai fiume morto, tutto infrascato e grigiastro, inquinato dagli spurghi acidi delle cartiere di Tivoli. La Salaria era la strada per il ritorno a casa di quei soldati. A piedi, indossando pezzi irriconoscibili di divise o stracci ricevuti in dono da anime pietose. Alcuni tenevano per la cavezza dei muli: mi par di ricordare che venissero dal Veneto, e al Veneto si stessero dirigendo. Due o tre ci chiesero di ospitarli qualche giorno. Stendemmo dei materassi per terra, nella stanza migliore di casa, e quelli vi si buttarono su. Misero allo stremo le nostre scarse provviste: in quei giorni di confuso disordine a poco servivano le tessere del pane, i bollini che i panettieri ritagliavano e che davano diritto a qualche rosetta o sfilatino, e a volte anche a un chilo di patate, a mezzo chilo di riso. Scarseggiarono anche le partite di canditi coloratissimi – il cedro giallo, l'arancio, le ciliegie appiccicose di zucchero – non più richiesti per fare i dolci e quindi riversati sui mercati più poveri, unica risorsa per le nostre ghiottonerie infantili assieme alle castagne secche – le immangiabili mosciarelle – o le carrube, vomitate da grezzi e sdruciti sacchi di iuta.
L'accampamento abbandonato fu per noi una attrazione fantastica. Quel che era restato era l'avanzo di una guerra apocalittica. Sparpagliate tra le aiole, armi a profusione: niente cannoni, solo armi leggere, piccoli mortai che sembravano già sculture astratte di Ettore Colla, fucili modello 91, razzi Very nei loro tubi di alluminio e sacchetti pieni di strani quadratini grigi simili ai quadrucci – la pasta per brodo – ma erano invece, scoprimmo subito, cariche esplosive, probabilmente per i mortai. Io mi portai a casa un paio di fucili, una manciata di razzi e una mezza carriolata di quei quadrucci. Nascosi i fucili, un po' dei razzi e degli esplosivi in un'intercapedine del comò di camera mia. Alcuni razzi, per gioco, li lanciai inventandomi un primitivo espediente tecnico. Ricaddero, sibilando, sui tetti vicini.
Mio fratello trovò invece una pistola, un'automatica di fabbricazione belga, calibro 7,65. Doveva essere appartenuta a un ufficiale che al momento della fuga l'aveva gettata dentro una siepe di mortella. La tolsi dalle mani di mio fratello, che era poco più che un bambino, e assieme a Lucio sparammo quasi tutti i colpi disponibili nella soffitta di casa, per vedere come funzionava. Funzionò benissimo. Ma era di un calibro difficile, non trovai più proiettili adatti. Nel giugno del 1945, feci una specie di affare con un soldato americano, che me la chiese e in cambio mi diede una piccola rivoltella a tamburo, brunita ed elegante. Questa l'ho conservata, senza denunciarla quando, a guerra finita, il governo emanò un bando per la consegna delle armi, che allora circolavano a fiotti. Consegnai invece i fucili, un moschetto che avevo recuperato da certe grotte affacciate sull'Aniene dove era stato abbandonato assieme ad altre armi d'ogni tipo (lo portai a casa nascondendolo sotto un cappotto, improbabile nel settembre assolato, per poter attraversare strade pericolose e sorvegliate), due o tre revolver Colt, una cassetta di proiettili per mitra, un paio di baionette. Per tutto il periodo dell'occupazione tedesca lubrificai diligentemente la mia armeria, che però non servì a farmi diventare un eroe.
L'aeroporto dell'Urbe era allora un aeroporto di guerra. Vi si arrivava con una camminata all'ombra dei platani della Salaria. Conoscevamo bene quella strada, almeno nella sua prima parte. Cento metri prima del ponte c'era una scarpata polverosa. Arrampicandoci sopra e poi buttandoci sulla sinistra, arrivavamo al Tevere che lì, a monte dell'Aniene, era biondo. Imparai a nuotare nelle sue acque. Era un rischio, la corrente trascinava via, bisognava essere abili ad assecondarla cogliendo l'occasione per afferrare al volo un ramo pendente e arrampicarsi a terra, magari disturbando qualche biscia, che si tuffava e spariva via. Un amico morì affogato, ma noi continuammo. Proseguendo oltre la scarpata, prima di arrivare all'aeroporto, osterie campagnole con pergolati e tavolate grezze. Lì, noi attraversammo forse la nostra linea d'ombra, passando dalla gazzosa al vino dei castelli.
La gazzosa la bevevamo direttamente dalla bottiglietta, aperta spingendo col pollice sulla pallina di vetro che la chiudeva. La pallina era tenuta ferma dalla pressione del gas che faceva la bibita frizzante. Spinta giù, la pallina scendeva oscillando, con un sibilo, nella bottiglia, per depositarsi sul fondo. La gazzosa era la bibita dei piccoli, non ce ne erano altre, allora. Ma perché si chiamava gazzosa, o gazosa, con la zeta, e non gassosa con le esse? Poi scoprii su un tombino di ghisa la scritta “gaz”, nell'inglese della ditta fabbricante, forse la gazzosa risentiva di quell'anglismo. In una delle nostre scampagnate ci facemmo coraggio, ordinammo un mezzo litro di vino bianco. Ci fu portata una bellissima bottiglia, la classica bottiglia romana da osteria con la bocca svasata e il bollino di piombo incastrato nel vetro. Anche i bicchieri erano bellissimi, con una pancia rigonfia sul gambo e il piede tondo. Sentimmo che in quel vino, scintillante di riflessi sotto il sole, c'era qualcosa di profondo che mancava alla gazzosa. Eravamo vergini ma davanti a quel vino, proibito per noi fino al giorno prima, ci sentimmo un po' uomini.
Corremmo all'aeroporto dopo che due dei soldatini che avevamo ospitato (erano avieri) ne tornarono spingendo una carriola dentro la quale avevano caricato un recipiente di alluminio pieno di olio di oliva, sottratto dai capannoni abbandonati e deserti. Ce lo donarono in ringraziamento per l'ospitalità. Si poteva entrare e uscire indisturbati dagli hangar, dagli alloggi, dagli uffici, dalle dispense dell'aeroporto, dissero. Ma io e Lucio arrivammo tardi e ci sfuggì la preda più preziosa, qualcuno dei paracadute di pura seta color crema che vi erano sicuramente conservati (sapemmo poi che in effetti ne erano stati portati via in quantità). I capannoni erano già stati raschiati fino all'osso da chissà quanti, affamati o solo predatori, i due avieri che ci avevano portato l'olio erano arrivati appena a tempo. Noi trovammo solo una grossa botte piena di sottaceti. La botte non aveva coperchio, e la superficie purulenta dei sottaceti era ricoperta di migliaia di corpi, ali, elitre di insetti, mosche, calabroni e vespe che vi erano caduti dentro, forse asfissiati dalle esalazioni. In compenso, sulle piste c'erano alcuni aerei.
L'erba era secca, gialla, tagliente. Un grosso quadrimotore Savoia Marchetti con le insegne civili poggiava stramazzato con la pancia della fusoliera a terra, colpito e reso inutilizzabile. C'era anche un trimotore da bombardamento, un SM 79, un “gobbo volante”, come lo chiamavano a causa del cupolino dorsale dal quale spuntava una grossa mitragliera per difesa da attacchi provenienti dall'alto. Nelle rastrelliere non c'erano bombe, ma dal cupolino sporgeva ancora la mitragliera. La brandeggiammo estasiati, non ebbi il coraggio di imitare Sergio che il giorno prima, raccontò, ne aveva fatto funzionare una mirando all'impazzata, o verso il cielo. La cabina di pilotaggio era piena di strumenti. Al centro della consolle troneggiava una bussola giroscopica dentro una campana di vetro. Riuscii a svitarla e staccarla dal supporto. Quando facevo ruotare la campana di vetro, il giroscopio reagiva oscillando e girando a sua volta, testardamente, nella direzione contraria. Puntava su un nord lontano e irraggiungibile. Pensai di utilizzare quello stupendo strumento per la mia barca, la canoa o la battana da fiume che avrei avuto sicuramente, un giorno o l'altro. Chissà che fine ha fatto, quella bussola.
Non avemmo miglior fortuna, io e Lucio, andando a esplorare la stazione merci ferroviaria un po' oltre l'aeroporto, sempre sulla Salaria. Dovemmo camminare oltre l'aeroporto ormai del tutto rapinato. Avevamo con noi la bicicletta di Lucio, tante volte fossimo riusciti ad arraffare qualcosa. Vedemmo gente che veniva verso di noi, anche loro trascinando biciclette o carrettini con sopra sacchi rigonfi. Arrivammo alla fine alla stazione. Anche questa era deserta, abbandonata. L'abbandono lascia dietro di sé una scia di ansia invisibile, infinita. Sui binari, due o tre convogli, i vagoni merci con le portiere aperte, incustoditi. Ci arrampicammo su uno dei vagoni. Il pavimento era coperto di strie, strisce bianche disordinate. Era farina uscita fuori dai sacchi violentati dai rapinatori. Saltammo dentro parecchi vagoni, tutti vuoti.
In quelle ore la gente sbandava di qua e di là, inseguiva speranze e fuggiva paure. Si dava voce a ogni sospetto, si correva al minimo richiamo. Si adunavano gruppi e gruppetti, si dissipavano crocchi. Ci incamminammo tutti, alla fine, verso il centro della città, dove si presume accadano le cose grosse. Ci muovevamo spalleggiandoci l'un l'altro, percorremmo alacremente strade che di solito sfiancavano. Piazza Fiume è l'ultima piazza prima di oltrepassare le mura aureliane, confine allora palpabile tra il dentro e il fuori città. C'era già gente che affollava lo spiazzo. Formavano due file compatte, sventolavano bandiere bianco rosso e verde, con al centro la croce dei Savoia, bianca nello stemma rosso e blu. Gridavano anche, con voci cariche di gioia, di speranze festose: le parole viva la libertà, viva l'Italia, viva l'esercito, viva il re risuonavano e si mescolavano in un urlare indistinguibile.
Tra le due ali di gente sfilavano lentamente camionette e autocarri militari, carichi di soldati. Venivano dalla parte di Porta Pia, si dirigevano verso Villa Borghese. Procedevano a strappi, fermandosi ogni tanto, per chissà quali intoppi. Avevo perduto di vista Lucio, mi scordai di lui e di tutto, battevo le mani, il cuore mi saltava dentro. Era un'atmosfera irresistibile, dopo mesi (forse anni) di depressioni, l'entusiasmo dilagava. A un certo momento, il gridìo ammutolì, si fermò nelle gole. Da chissà dove erano sbucate due automobili da campagna tedesche, con dentro soldati e ufficiali, chissà se Wehrmacht o SS. Il convoglio si fermò del tutto. Arrivarono di corsa alcuni ufficiali italiani, tra loro e i tedeschi cominciò un dialogo, una trattativa, non mi parve di vedere volti o atteggiamenti particolarmente alterati. Sulle loro automobili, i militari tedeschi imbracciavano mitra. I soldati italiani sui camion cominciarono ad agitarsi. I primi spari echeggiarono, non si capiva da quale parte. Ne seguirono altri, martellanti. La gente cominciò a sbandare, a correre da tutte le parti. Io mi precipitai verso via Nizza, la più vicina, alle mie spalle. Ero premuto e spinto, mi infilai dentro un portone, la calca mi seguì. Ci zittimmo, tendendo le orecchie verso i colpi che continuavano, uno snocciolio fitto. Ai colpi singoli si mescolarono raffiche di mitra, scoppiettii di pistole, grida, comandi. Poi cadde un silenzio angoscioso.
Aspettammo un po', quindi, cautamente, uscimmo dal portone. Le due automobili tedesche erano sparite, il convoglio dei camion aveva ripreso a camminare, sempre lentamente. Sembrava che nulla fosse accaduto. Mi attardai a curiosare. Subito dopo le mura, sulla sinistra, c'era un bar, con davanti il marciapiede e un alto lampione in ghisa. Sul marciapiede qualcuno aveva gettato secchiate d'acqua. Ma l'acqua era striata di sangue. Gettai gli occhi qua a là, e proprio alla base del lampione scorsi l'orrore. Un pezzo di carne, sicuramente umana, come la grossa fetta di un gluteo con la pelle rosa che lo copriva da una parte. Pensai che fosse appartenuta a uno dei tedeschi, la sparatoria era stata certamente loro fatale. Non potei trattenermi dal premere con la scarpa il pezzo di carne, che cominciò a gettare sangue, un sangue chiaro e slavato. Assaporai la dolcezza di essere crudele. (La famosa foto di Robert Capa ritrae un contadino siciliano che indica a un soldato americano la via di fuga scelta dai tedeschi - foto Ansa)
Il Foglio sportivo - in corpore sano