Nel fortino segreto degli italiani
Benvenuti nell'inferno di Delaram, dove la compagnia Diavoli difende un fortino all'estremo sud dello schieramento italiano. L'ottantina di uomini del 66° reggimento Trieste si trova oltre Farah, la provincia più difficile dell'Afghanistan occidentale. Li comanda il capitano Giordano Gemma, pistola legata alla coscia, occhi azzurri e baffi alla Gengis Khan.
A Delaram i blindati italiani bloccano la strada, i militari sono pronti a sparare. Il fumogeno verde indica la direzione del vento per l'elicottero che deve atterrare sulla striscia d'asfalto (altrimenti sprofonderebbe nella sabbia). Un altro Ch-47 ronza attorno con i mitraglieri a caccia di talebani, che da queste parti appaiono e compaiono come fantasmi. Si esce di corsa dal ventre dell'elicottero e una vampata di aria torrida t'investe come un cazzotto. Il paesaggio è desertico e lunare. Benvenuti nell'inferno di Delaram, dove la compagnia Diavoli difende un fortino all'estremo sud dello schieramento italiano. L'ottantina di uomini del 66° reggimento Trieste si trova oltre Farah, la provincia più difficile dell'Afghanistan occidentale. Li comanda il capitano Giordano Gemma, pistola legata alla coscia, occhi azzurri e baffi alla Gengis Khan.
La piccola base ha aperto i battenti agli inizi di maggio e fino a oggi nessun giornalista ci aveva messo piede. L'ex fortino sovietico a pochi passi dalla cittadina di Delaram mantiene ancora qualche vecchia camerata in muratura e la torre di guardia. Un'altra torre è sbrecciata dalle cannonate. La leggenda vuole che i buchi siano stati provocati dai carri T62 dei mujaheddin ai tempi della disfatta dell'Armata rossa. Delaram è uno snodo strategico lungo la “ring road”, la grande strada circolare che percorre l'Afghanistan. A una cinquantina di chilometri c'è Camp Bastion, il quartier generale inglese nella provincia di Helmand. Oltre le mura del fortino si annidano talebani e kamikaze.
I Diavoli sono stati attaccati due volte, ma le scene dantesche a Delaram le hanno vissute i bersaglieri dell'8° reggimento. Il 15 maggio e il 18 giugno due attentatori suicidi si sono fatti esplodere nel bazar. L'obiettivo era la stazione di polizia, ma hanno fatto strage di civili. “Il terrorista si copriva con un burqa verde e puntava a una camionetta della polizia. Alle nove e un quarto è saltato in aria in mezzo alla gente. Abbiamo sentito l'esplosione e visto la colonna di fumo che si alzava da Delaram, ma non sapevamo ancora cosa ci aspettava”, racconta il capitano Mario Galati. Viene da Bari ha 31 anni e il 28 luglio è nel fortino al comando della compagnia Demoni.
Dopo la strage, dell'attentatore rimane soltanto una gamba. La base italiana è l'unico posto nel raggio di chilometri dove c'è un medico degno di questo nome. “Hanno cominciato a portarci le vittime dell'attentato. Poliziotti, anziani, bambini dilaniati. Morti e feriti arrivavano tutti assieme”, ricorda l'ufficiale dei bersaglieri. Le scene sono da girone dantesco. Qualcuno le documenta con brevi filmati e drammatiche fotografie. “A un anziano l'esplosione aveva portato via la mandibola. Un altro vomitava sangue, ma non sembrava avesse ferite esterne evidenti. Un bambino, in stato comatoso, è stato subito intubato. Ci siamo dannati per salvarlo, ma purtroppo l'abbiamo perso”, spiega il capitano Galati.
I militari italiani usano fettucce colorate per segnalare la gravità dei feriti. Quella rossa è per i senza speranza. Le barelle sono soltanto tre e i soldati usano le loro brande da campo. Alla fine della giornata dovranno bruciarle perché sono intrise di sangue. La base si trasforma in un lazzaretto con i morti da una parte e i feriti sistemati in ogni angolo dove c'è un po' d'ombra. Il sole è implacabile, il medico gira con le iniezioni di morfina. La scelta di chi occuparsi per primo è tragica. Inutile perdere tempo con i casi irrecuperabili. Meglio concentrarsi sui feriti che hanno qualche speranza di sopravvivere. Il fratello di un poliziotto dilaniato si dispera e chiede per pietà al medico di salvare il suo caro. I feriti si lamentano e i militari italiani si fanno in quattro: spostano a braccia i cadaveri o tengono le flebo di chi può farcela. Si infilano i guanti di lattice e diventano tutti soccorritori. “Un ragazzo aveva una brutta lesione a un gamba vicino alla femorale. Perdeva molto sangue e uno dei nostri gli è rimasto accanto premendo sulla benda insanguinata per fermare l'emorragia, fino a quando è morto”, racconta il giovane comandante dei bersaglieri.
Alla radio con il comando di Herat il capitano Galati fa il conteggio dei morti, che salgono di ora in ora fino a raggiungere 17 vittime. I feriti, molti dei quali gravi, sono 12. Gli elicotteri inglesi e spagnoli per evacuarli arrivano nel primo pomeriggio. I feriti sono caricati su un camion della polizia. Chi arriva all'elicottero, che non spegne mai i motori, è in salvo. “Nel tragitto di poche centinaia di metri dalla base ne abbiamo perso un altro”, ricorda Galati. Il 18 giugno la scena si ripete, questa volta ci sono tre morti e dieci feriti. Il terrorista suicida si è riempito il giubbotto esplosivo di biglie d'acciaio, che si sono conficcate come proiettili nella carne delle vittime. Fra i morti c'è pure un bambino di dieci anni. “Abbiamo cercato in tutti i modi di salvarlo – spiega il capitano dei bersaglieri – Con il massaggio cardiaco, la ventilazione artificiale, ma aveva ferite dappertutto…”. La base di Delaram è un bubbone per i talebani. Vorrebbero eliminarla. L'ultimo razzo è arrivato il 18 agosto, ma il 28 luglio i fondamentalisti in armi hanno scatenato un attacco in piena regola. Quel giorno, di guardia sugli spalti, c'è la prima squadra Scorpioni del maresciallo Egidio De Lorenzo. Un soldato di 31 anni che viene da Potenza.
La torretta più alta, dove sventola il tricolore, è investita dallo spostamento d'aria del primo razzo che piomba a una cinquantina di metri dal fortino. Alle 13 e 30 ci sono 52 gradi. L'impatto del razzo è micidiale. “Mi sono messo l'elmetto, il giubbotto antiproiettile ho preso l'arma e sono corso verso la torretta. Dopo l'esplosione del razzo avevano cominciato a spararci a raffica da diverse postazioni”, racconta il maresciallo di ferro. Sente il fischio di un altro razzo, che passa sopra la testa dei soldati italiani ed esplode dietro la base. I talebani utilizzano anche i mortai. “Un colpo è arrivato a cento metri sollevando un cono di sabbia dal terreno. Francesco ha individuato da dove ci sparavano. Gaspare con il binocolo mi indicava la distanza dal nemico e la direzione. Ho cominciato a sparare brevi raffiche con la mitragliatrice Browning rispondendo al fuoco per una ventina di minuti”, racconta De Lorenzo. Lo scontro va avanti a intermittenza. I soldati italiani si inerpicano su una improvvisata scaletta di legno per trasportare le cassette di munizioni alle postazioni del fortino. Fin dal mattino c'era qualcosa di strano nell'aria. Nell'abitato di Delaram non si notava anima in giro. Non a caso i talebani sparano da postazioni molto vicine alle case. Gli italiani chiamano l'appoggio aereo e arriva un caccia americano, che non riesce a distinguere il nemico e a sganciare. Il caccia si limita a passare in volo radente per intimorire i talebani. “Dopo una quarantina di minuti finisce tutto. Mi ricordo che eravamo inzuppati di sudore e stanchi. Durante il combattimento non senti niente, ma poi viene fuori quello che hai dentro”, racconta il maresciallo.
A Delaram può capitarti di tutto. Il capo della polizia è stato ammazzato a un posto di blocco. I talebani sono arrivati in macchina e gli hanno sparato dal finestrino dileguandosi. “Un proiettile lo ha preso alla nuca. Sono riuscito a stabilizzarlo e a farlo evacuare in elicottero, ma era gravissimo”, spiega il capitano medico Federico Norante. Trentanove anni, di Vicenza, ha ricavato in una stanzetta disadorna dell'ex base sovietica un efficiente pronto soccorso. Nella provincia di Farah chi collabora con la Nato fa spesso una brutta fine. Un ufficiale di polizia afghano è stato recentemente rapito e portato in un villaggio in mano ai talebani. Dopo un sommario processo in nome della legge islamica l'hanno sgozzato in pubblico per dare l'esempio.
Gli italiani che tengono Delaram organizzano posti di blocco e controlli con la polizia e l'esercito afghani. Pattugliano la zona e talvolta trovano armi oppure ordigni inesplosi di guerre del passato o di oggi. Gli artificieri li fanno brillare in mezzo al deserto, ma la compagnia Diavoli non sta soltanto con il dito sul grilletto. I militari italiani distribuiscono aiuti alla popolazione e organizzano ambulatori volanti per curare i civili. L'obiettivo è conquistare i cuori e le menti degli afghani per tagliare i legami con i talebani. “Possiamo vincere soltanto attirando dalla nostra parte la popolazione. I talebani impongono la loro presenza e spesso fra gli stessi anziani dei villaggi si annidano i loro capi” sostiene il generale Francesco Arena, che comanda il settore ovest dell'Afghanistan. Per controllare quattro province (Herat, Farah, Ghor e Badghis) ha solo 2.800 uomini. Spagnoli, sloveni, albanesi e 1.421 soldati italiani. Troppo pochi per tenere un territorio grande come il nord Italia.
La provincia più pericolosa è quella di Farah, dove la brigata Friuli non tiene soltanto avamposti come Delaram. Nei mesi scorsi, assieme a truppe americane, i soldati italiani hanno partecipato all'operazione Bazar. La missione ha portato alla “liberazione” di Bakwa, una delle roccaforti talebane nella zona di Farah. Il maresciallo Alfonso Capasso è nato per indossare la divisa. Classe 1976 viene dalla provincia di Napoli. Comandante del 2° plotone aeromobile della task force Aquile era in prima linea nell'operazione Bazar. “A un paio di chilometri dal villaggio di Bakwa ci hanno segnalato che due persone stavano fuggendo in moto”, racconta Capasso. Il suo plotone sta avanzando sulla famigerata strada 515, che i talabeni hanno più volte disseminato di trappole esplosive. Solitamente sono micidiali piatti a pressione costruiti con tavole di legno appoggiati su delle molle. Quando passa un blindato della Nato schiaccia le tavole e chiude il contatto che fa esplodere l'ordigno.
Gli uomini di Capasso cinturano l'area e il nucleo artificieri procede con cautela in cerca della trappola esplosiva. “Abbiamo visto il terreno smosso – spiega il maresciallo – I talebani avevano sotterrato una bombola del gas piena di tritolo. Stavano sistemando il piatto a pressione sul percorso del nostro convoglio, poi ci hanno visti e sono fuggiti”. Se i reparti italiani non sono in missione si rilassano a Camp Arena, la grande base di Herat. Una cittadella con tanto di pizzeria, ristorante, bar fornito di super alcolici, lavanderia e palestra. Per non parlare dei punti Internet da dove i militari parlano con le famiglie via computer. In Italia mamme non più giovani hanno imparato a usare le diavolerie della rete, pur di restare in contatto dall'Italia con i figlioli in missione. Ogni computer ha una piccola telecamera per “vedersi” con la moglie o la fidanzata. I bambini puntano il dito sullo schermo e dicono “papà”. (Una sequenza fotografica dell'attentato del 15 maggio a Delaram, in cui ci furono 17 morti. Le immagini sono state scattate dai militari italiani intervenuti a dare soccorso)
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