L'uomo candido

Piero Vietti

Ventiquattro luglio 1968, Roncole Verdi. Una piccola folla silenziosa segue un feretro diretto al cimitero del paese. Nel corteo qualche giornalista, nessun politico e tanti operai, contadini e bambini della scuola. Due giorni prima, a Cervia, Giovannino Guareschi è morto improvvisamente di infarto.

Ventiquattro luglio 1968, Roncole Verdi. Una piccola folla silenziosa segue un feretro diretto al cimitero del paese. Nel corteo qualche giornalista, nessun politico (tranne il sindaco socialista di Fontanelle) e tanti operai, contadini e bambini della scuola. Tra loro anche il commendator Enzo Ferrari. Due giorni prima, a Cervia, Giovannino Guareschi è morto improvvisamente di infarto. Il giornale del partito comunista, l’Unità, parlerà di “malinconico tramonto dello scrittore che non era mai sorto”. Al funerale, forse non visti ma presenti, ci sono tutti i personaggi di Mondo Piccolo, don Camillo e Peppone in testa. Perché il pretone e il grosso sindaco non li aveva inventati lui, diceva sempre: “Chi li ha creati è la Bassa. Io li ho incontrati, li ho presi sottobraccio e li ho fatti camminare su e giù per l’alfabeto”. La Bassa è quella zona della pianura padana, nella provincia di Parma, dove Guareschi ha passato la propria vita, è “l’antipittoresco” per eccellenza, un posto che “non è fatto per le gite turistiche in torpedone. E’ fatto per chi non ha paura di restar solo coi suoi pensieri”. Quel ventiquattro luglio la Bassa lo saluta per l’ultima volta dopo sessant’anni vissuti intensamente, passati raccontando storie, facendo ridere gli amici e arrabbiare i (tanti) nemici, disegnando l’Italia e il mondo con la sua matita, spiegandoli con i suoi articoli. Muore da solo, Giovannino Guareschi, e in tanti quel giorno d’estate di quarant’anni fa si sfregano le mani soddisfatti, pensando di esserselo tolto dai piedi, ché tanto sarà presto dimenticato. Non sanno di sbagliare.

 

“Il primo sole che i miei occhi vedono è il sole della mattina del primo maggio 1908. Un sole politico. E la politica infatti ribolle tre metri sopra la mia culla perché il primo maggio è la festa rossa della Bassa e i rossi si addensano nel cortile sul quale dà una finestra di casa mia, mentre un sottile soffitto di mattoni e travicelli mi divide dagli altri rossi che affollano il camerone della Cooperativa. E quella mattina, appena finito il comizio nel cortile sotto la finestra della mia cucina, io ho il primo contatto diretto con la politica e la lotta di classe. La mia fanciullezza a Fontanelle è felice: porto i capelli alla Bebè e il vestone col collettino bianco di pizzo come tutti i bambini fino a cinque, sei anni. Sembra che io sia un bambino molto riservato e che non mi industri a mettermi in vista. Ma verso i sei anni qualcuno si accorge che esisto ed è una scoperta sgradevole perché mi coglie mentre svaligio un susino nel suo orto. Non comprende, il brav’uomo, che io, essendo nato in una rovente atmosfera socialista, non possiedo un concetto molto preciso della proprietà privata”. L’ironia e l’umorismo sono i tratti caratteristici dell’opera del padre di don Camillo e Peppone, ma non possono bastare a spiegare un successo che nessun altro autore italiano ha avuto nel mondo.

 

Alessandro Gnocchi, che da vent’anni gira l’Italia per parlare dello scrittore di Roncole Verdi e su Guareschi ha scritto diversi libri tanto da poter essere considerato a buon diritto il massimo esperto della sua opera, spiega che “è stato tradotto in tutte le lingue tranne, ad oggi, l’albanese e il cinese: ho visto edizioni in coreano, e persino una in eschimese, rilegata in pelle di foca. Addirittura in Vietnam è stato plagiato: sulla falsariga delle storie di don Camillo, hanno scritto racconti con un bonzo buddista e un commissario del popolo come protagonisti”. Quando uno scrittore è così amato dopo quarant’anni dalla morte (e sessant’anni dalla nascita delle sue storie) significa che ha toccato qualcosa di universale. In effetti l’uomo è sempre uguale, in qualsiasi tempo e luogo egli viva, qualsiasi cosa faccia. Chi l’uomo lo conosce bene, e lo sa raccontare, ha sempre qualcosa da dire. Anche se mette in scena le storie di un piccolo paese della Bassa padana, un Mondo Piccolo, appunto. “Guareschi sapeva che l’uomo di tutti i tempi – continua Gnocchi – si pone sempre le stesse domande e ha bisogno sempre della stessa risposta”. Probabilmente quella risposta ha a che fare con la malinconia che prende chi legge – è inevitabile, comunque la si pensi, quella malinconia è inevitabile – quando si arriva all’ultima pagina di uno dei libri su don Camillo. Come sarebbe bello vivere lì. Non perché sia un mondo perfetto, come spiega Gnocchi: “Ci sono le stesse cose della vita normale, l’odio, la morte, il peccato, le liti… ma è un mondo toccato dalla Grazia, in cui i protagonisti non si oppongono alla Grazia”. Come se vivessero in una parabola.

 

Di Guareschi si è parlato in queste settimane per i tagli operati dal regista Giuseppe Bertolucci alla parte del film “La rabbia” (a quattro mani con Pier Paolo Pasolini) girata dallo scrittore emiliano: le accuse di razzismo, le conseguenti dimissioni di Bertolucci dal comitato per il centenario di Guareschi e ciò che sui giornali è stato scritto, non hanno reso merito a uno degli autori tra i più attuali del Novecento italiano, che a differenza di altri scrittori esaltati in vita nei salotti e oggi letti da pochi, continua a vendere migliaia di copie. Ma Guareschi aveva e ha le spalle larghe: “Non muoio neanche se mi ammazzano” disse dopo essere sopravvissuto alla prigionia nei lager nazisti, dove fu rinchiuso per avere rifiutato di combattere dalla parte dei tedeschi e aver mantenuto fede al giuramento al re. Nei due anni di prigionia scrive “Diario clandestino”, non cede alla disperazione pensando che deve tornare a casa dalla sua famiglia, sa di essere libero anche dietro al reticolato di filo spinato: “Signora Germania, tu frughi nel mio sacco e rovisti fra i trucioli del mio pagliericcio. E’ inutile, signora Germania: tu non puoi trovare niente, e invece lì sono nascosti documenti d’importanza essenziale. La pianta della mia casa, mille immagini del mio passato, il progetto del mio avvenire. L’uomo è fatto così, signora Germania. Di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno. E questa è una fregatura per te”. Nel 1945 Guareschi torna in Italia e fonda il settimanale Candido, dalle cui pagine fino al 1961 cerca di raccontare e giudicare l’Italia di allora toccando temi che ancora oggi sono d’attualità, come le vignette sui “figli in provetta” e le “spiagge al petrolio” dimostrano. Il presupposto su cui Candido basa tutte le battaglie politiche e culturali è detto dal suo fondatore: “Noi non apparteniamo a nessun ismo. Abbiamo un’idea, sì, ma non finisce in ismo. La cosa è molto semplice: per noi esistono al mondo due idee in lotta: l’idea cristiana e l’idea anticristiana. Noi siamo per l’idea cristiana”.

 

Non bisogna pensare che Candido fosse un giornale da parrocchia: negli anni arriva a una tiratura di un milione di copie, fa opinione e crea non pochi imbarazzi e fastidi in molti ambienti, dal Partito comunista alla Democrazia Cristiana, tanto che per i suoi reiterati attacchi ad Alcide De Gasperi il monarchico Guareschi verrà condannato a oltre un anno di carcere nel 1954. Gli anni in cui nasce Candido sono quelli drammatici del dopoguerra, delle elezioni che avrebbero decretato “da che parte stare”. L’impegno di Guareschi contro i comunisti è senza sosta, duro, a tratti pericoloso per la sua stessa incolumità. La sua bravura di disegnatore gli fa inventare vignette che diventeranno manifesti elettorali, come quello del cadavere del soldato italiano che da dietro al reticolato di un Gulag dice: “Mamma, votagli contro anche per me!”, oltre al celebre “Nel segreto della cabina elettorale, Dio ti vede, Stalin no”. Alessandro Gnocchi non ha dubbi: “Parte del merito della sconfitta del Fronte popolare è da dare a Giovannino, che con la sua umanità aveva il coraggio di denunciare cose che in pochi avevano il coraggio di dire”. E rivela: “Nel suo archivio personale ho trovato moltissime lettere di comunisti che gli scrivevano per chiedergli se erano vere le cose che lui diceva sull’Unione Sovietica perché non si fidavano di quanto descritto dall’Unità. Molti di questi militanti erano gli stessi che, in segreto, tutti i sabati si facevano mettere una copia del Candido dentro al loro quotidiano. Questo succedeva per la capacità di Guareschi di parlare al singolo individuo e non alla massa indistinta”.

 

La stessa cosa che succede a Peppone: il grosso sindaco comunista, che nei famosi film (in realtà criticati da Guareschi) è interpretato da Gino Cervi, infatti “non è uno di quei cattolici che, a forza di dialogare e di cedere, sono diventati comunisti – spiega Gnocchi – Peppone è un comunista che, a forza di usare il cervello di cui Dio lo ha dotato e di praticare luoghi e discorsi in cui la Grazia sovrabbonda, è diventato cristiano”. Memorabile la scena in cui don Camillo parte da solo per la processione che si concluderà con la benedizione del Po: nessuno del paese lo segue, perché Peppone e i suoi hanno minacciato di spaccare la testa a chi si fosse presentato. Quando don Camillo è quasi sulla riva, i comunisti gli sbarrano la strada. Don Camillo allora imbraccia il crocifisso come fosse un bastone, pronto a darlo sulla testa dei “rossi”, che però si aprono e lo lasciano passare. Scrive Guareschi: “‘Gesù – disse ad alta voce don Camillo – se in questo sporco paese le case dei pochi galantuomini potessero galleggiare come l’arca di Noè, io vi pregherei di far venire una tal piena da spaccare l’argine e da sommergere tutto il paese. Ma siccome i pochi galantuomini vivono in case di mattoni uguali a quelle dei tanti farabutti, e non sarebbe giusto che i buoni dovessero soffrire per le colpe dei mascalzoni tipo il sindaco Peppone e tutta la sua ciurma di briganti senza Dio, vi prego di salvare il paese dalle acque e di dargli ogni prosperità. Amen’, disse dietro le spalle di don Camillo la voce di Peppone. ‘Amen’ risposero in coro, dietro le spalle di don Camillo, gli uomini di Peppone che avevano seguito il Crocifisso”.

 

Il combattivo Guareschi divenne imbattibile grazie alla sua arma preferita, maneggiata come pochi altri: l’umorismo. Diceva nel 1951: “L’umorismo in sostanza, pur se apparentemente sembra un’arma di offesa, è una potente e benefica arma di difesa. Ed è un’arma segreta perché, disgraziatamente, l’umanità ne disconosce l’uso e così è arma usata da una inconsistente minoranza”. Un esempio lampante di questa sua ironia intelligente è nella serie di vignette sull’“obbedienza cieca, pronta, assoluta” dei comunisti: al grido di “contrordine compagni”, settimanalmente Guareschi scherzava sull’irragionevole obbedienza dei “rossi” a quanto scritto dall’Unità. In una di queste si vede un gruppo di comunisti “trinariciuti” intenti a bastonare, tagliare e sparare su un campo d’erba. Li ferma uno che arriva di corsa, a cavalcioni di una mucca: “Contrordine compagni! La frase pubblicata sull’Unità: ‘Noi vogliamo un’Italia senza prati’ contiene un errore di stampa, e pertanto va letta: ‘Noi vogliamo un’Italia senza preti’”.

 

Un’ironia che per primo riversava su di sé: “Giovannino, quanto sei fesso”, si diceva la mattina sorridendo davanti allo specchio. O come quando in un programma televisivo parla del suo ristorante: “Quando facevo il giornalismo, gli esperti del giornalismo mi hanno consigliato parecchie volte di darmi all’agricoltura; ho seguito il loro consiglio. Purtroppo gli esperti di agricoltura mi hanno consigliato di ritornare al giornalismo; allora ho scelto quest’attività che non danneggia né il giornalismo né l’agricoltura. E poi così posso coltivare il mio hobby, che è quello dello scrivere, perché posso scrivere qualcosa di veramente sostanzioso: il menu”. Un umorismo che, secondo Gnocchi, “fa vedere innanzitutto che il cristianesimo non è noioso, e nel caso di Guareschi è la dimostrazione che un umorista è innanzitutto un uomo serio: perché l’umorista non è colui che sa ridere di tutto, ma colui che sa che non è possibile ridere di tutto”. Come succede nei suoi romanzi, dove il primo a essere ironico è proprio colui che secondo Gnocchi “è il vero protagonista delle storie di don Camillo: Gesù”. I dialoghi tra don Camillo e il Crocifisso hanno infatti la rara capacità (riscontrabile per esempio in Gilbert K. Chesterton) di far ridere e pensare insieme. Prima di morire, Giovannino fa in tempo ad ammonire gli italiani dei danni che il progressismo avrebbe fatto alla chiesa: rileggere certi articoli pubblicati su Oggi, guardare certe vignette sui “preti nuovi” e immergersi nelle malinconiche pagine di “Don Camillo e don Chichì” dà la sensazione di trovarsi di fronte a un profeta laico dei tempi che sarebbero venuti. Anche per questo non è stato possibile dimenticarlo.

 

Da quel 24 luglio di qurant’anni fa, quando tutto sembrava finito, passato, sepolto con il suo corpo, una rete sotterranea di persone, come i membri di una setta segreta, ha continuato a leggerlo, a parlarne, a tramandarlo. “Rizzoli per anni lo ha continuato a pubblicare – dice Gnocchi – ma quasi di nascosto, come vergognandosi. Poi, i suoi figli Alberto e Carlotta si sono decisi a riprendere in mano tutto il materiale di Giovannino e farlo ripubblicare, avendo un successo incredibile”. Stesso successo che la mostra sui cento anni dalla nascita, “Non muoio neanche se mi ammazzano”, sta avendo in questo periodo: è una mostra itinerante, con un video di Egidio Bandini, foto, copie originali del Candido e pezzi inediti dello scrittore di Roncole Verdi. Alessandro Gnocchi è tra i curatori di questa mostra che ha esordito al Meeting di Rimini facendo ventisettemila spettatori e che in questi giorni è a Parma, terra di Giovannino. Là dove le facce della gente sono ancora uguali a quelle dei suoi racconti. Là dove da ragazzo andava a sedersi in riva al Po, sperando di passare un giorno sull’altra riva, come scrive in “Don Camillo e il suo gregge”: “Adesso ho quarantacinque anni e ho conquistato la bicicletta. E spesso vado a sedermi come allora sulla riva del grande fiume e, mentre mastico un filo d’erba, penso: ‘Si sta meglio qui, su questa riva’. E ascolto le storie che mi racconta il grande fiume, e la gente dice di me: ‘Più diventa vecchio, e più diventa svanito’. Invece non è vero perché io sono sempre stato svanito. Grazie a Dio”.

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.