L'America arranca, eppure riesce a non perdersi

Giuliano Ferrara

Le elezioni presidenziali americane del 2004 furono elezioni in tempo di guerra. Roba seria e forte. Si discuteva dell'esistenza in vita di una cultura e di un modo di essere del sistema occidentale e delle sue alleanze politiche e militari, non dell'acconciatura della splendida e fatale Sarah Palin o delle vaghezze speranzose dello charmoso Barack Obama.

    Le elezioni presidenziali americane del 2004 furono elezioni in tempo di guerra. Roba seria e forte. Si discuteva dell'esistenza in vita di una cultura e di un modo di essere del sistema occidentale e delle sue alleanze politiche e militari, non dell'acconciatura della splendida e fatale Sarah Palin o delle vaghezze speranzose dello charmoso Barack Obama. C'era un presidente che doveva finire il suo duro lavoro incendiario, che aveva strappato la storica capitale del Califfato dalle mani di un tiranno pericoloso e le montagne dell'Afghanistan dalla presa infernale dei teologi islamici radicali detti Talebani, scatenando una guerra universale, e uno sfidante che lo incalzava infelicemente, goffamente, ma sempre sul suo terreno di comandante in capo.

    L'onda lunga del patriottismo costituzionale che unificò la nazione dopo l'11 settembre non era rifluita. La coalizione progressista era ancora divisa tra i tradizionalisti del pacifismo e della protesta umanitaria e i liberal investiti dalla realtà che volevano liberare il mondo di qualche stato carogna e della minaccia totalitaria del radicalismo islamico. Ma l'occidente arranca, ormai, quando si tratta di mettere insieme guerra e decisione politica, quando si deve fronteggiare una crisi di lungo periodo, quando il benessere dietro l'angolo si sposta di appena un paio di isolati. Arranca perfino l'occidente americano, quella parte di mondo che ancora venera i grandi idoli costituzionali e gli ideali della città sulla collina, che si considera in gara per l'eternità, letteralmente ciascuno per sé e Dio per tutti.

    In quattro anni appena molte cose sono cambiate. L'ondata antipolitica c'è. Anche in America. La classe media è indebolita economicamente e socialmente. Il greed, l'avidità dei molti ricchi e globalizzati, si spalma su una grande platea di popolo che si sente spossessato e in caduta libera. Il paese vuole scrollarsi di dosso il ricordo della guerra al terrorismo e dei suoi alti costi. Vuole trivellare qualunque cosa pur di ridurre il prezzo della benzina, e insegue i maghi che moltiplicano i messaggi tv sulle energie alternative al di là di ogni ragionevolezza. Gli americani vogliono la testa di bin Laden e sono arrabbiati con lo sceriffo che non gliel'ha portata. L'elettore vuole salvare i mutui ipotecari a tassi bassi, che rendevano possibile la proprietà della casa e lo small business: tutti accettano il grande esproprio di Fannie Mae e Freddie Mac. Il reaganismo si affida alle cure sociali dello stato federale. Una situazione curiosa, complicata, di massima incertezza.

    E i due candidati alla presidenza competono sul terreno insidioso e pretestuoso del “cambiamento”, questa parola così fatale e così stupida, che fa da esca alle idee povere della politica occidentale in ogni luogo, a ogni latitudine. L'America è effettivamente, come dicono i sondaggisti, sul binario sbagliato. Ma, come dimostrano le sorprese di Obama e di Palin, candidati anomali, ha abbastanza fantasia e passione per ritrovarsi da qualche parte.

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.