Ecco chi sale e chi no sul carroccio del vincitore
La Lega non è uguale per tutti
La trota, ecco il punto. Forse davvero più importanti di tutto sono “le parole sognate dai pesci”, come dice Davide Van de Sfross. Se la metà del genio è un fattore linguistico, allora quello di Umberto Bossi è genio autentico. Non solo la sua capacità popolana di chiamare le cose per nome, ma anche la capacità propriamente poetica di inventare il nome, e dunque la cosa: Padania per tutti.
“Un capopopolo è mosso da paure e speranze che provengono dalle masse che gli stanno alle spalle”. (Eric Ambler, “La frontiera proibita”)
La trota, ecco il punto. Forse davvero più importanti di tutto sono “le parole sognate dai pesci”, come dice Davide Van de Sfross. Se la metà del genio è un fattore linguistico, allora quello di Umberto Bossi è genio autentico. Non solo la sua capacità popolana di chiamare le cose per nome, ma anche la capacità propriamente poetica di inventare il nome, e dunque la cosa: Padania per tutti. La capacità di leggere politicamente la realtà ha la stessa natura: Bossi è davvero l'ultimo leninista. Così, al costo di una parola di cattiveria soverchia, ha liquidato il figlio Renzo: “Lui delfino? E' solo una trota”. Ha capito che era meglio sbranarlo come un conte Ugolino, appena ha “usmato” che il solo accostamento tra l'idea di leadership e quella di dinastia sarebbe stata dannosa per la causa, il movimento, la tribù. Bossi sa di avere scelto per sé il compito di sfamare un intero popolo, e per farlo deve mantenere in buona forma anche i suoi colonnelli. Ma non troppo pasciuti: mica per caso nella Lega sono resistiti solo quelli che non hanno mai messo in discussione la regola del servire il capo, la causa e il popolo. Però non si può neanche pretendere che i colonnelli vedano guizzare un delfino senza fiatare.
Tutta questa ittiologia politica per suggerire un punto di vista sul momentum attuale della Lega. Grande momento, addirittura storico, va riconosciuto: il federalismo fiscale portato finalmente a casa (ancora l'inventiva linguistica di Bossi: “In realtà è un po' complicato, ma la gente lo capisce. Capisce che i soldi non verranno più buttati via come prima”). Eppure si tratta di un risultato portato a casa in fretta, volutamente in fretta, pagando un costo superiore al previsto. Perché? L'impressione è che c'entri qualcosa la trota, che dopo un po' comincia a puzzare, anche se è pesce da laghée. Già una volta la Lega aveva pescato il pesce più grosso, la “devolution”, ma poi gli era sfuggito e dalla delusione aveva rischiato di morire. Ora è evidente che l'abilità tattica sia migliorata. E c'è anche tutta la questione – che ormai anche i più distratti hanno imparato a riconoscere – di un insediamento territoriale, sociale, amministrativo e politico ormai compiuto. La Lega è oggi un partito che sa raggiungere i suoi obiettivi.
Eppure, quello che Roberto Calderoli si appresta a raggiungere con i 22 articoli della sua bozza sul federalismo fiscale, approvata in prima lettura dal Consiglio dei ministri, è meno di quel che la Lega voleva, e che al governo del nord serviva. Lo hanno fatto capire con molta chiarezza Giancarlo Galan e Roberto Formigoni, sebbene comprensibilmente frenati dalla disciplina di coalizione. Calderoli ha ceduto sull'autonomia nel trattenere quote importanti del gettito fiscale; ha dovuto allentare sui tempi di attuazione – 24 mesi solo per varare i decreti attuativi e un tempo ancora da contrattare, ma prossimo alle calende greche per un nord ormai alla canna del gas fiscale – per il passaggio dal sistema di spesa storica a quello di spesa standard. Infine, o soprattutto, ha dovuto chinare la testa di fronte alle regioni a statuto speciale (cosa del resto ampiamente prevista), lasciando così intatta quell'immagine di un'Italia di figli e figliastri che è da sempre uno dei più odiati spauracchi del popolo leghista. Qualcuno ha addirittura parlato di un “federalismo ad personam”, nella persona di Raffaele Lombardo”.
E allora, anche senza essere Formigoni o Galan, chiunque abbia un'idea minima della realtà sociale, economica e culturale del nord – il famoso federalismo dei fatti, o la secessione morbida, come la chiama Aldo Bonomi – può fiutare odore di pastrocchio. E allora si torna alla trota, da mangiare prima che puzzi. E all'ampolla, e al gran fiuto bossiano nel mettere insieme il tremontismo protezionista e la paura xenofoba, il nuovo culto dell'ordine ma anche il popolarismo (alla festa del Pd di Firenze, Bossi ha elogiato “le belle bandiere”, e ha preso più applausi di Bersani). Bossi aveva bisogno di un successo d'immagine per sfamare il suo popolo, e anche i suoi colonnelli. Ormai, molto a un suo modo, è diventato un vecchio leader saggio. Sa che i suoi colonnelli più fedeli possono essere ansiosi, anche più degli elettori. Quindi ha deciso che è il momento di pescare il più possibile. E sta vincendo: nel governo, nelle riforme, nei sondaggi. E' anche possibile che, tra amministrative ed europee, finisca per vincere ancora di più nei confronti di nemici (e amici) impantanati, è nella logica dei fatti. Ma spiacerebbe che il conto delle trote fresche per sfamare i suoi, popolo e colonnelli, la Lega finisca per farlo pagare non più a Roma ladrona, non allo spreco statalista, bensì proprio alle regioni del nord e al loro bisogno di cambiamento. Alla famosa Padania. Avremo il federalismo, ma alla fine a vincere potrebbe essere solo la Lega. Con in più il paradosso di aver trasformato il sogno secessionista nel nuovo collante al paese reale: il “paese federale”.
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