L'analisi di Lodovico Festa

Egemonia bossiana

Lodovico Festa

Ho ammirazione per Umberto Bossi. Inventarsi una forza politica come ha fatto lui negli anni Ottanta senza soldi, grandi sostegni, protezioni nei media, è un'impresa gigantesca. Degna del cervello di una di quelle personalità balzane ma pragmatiche in cui ti imbatti nella Lombardia subalpina. Capaci di inventarsi dal niente un'impresina che riempie di frigoriferi il mondo.

    Ho ammirazione per Umberto Bossi. Inventarsi una forza politica come ha fatto lui negli anni Ottanta senza soldi, grandi sostegni, protezioni nei media, è un'impresa gigantesca. Degna del cervello di una di quelle personalità balzane ma pragmatiche in cui ti imbatti nella Lombardia subalpina. Capaci di inventarsi dal niente un'impresina che riempie di frigoriferi il mondo. O anche un partito profondamente legato al territorio. Con la caratteristica non solo di durare, più delle forze di protesta nate nel resto dell'Europa occidentale, ma anche di essere decisiva nel gioco politico nazionale. Guidare una forza con reali radici popolari senza dubbio dà energie, bisogna poi, però, avere talento per crescere di statura politica, uscire dal ghetto della protesta e acquisire le necessarie abilità per diventare un protagonista dello scenario nazionale.

    Questo è il percorso di Bossi che lo ha trasformato da personaggio folkloristico in politico dalla rara capacità, anche manovriera. E in amministratore sapientissimo della propria tribù. Che sa come quel comunello nella bergamasca sia anche più importante per lui della grande Milano come si è visto nel caso di Marco Formentini, snobbato e scaricato. Certo perché era un fannullone ma anche perché rappresentava una realtà non integrabile (almeno al momento) nel sistema egemonico bossiano. D'altra parte non era assimilabile neanche la ben più piccola – ma sempre troppo cosmopolitica – Pavia, altra città il cui pur bravo sindaco leghista, Rodolfo Jannaccone Pazzi, fu lasciato andare alla deriva. La capacità bossiana di calcolare il passo sulla base della propria forza reale è notevole. La vanità può spingere il politico imprudente a tentare salti in avanti che poi si trasformano in catastrofi. Bossi invece ha amministrato sempre le proprie risorse come il più occhiuto amministratore di un'impresina: mai un tentativo che non fosse ben coperto dalla “forza” reale.

    Se si considera come sono state tagliate le penne di tante star leghiste – dai cofondatori messi rapidamente in soffitta, a Formentini, a Raimondo Fassa sindaco di Varese, ad Alessandro Cè, a Giancarlo Pagliarini, a tutti i vari leader della “fusa” Liga veneta, a centinaia di altri “emergenti” – si potrebbe avere dubbi sulla saggezza del capo leghista. Dall'esterno la scelta di disperdere esperienze consolidate che soprattutto nella prima fase leghista non erano così abbondanti, può apparire poco lungimirante. Ma il metodo scientifico di Bossi con cui ha difeso capacità di comando e perfetta possibilità di manovra politica non solo del suo partito ma della “sua gente”, ha riconfermato alla grande la vecchia teoria lenin-staliniana secondo la quale un partito epurandosi si rafforza. Nella forma una tribù, nella sostanza un movimento con carica similrivoluzionaria più che riformista, negli esiti una componente capace di riformismo (con il Roberto Maroni ministro del Welfare, con Roberto Castelli ministro della Giustizia tra il 2001 e il 2006, oggi innanzi tutto con Roberto Calderoli) nella compagine di centrodestra. Non è una chimica semplice quella che tiene insieme il leghismo: l'organizzazione con l'identità con la pratica di governo.

    E non ha affrontato sfide semplici: nel 1994 resistendo all'egemonismo berlusconiano, nel 1995 partecipando al pateracchio diniano, nel 1996 correndo da sola, e infine ricostituendo, grazie a Giulio Tremonti, l'asse con Forza Italia. Quando oggi si esaminano le mosse tattiche leghiste, le aperture ai Ds, le sgridate a Mariastella Gelmini, i tanti distinguo, oltre al merito degli argomenti (e naturalmente dell' “argomento degli argomenti” per i leghisti cioè il federalismo), bisogna riflettere bene sullo stato del mix che abbiamo esaminato prima (organizzazione-identità-pratica di governo), come ciascuna componente si intrecci con le altre. Non si è di fronte alla fisiologia di una normale forza politica che ha obiettivi e rappresenta interessi, che ospita ambizioni e risponde a un elettorato, bensì a un più complicato movimento.

    Prendiamo un argomento che viene molto discusso in questi giorni: l'obiettivo di acquisire la presidenza di più regioni del nord possibili. In quest'ottica viene letta la polemica contro la Gelmini possibile concorrente di un futuro presidente Roberto Castelli. La prima considerazione da fare è che comunque nella coscienza bossiana la presenza leghista nel governo Berlusconi, certo anche per portare a casa una riforma federalista ma anche, ad esempio, per imprimere un indirizzo sicuritario, è stata considerata più importante della conquista della presidenza della Lombardia, una pera matura che avrebbero potuto facilmente conquistare anche con l'aiuto di Roberto Formigoni.

    Né può sfuggire come in Veneto, Umberto Bossi più che scegliere un cavallo per puntar alla sostituzione di Giancarlo Galan, preferisca far correre più concorrenti, da Luca Tosi sindaco di Verona a Luca Zaia oggi ministro dell'Agricoltura. Chi sostiene che al fondo vi sia la preoccupazione bossiana che un Veneto a un leghista forte sarebbe troppo autonomo dai lombardi o che un leghista al Pirellone diverrebbe un inevitabile alter ego del leader, ha proprio tutti i torti?
    Nell'analisi delle dinamiche leghiste contano molti fattori, tra questi la ampia simbiosi tra elettorato leghista e del Pdl su obiettivi fondamentali (antifiscalismo, ricerca di sicurezza, antisindacatocrazia). In generale, però, mettersi a fare troppe previsioni sui movimenti leghisti ha qualcosa in comune con le previsioni sul tempo. Fino a un certo punto è scienza, oltre diventa scaramanzia. In certi casi si deve navigare a vista.