Wall street soviet
E adesso, cosa diranno i “mercatisti”, di fronte al più massiccio intervento pubblico dall'epoca della Grande Depressione? Ammetteranno che lo Stato ha salvato il mercato da se stesso? Willem Buiter, professore di politica economica alla London School of Economics ed ex economista capo della Ebrd (la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo), anticipa sul Financial Times “la fine del capitalismo americano così come l'abbiamo conosciuto”.
“La concezione secondo cui le grandi sventure sono opera di grossi occulti avventurieri è in voga nella nostra era. Nessuno fu responsabile del grande crollo di Wall Street. Nessuno manovrò la speculazione che lo precedette. Entrambi furono il prodotto della libera scelta e della libera decisione di migliaia di individui. Questi non furono condotti al macello. Vi furono spinti dalla latente follia che ha sempre travolto la gente presa dall'idea di poter diventare ricchissima”
John Kenneth Galbraith, “Il grande crollo”
E adesso, cosa diranno i “mercatisti”, di fronte al più massiccio intervento pubblico dall'epoca della Grande Depressione? Ammetteranno che lo Stato ha salvato il mercato da se stesso? Willem Buiter, professore di politica economica alla London School of Economics ed ex economista capo della Ebrd (la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo), anticipa sul Financial Times “la fine del capitalismo americano così come l'abbiamo conosciuto” e aggiunge: “Stiamo passando dalla finanziarizzazione dell'economia alla socializzazione della finanza”. Nouriel Roubini, scrive su RGE monitor, il suo blog di successo: “Benvenuti negli Stati Uniti socialisti d'America, USA deve cambiare in USSRA, United Socialist State Republic of America”. E' molto più di una caustica battuta: il colosso assicurativo AIG diventa pubblico, Fannie Mae e Freddie Mac (le due società di credito immobiliare) vengono nazionalizzate, la Federal Reserve utilizza i quattrini dei contribuenti e ripesca banche d'affari; abbandonando la sua storica indipendenza, si mette al servizio del Tesoro. Il governo vuol creare un'agenzia per ripulire banche e società finanziarie dai prestiti inesigibili (come fece Alberto Beneduce con l'Iri delle origini), più un'assicurazione destinata a chi investe in fondi, che fa pendant con la garanzia dei depositi bancari. Il costo del mega-salvataggio può arrivare fino a mille miliardi di dollari. Anche se, scrive l'Economist, un fallimento costerebbe molto di più, il debito pubblico Usa rischia di salire al 98 per cento del prodotto lordo e il disavanzo al 7 per cento (secondo le allarmanti stime di Guido Tabellini sul Sole 24 ore). Dunque, chi canta (o lamenta) il crollo del paradigma che ha guidato l'economia mondiale negli ultimi trent'anni, non ha tutti i torti.
Hyman Minsky, invece, non si sarebbe stupito né scandalizzato. La crisi era già tutta lì, spiegata nelle pagine dei suoi libri: dinamiche, tempi persino. I pochi che li hanno rispolverati dagli scaffali dove riposano i keynesiani radicali (e lui era forse ancor più radicale che keynesiano) possono vantare di aver visto in anticipo la tempesta. Quando morì il 24 ottobre 1996 all'età di 77 anni, una manciata di riviste specializzate pubblicò il suo necrologio. Adesso, il New Yorker lo celebra come un profeta, sia pur disarmato. Hanno dato il Nobel non a lui, ma a Robert Merton, padre spirituale di quelle diavolerie chiamate derivati, per la formula con la quale ha creato l'illusione di “un portafoglio virtualmente privo di rischi”. Amaro destino. Minsky aveva studiato prima a Chicago poi a Harvard con Joseph Alois Schumpeter e Wassily Leontief, i maggiori teorici del ciclo economico. Espansione e recessione si alternano fin da quando esiste il capitalismo (e anche prima) con una certa periodicità. Ma diventano molto più irregolari se, invece delle merci, si scambia moneta, soprattutto quella moderna, fatta di debiti, impegni a pagare, scommesse sul futuro. La finanza è cronicamente instabile: da questo assunto keynesiano, Minsky ha calcolato come la liquidità inserita nel sistema mette in moto una vera e propria corsa all'oro. Arriva un punto in cui il meccanismo non funziona più e l'euforia si trasforma in panico.
Rintanato nella sua università di St. Louis nel Missouri, l'economista ha costruito un modello teorico in base al quale si può capire quando il ciclo raggiunge quello che in gergo si chiama “il momento Minsky” e la curva cambia direzione. Roubini, aveva visto arrivare il “momento” già nella primavera del 2007. E aveva scritto che la bolla immobiliare stava per sgonfiarsi. Se con uno scoppio improvviso o più lentamente, dipende dai comportamenti dei protagonisti tra i quali i governi che non sono attori esterni, né agiscono soltanto da deus ex machina. Ma fanno parte integrante del sistema capitalistico così come si è storicamente strutturato dagli anni Trenta in poi.
Radical e leftist qual era, Minsky non si è mai baloccato con teorie esoteriche quali la caduta tendenziale del saggio di profitto o visioni escatologiche come la fine del capitalismo. Sapendo che il capitale è in continuo mutamento, una vera rivoluzione permanente, ora avrebbe osservato morire la vecchia Wall Street, per capire la nuova che emerge dalle macerie. Sarà più debole e più magra, sostengono già molti analisti. E avrà nuove regine di danari. La caduta delle banche d'investimento, antiche principesse della Borsa, consumate dall'arroganza, non lascia un vuoto, ma apre la porta a potenti matrone: le banche commerciali. Salomon Brothers protagonista dei ruggenti anni Ottanta, è finita in Citigroup già nel 1998, nel marzo scorso Bear Stearns è passata a JPMorgan con il sostegno del Tesoro e della Fed, Merrill Lynch diventerà una filiale di Bank of America, Lehman viene venduta a pezzi come una vittima sacrificale azteca le cui membra servivano da mezzo di scambio al posto del denaro. La britannica Barclays, che ha rifiutato il salvataggio, si prenderà il corpaccione americano. Morgan Stanley sta trattando con la China Investment Corporation. Goldman Sachs vorrebbe alzare la bandiera dell'indipendenza, ma rischia la fine di Fort Alamo.
La crisi non è catastrofe, è trasformazione. Nel 1999, Bob Rubin e Alan Greenspan abolirono la legge bancaria, nata dal Glass-Steagall Act del 1933. Reduci dai crac in Asia, Russia e America Latina, gonfi e tronfi per la bolla tecnologica che aveva fatto girare la testa alle Borse mondiali, e vaneggiare fiori di professoroni sulla New Economy (virtuale), il ministro del Tesoro di Bill Clinton e il maestro (parola di Bob Woodward) alla guida della Banca centrale, sostenevano che non c'era più bisogno di mantenere una distinzione tra banca commerciale e banca d'investimento. Le vecchie paratie stagne dovevano cadere, anche sul piano della vigilanza. Todos caballeros. E tutti cercarono di fare tutto: prestiti, assicurazioni, compravendita di azioni, emissione di nuovi e sempre più sofisticati titoli. Ma il crollo di Salomon Brothers e la frenetica concentrazione bancaria, mostrarono ben presto quanto è difficile per una boutique diventare un supermercato. Per questo, serve avere accesso a un bene concreto, reale, come il risparmio. Sia chiaro, anche le banche di deposito possono crollare se si lanciano in operazioni spericolate e fuori bilancio. Ma non sono castelli di carta costruiti solo per scambiare pezzi di carta. Ken Lewis, presidente e amministratore delegato di Bank of America, l'aveva previsto sette anni fa, non appena arrivato alla guida dell'istituto californiano erede della Banca d'America e d'Italia di Amadeo Giannini. E, subito dopo aver acquistato Merrill Lynch, non ha dimenticato di farlo presente a tutti, in una conferenza dal suo nuovo quartier generale, in pieno centro di Manhattan.
Un trend inevitabile? Forse. Ma le guerre vengono decise da una serie di fattori, il più imponderabile dei quali è il fattore umano. John Thain, il big boss di Merrill Lynch, si è salvato perché ha lasciato cadere ogni freno inibitorio. Sabato scorso, durante il summit alla Federal Reserve Bank di New York, non ha esitato ad avvicinare Lewis invitandolo a “prendere un caffè insieme”. Dopo meno di un'ora gli aveva venduto la sua vecchia e acciaccata banca. Al contrario, Richard Fuld si è illuso fino all'ultimo che Lehman avrebbe superato da sola anche questa bufera, come le tante degli ultimi trent'anni. Il Gorilla, come lo chiama Bruce Wasserstein, il patron di Lazard, ha rifiutato un mese fa l'offerta di sei miliardi di dollari in cambio del 25 per cento delle azioni, presentata dalla Korea Development Bank (controllata dal governo di Seul). Supponenza e orgoglio, lo hanno accecato.
Se prevale il modello al quale crede Lewis, allora la finanza americana sarà più simile a quella Svizzera, dove tutto si può acquistare in pochi giganteschi ipermercati della moneta.
Il Wall Street Journal, che non ama il bancocentrismo europeo, ipotizza che lo spazio (in termini di affari rischiosi e innovazione finanziaria) lasciato dalle banche d'investimento, possa essere in parte colmato da altri soggetti esterni ai mastodonti commerciali. Per esempio gli equity funds. Alcuni di loro (Apollo Management, Blackstone Group, Kohlberg Kravis Roberts & Co, tanto per fare nomi) sono ormai potenze globali capaci di operare in ogni segmento finanziario, anche nel brokeraggio (KKR per esempio ha già la licenza). Quindi vedremo all'opera una concorrenza tra soggetti diversi, come taglia e come specializzazione operativa.
C'è già chi scorge all'orizzonte nuove capitali, in omaggio al modello di relazioni internazionali multicentrico che piace a Fareed Zakaria. Londra sarebbe pronta al sorpasso, per non parlare delle emergenti piazze asiatiche e mediorientali: Singapore, Shangai, Dubai. La prima ipotesi può diventare realistica solo se la valanga risparmierà la City (ma sta accadendo esattamente il contrario), negli altri casi siamo all'ennesimo film hollywoodiano. La crisi non è isolabile come l'incendio della sterpaglia. In Italia temiamo per l'impatto sulle nostre grandi banche (Unicredit e Intesa) o sulle Generali. I francesi tremano per Dexia, Axa o Bnp (con ricaduta italiana perché possiede Bnl). In Giappone Aoxora è l'impresa finanziaria più esposta nei confronti di Lehman.
Ma è nei guai anche la Cina, che ha partecipato alla grande al festino di questi anni. L'ambizione delle banche o dei fondi sovrani controllati dal regime di Pechino, pronti a entrare nei santuari occidentali, rivela la voglia di trasformare al più presto un serio rischio economico in una opportunità politica.
Il ciclo lungo della finanziarizzazione è cominciato con la rivoluzione monetarista, alla fine degli anni Settanta. Al suo interno si sono succeduti numerosi cicli brevi. L'ultimo, quello che stiamo vivendo in questi giorni, risale al 2003 quando Greenspan ridusse i tassi di interesse all'un per cento e un flusso senza precedenti di moneta speculativa arrivò proprio dalla Cina diventata il principale acquirente di titoli del tesoro americano. Un costo del denaro sceso a zero, e una liquidità che pioveva dal cielo come fosse manna, hanno gonfiato i valori degli immobili e alimentato una corsa ai mutui. In quelle condizioni, come ormai sappiamo bene, sembrava senza rischi persino dare una casa a chi non avrebbe mai potuto pagarla né restituire il prestito. E i Fed funds garantivano un rifugio sicuro. Oggi, anche la banca centrale cinese deve contare le perdite.
Attenti, dunque, alla maledizione di Gresham: badiamo bene, meglio di quel che non è stato fatto finora, che la moneta cattiva (quella delle banche d'investimento), non scacci quella buona (i risparmi). Ma il mondo avrà sempre bisogno di prestiti, di strumenti finanziari, di veicoli per scambiare merci in tempi diversi e nei punti più lontani del globo. I futures, non sono una diabolica invenzione del “turbocapitalismo”, ma vennero introdotti nel XVI secolo dagli olandesi per commerciare le aringhe. “La domanda di servizi finanziari resterà alta”, scrive Jeremy Siegel docente alla Warthon School della Università di Pennsylvania. Se anche per le banche vale la regola aurea di qualsiasi industria, quella domanda richiede un'offerta.
La pensava così anche Minsky. Peccato che non abbia potuto vedere alla prova dei fatti la sua teoria, esposta per la prima volta all'Università di Berkley durante un seminario della Bank of America. Un paradosso della storia: forse è stato proprio quell'eccentrico professore di sinistra a ispirare la strategia della banca californiana che adesso sta facendo razzia a Wall Street. Alto, con capelli ricci sempre arruffati e abiti mai davvero stirati, Minsky viene descritto dallo storico Charles Kindleberger che gli è intellettualmente debitore, come un uomo “cupo e pessimista, incline a dipingere il diavolo peggiore di quel che non fosse”. Uno dei suoi teoremi chiave sostiene che quanto più lungo diventa il periodo di vacche grasse, tanto più magre saranno le vacche nel periodo successivo. In altri termini, una prolungata espansione, con forte sviluppo, bassa inflazione, aumento costante dei redditi e della ricchezza, spinge ad assumere rischi al di sopra di ogni ragionevole livello. Come se la bonanza non dovesse mai finire. Le cartolarizzazioni creano un effetto cornucopia, ma la moneta senza limiti non esiste nel mondo reale. Si genera solo uno schema Ponzi dagli esiti catastrofici. Ai governi e alle banche centrali spetta il compito di predisporre “un sistema di regole e interventi per far sì che l'economia operi entro limiti ragionevoli”.
“In una economia capitalista – scriveva Minsky nel '92, esponendo in sintesi la propria teoria – il passato, il presente e il futuro sono legati non soltanto dal comportamento del capitale e del lavoro, ma anche dalle relazioni finanziarie. Una grande complessità istituzionale risulta dai diversi strati di intermediazione tra l'ultimo possessore della ricchezza della comunità e le unità che controllano e utilizzano questa ricchezza”. Quel che ha cambiato in modo sostanziale il funzionamento del sistema, rendendolo ancor più complicato, è “il maggior coinvolgimento dei governi come agenti per il rifinanziamento sia delle istituzioni finanziarie sia delle comuni imprese. In particolare, la più grande partecipazione degli stati nazionali nell'assicurare che la finanza non degeneri come nel periodo 1929-1933, significa che la vulnerabilità dei flussi aggregati di profitto verso il basso è stata molto ridotta”. Insomma, altro che fine del capitalismo o repubblica socialista americana. “Le economie evolvono, e con esse le politiche economiche”, ricordava sempre Minsky. Il profitto è la molla che muove il ciclo economico. Il Tesoro e la Banca centrale agiscono per stabilizzare il sistema, secondo le caratteristiche e i dettami del mercato regolato nel quale viviamo. Ci riusciranno? Con quali costi? Queste sono le vere domande che rimettono la politica al primo posto.
Hank Paulson e Ben Bernanke stanno pedalando in tandem. Ma fino a ieri l'amministrazione americana aveva seguito un approccio caso per caso, scrive il Wall Street Journal, spegnendo l'incendio là dove scoppiava. Adesso tenta una operazione sistematica che coinvolge il Congresso e ipoteca il futuro. Il fondo di salvataggio, che ha come precedente la Resolution Trust Corporation che comprò e rivendette proprietà immobiliari dalle Savings & Loans (le casse di risparmio locali) fallite nel 1989, è un'idea rilanciata da Paul Volcker, l'ex governatore della Fed autore nel 1979 della svolta che sconfisse l'iperinflazione. Ma nessuno si illude che gli interventi di emergenza siano finiti. Il Financial Times è disposto ad accettarli, purché si stabilisca “una exit strategy nel lungo termine”. Il Wall Street Journal suggerisce una ricetta alternativa: un forte stimolo fiscale alla crescita (insomma un sostanzioso taglio alle imposte). Dettando l'agenda per il nuovo presidente. Ma questa è un'altra storia, la storia della prossima battaglia, non più solo di mercato.
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