Le nazionalizzazioni capitaliste

Stefano Feltri

"Quando la tua casa brucia, non ti lasci coinvolgere in lunghi dibattiti su quale sia il modo migliore per spegnere il fuoco. Istintivamente usi qualunque cosa ci sia a portata di mano che possa garantire un rapido successo”.

    "Quando la tua casa brucia, non ti lasci coinvolgere in lunghi dibattiti su quale sia il modo migliore per spegnere il fuoco. Istintivamente usi qualunque cosa ci sia a portata di mano che possa garantire un rapido successo”. E' il 1932, da tre anni la Borsa è crollata e gli Stati Uniti sono nel pieno della grande depressione. Henry B. Steagall, presidente della commissione Banca e moneta del Congresso americano, spiega perché in tempi straordinari servono politiche straordinarie.
    Ben Bernanke, l'attuale presidente della Federal Reserve, ha dedicato la sua lunga carriera accademica (a Princeton) allo studio della crisi del Ventinove e soprattutto agli errori che l'hanno determinata. E quello che ha imparato lo sta applicando in questi giorni, per guidare l'America fuori da un'altra crisi, quella innescata dai mutui subprime e dal crollo del mercato immobiliare.

    Ancora una voltà, Bernanke si è trovato a scegliere. Il più grande gruppo assicurativo al mondo, l'American International Group, aveva ventiquattr'ore di vita, perché nessuno sui mercati si fidava più di prestargli denaro. Bernanke doveva decidere: o lasciar fallire, nel nome del libero mercato, un'impresa ramificata in cento paesi che paga la pensione a dieci milioni di americani e garantisce un'enorme quantità di titoli nei fondi di investimento; oppure organizzare un salvataggio, anche con i soldi dei contribuenti (cioè a spese dello stato), nel caso in cui non fossero trovati partner privati disposti all'impresa. Nel primo caso sarebbe stato un efficace segnale a tutto il sistema finanziario: osservate cosa succede a chi investe i premi pagati dai clienti sulla finanza speculativa, evitate di farlo o anche voi subirete lo stesso destino. Nel secondo caso il messaggio è inverso: salvare la stabilità del sistema finanziario è più importante che punire qualche centinaio di manager (e qualche milione di azionisti) per le loro imprudenze, garantendo loro una certa impunità. Bernanke ha scelto la seconda strategia, con un prestito ponte da 85 miliardi di dollari che salva Aig trasferendo il rischio del suo fallimento sul contribuente americano.

    E' consapevole delle critiche che gli economisti più liberisti possono fargli: incentivare il moral hazard, l'azzardo morale. Il concetto l'hanno inventato proprio le assicurazioni: chi si assicura contro l'incendio dimenticherà più facilmente di comprare un estintore, chi sa che verrà salvato dalla banca centrale sarà meno cauto nella scelta dei propri investimenti. “Nel caso di Aig la scelta era tra il rischio di favorire l'azzardo morale e la fine del mondo – spiega al Foglio Francesco Giavazzi – La cosa importante è che abbiano dato una lezione agli azionisti”, salvando l'impresa ma penalizzando chi aveva tratto profitto dalla gestione che ha portato al disastro. In tanti hanno letto il fallimento di Lehman Brothers, lunedì, in questa chiave. Il governo ha salvato i giganti dei mutui Fannie Mae e Freddie Mac per evitare il collasso del mercato immobiliare, ma si è rifiutato di scaricare sul bilancio pubblico il costo della sopravvivenza della quarta banca d'affari di Wall Street. L'ha abbandonata al suo destino perché fosse chiaro a tutti che la protezione governativa c'è solo per le imprese con una funzione sociale. Lehman è stata sacrificata al libero mercato, l'amministratore Richard Fuld punito per la sua lunga serie di errori. Che serva da monito a Goldman Sachs e Morgan Stanley (che per ora non soffrono troppo, ma già cercano di rafforzarsi) e a tutte le altre. La Fed ha anche lasciato invariati i tassi al due per cento, per evitare che il messaggio – così chiaro – del fallimento di Lehman venisse diluito da un taglio del costo del denaro che, per definizione, va a beneficio di tutti, le imprese virtuose e quelle che virtuose non sono.

    C'è anche un'altra differenza con Fannie Mae e Freddie Mac. Lo spregiudicato Richard Fuld aveva creato ricchezza solo per i suoi azionisti e per i dipendenti pieni di stock options, che hanno beneficiato a lungo della corsa del titolo in Borsa, alimentata da quegli investimenti a rischio che ora hanno causato la crisi. Fannie e Freddie, invece, sono due agenzie che sostengono il mercato immobiliare americano comprando e assicurando mutui concessi dalle banche, con una funzione sociale che il segretario al Tesoro Henry Paulson ha giudicato irrinunciabile. In decenni di attività le due agenzie sono diventate un centro di corruzione, hanno originato una delle lobby più potenti al Congresso, hanno messo fuori mercato i concorrenti che non potevano competere con chi aveva alle spalle la garanzia (fino a dieci giorni fa solo implicita) dello stato. Però F&F hanno contribuito a quel boom immobiliare alimentato dal credito facile che ha fatto salire in dieci anni dal 65,7 al 68,9 la percentuale di americani proprietari di una casa, con gli aumenti maggiori tra i giovani, i neri, gli ispanici, in generale le categorie a basso reddito. E' il miraggio della ownership society, la società dove ciascuno è proprietario di una casa. Tutti gli americani hanno beneficiato della ricchezza creata da questa nuova ondata di proprietari che sosteneva il settore delle costruzioni, garantiva rendimenti alle banche, usava l'abitazione come garanzia per ottenere nuovi prestiti e aumentare i consumi, facendo correre il pil anche negli anni difficili dopo l'undici settembre. E così oggi tutti gli americani pagano e pagheranno il costo (tuttora imprecisato, ma nell'ordine di centinaia di miliardi) della nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac.

    Ma non tutti hanno l'equilibrio e la prontezza di Bernanke e Paulson nel valutare cosa salvare e cosa abbandonare. Al contrario di quanto diceva Steagall, nel 1929 il governo di Washington decise di restare nella casa e guardarla bruciare, spargendo anche un po' di benzina. Andrew Mellon, il segretario al Tesoro di allora, dovendo scegliere tra l'azzardo morale e il panico da bancarotta scelse il panico, e la Fed lo seguì. Nel 1928 la Fed alza i tassi di interesse perché è convinta che la liquidità sui mercati venga utilizzata per scopi “speculativi” e non “produttivi”. Una stretta che contribuisce all'ondata di fallimenti bancari che segue il crac della Borsa l'anno successivo. La Fed decide di sposare le tesi “liquidazioniste” di Mellon che la crisi è un'utile occasione per fare pulizia nel settore bancario, eliminando i deboli e lasciando ai forti lo spazio che meritano. Sono queste, secondo Milton Friedman (e Bernanke è d'accordo con lui) le premesse del peggiore decennio economico della storia americana.

    La regola che chi sbaglia paga deve avere le sue eccezioni. Lo sosteneva, inascoltato, John Maynard Keynes alla conferenza di Versailles nel 1919, quando le potenze vincitrici della Prima guerra mondiale volevano scaricare tutti i costi del conflitto sulla Germania. Un “falò generale” può anche essere auspicabile, scrive Keynes in “Le conseguenze economiche della pace” (Adelphi), ma a meno che non ci sia modo di controllarlo, il rischio è che cresca fino a “una conflagrazione che distruggerà molte altre cose” oltre a quelle che si volevano colpire. Certo, salvare la Germania avrebbe significato creare il rischio che gli altri stati pensassero di poter scatenare una guerra senza pagarne il prezzo. Ma bocciare l'equivalente diplomatico di una nazionalizzazione (costi a carico dei contribuenti invece che del soggetto che li ha generati) ha consegnato i tedeschi prima all'inflazione, poi a Hitler. Anche gli Stati Uniti, sostiene Robert J. Shiller in “The subprime solution” (Princeton University Press, a breve in Italia), hanno pagato costi sociali oltre che economici per aver scelto il mercato a ogni costo invece dell'intervento pubblico a sostegno dell'economia dopo il Ventinove (bisognerà aspettare il New Deal di Roosevelt). Gli anni Trenta sono stati il “decennio rosso”, le disillusioni sul capitalismo hanno fatto nascere in molti americani simpatie comuniste, l'umiliazione del crollo finanziario ha ridotto i consumi e l'autostima, con le gonne che si allungano e i tabù abbandonati al tempo della prosperità che ritornano.

    Anche nell'America d'oggi, dove l'illusione dello sviluppo fondato sulla casa è crollata insieme alle banche che l'avevano alimentata con i prestiti facili, bisogna rassegnarsi a qualche nazionalizzazione per evitare il peggio. “Bailout” è una parola che sulla maggior parte dei dizionari non c'è, ma da qualche mese è in tutte le conversazioni che contano. Significa salvataggio a spese del contribuente. Soluzione che a Shiller non piace, ma è l'unica per resistere abbastanza da preparare nuove regole per evitare la prossima crisi. Per le riforme serve tempo, per evitare il tracollo immediato serve denaro pubblico.

    Ora lo ha capito anche la Gran Bretagna. Nell'estate di un anno fa, quando la crisi dei subprime esplodeva sui listini di tutto il mondo, il governo appena insediato di Gordon Brown fece la cosa peggiore. Invece che cercare di spegnere il fuoco nella casa che bruciava si mise a discutere sul modo migliore per farlo. Quando Northern Rock, banca specializzata in mutui, si è trovata a corto di liquidi e con le file dei risparmiatori agli sportelli, il governo sulle prime ha perduto tempo e ha lasciato che si dissanguasse. Si è trovata una soluzione ibrida, che solo a febbraio 2008 si è trasformata in una vera nazionalizzazione da 25 miliardi di sterline. In quei giorni cruciali, quando una banca per molti versi sana crollava perché non poteva restituire a tutti i risparmi depositati, l'incertezza del governo ha trasformato, come dicono gli economisti, una crisi di liquidità in una crisi di insolvenza. Come un'appendicite non curata in tempo che diventa mortale.
    La zona sotto la giurisdizione della Banca centrale europea non ha ancora dovuto confrontarsi con il problema della nazionalizzazione. La Bce, per statuto, non può intervenire a sostegno delle imprese in difficoltà, come fa la Fed, perché il suo unico obiettivo è la lotta all'inflazione. “Se una banca dell'area euro non ha garanzie adeguate per ottenere liquidità dalla Bce, e rischia di non poter fare i pagamenti necessari per rimborsare i debiti, le regole sono chiare. Quella banca non può ricevere liquidità dalla Bce”, così scrive Lorenzo Bini Smaghi, membro dal 2005 del Comitato esecutivo della Bce, autore del libro “Il paradosso dell'euro” appena uscito con Rizzoli.

    In caso di crisi, la banca può però rivolgersi alla Banca centrale del proprio paese per un prestito di emergenza, che però deve comunque essere autorizzato dalla Bce. Soluzioni locali a problemi globali, come sono tutti quelli legati alla finanza. L'equilibrio non può reggere. Mario Draghi, governatore della Banca d'Italia, auspica una redistribuzione dei poteri in materia di supervisione bancaria. Finora non c'è stato bisogno di nazionalizzare nulla in Eurolandia. E tutti pregano che non succeda. Perché gli strumenti per reagire non ci sono. Forse il nuovo ruolo della Banca europea degli investimenti, auspicato da Giulio Tremonti potrebbe riempire questo vuoto. Anche se è difficile dire se gli italiani si accollerebbero volentieri il costo del salvataggio di una banca spagnola, o i tedeschi quello di un'assicurazione francese.