La parola scritta
Il pane quotidiano
Diventerebbe impossibile, guardando un film americano, capire cosa sia quella cosa lanciata sulla soglia di casa di buon mattino da un fattorino in bicicletta o in camioncino. Diventerebbe impossibile praticare quell'utilissimo esercizio consistente nel fare tra sé e sé congetture socio-psico-etologiche, in metropolitana, alla fermata del bus o in treno, sul vicino che sfoglia il suo quotidiano.
Diventerebbe impossibile, guardando un film americano, capire cosa sia quella cosa lanciata sulla soglia di casa di buon mattino da un fattorino in bicicletta o in camioncino. Diventerebbe impossibile praticare quell'utilissimo esercizio consistente nel fare tra sé e sé congetture socio-psico-etologiche, in metropolitana, alla fermata del bus o in treno, sul vicino che sfoglia il suo quotidiano. E naturalmente diventerebbe impossibile essere oggetto della stessa fondamentale operazione cognitiva, di accettare di buon grado di venir “interpretati” grazie al giornale che leggiamo. Per questo e per molte altre ragioni, sarebbe la fine del mondo, se davvero i giornali di carta sparissero, se la vittoria ormai consolidata del web, del televideo e dei canali all news significasse, una volta per tutte, l'azzeramento totale e senza appello del quotidiano fatto di carta e di inchiostro. Per chiarezza: stiamo parlando di un quotidiano vero, non della free press piatta piatta e uguale per tutti, raccattata per automatismo e stancamente masticata in tre minuti tre.
C'è stato un tempo in cui il giornale, che venisse esibito in tutta la sua largheggiante ampiezza o (molto meglio) spuntasse piegato, falsamente discreto, dalla tasca posteriore dei pantaloni, da quella del giaccone o del loden o da una borsa femminile, il giornale, dicevamo, era parte integrante dell'identità di una persona. Un chiaro e consapevole segnale di fumo, molto più che un semplice indizio su “ciò che siamo, ciò che vogliamo e ciò che non vogliamo affatto”. “Con l'incoscienza dentro al basso ventre e alcuni audaci in tasca l'Unità…”, cantava Guccini in “Eskimo”. Era il tempo in cui il Manifesto, la testata lasciata con nonchalance in evidenza, serviva a dichiarare che si era molto di sinistra e tuttavia riflessivi, nonché inclini alle buone letture e alle scelte cinematografiche spiazzanti e snob. Che tutto questo fosse vero o no, sia ben chiaro, non aveva alcuna importanza. La cosa fondamentale era che il giornale (la sua semplice esibizione) serviva a farlo credere, a parlare a suocera perché tutte le nuore intendessero.
Era anche il tempo in cui Lotta continua – riconoscibilissimo grazie a quel rosso che non si prestava a equivoci, anche quando la carta appariva febbrilmente accartocciata per via dell'intensità della vita del suo lettore-possessore – suggeriva militanze dure e tendenzialmente pure, o magari vagamente confuse e poi sempre più spesso declinanti verso il privato-che-è-politico. Per ogni giornale di parte (di partito o di gruppo, di destra o di sinistra) valevano analoghe esegesi fulminanti, a disposizione di chi avesse avuto occhi per vedere, e che a volte potevano sortire effetti collaterali francamente spiacevoli. Non si girava in certi quartieri con il Secolo d'Italia in evidenza, e più tardi con il Giornale, senza rischiare le botte. Viceversa, poteva essere considerato provocatorio e altrettanto azzardato, squadernare l'Unità o addirittura l'Avanti in certe piazze o ai tavolini di certi caffè. Ma – grazie al cielo molto più spesso – il giornale serviva semplicemente a dire che si era informati, attenti alle cose del mondo. Civilizzati.
Molto inchiostro è passato sotto le rotative da quei tempi che mai oseremmo definire beati. Ora, ed è una fortuna, l'esercizio del newspaper-watching non presenta più controindicazioni per chi non abbia lo scatto del centometrista. Ma siamo anche tutti più disincantati, più abulici, e compriamo tutti meno giornali. Per questo, se sull'autobus si incontrano due lettori dello stesso quotidiano, pare di veder materializzata tra i due una corrente di simpatia, oseremmo dire di solidarietà carbonara, e ci aspettiamo che facciano cin cin con le loro copie stropicciate. Sono, e forse si sentono, come gli appartenenti a tribù in via di estinzione, gli ultimi possessori dei segreti di un dialetto sempre più esoterico e quindi sempre più prezioso.
Non è per il gusto dell'archeologia, e nemmeno per quel genere di passatismo che fa guardare con tenerezza a certi marchingegni ottocenteschi fatti di pistoni e di rotelle dentate, che pensiamo ai giornali di carta e inchiostro come a un'opera lirica. C'entra piuttosto un modo di essere di chi sfoglia il quotidiano invece di cliccarlo, un modo d'essere che sarebbe orribile veder sparire. Insieme con quelle fantastiche discussioni in famiglia tra chi legge il giornale squinternandolo e chi lo vorrebbe a sera ancora perfettamente compatto, come appena comprato. E' una dignitosa variabile alla querelle su come spremere il tubetto di dentifricio. Non sarebbe bello rinunciarci.
Il Foglio sportivo - in corpore sano