Il fondo e i fondi
Durante una crisi profonda non è semplice assumere posizioni pubbliche. Sbarellano giganti come Dominique Strauss-Kahn, direttore del Fondo monetario, che annuncia in una fase di panico che la situazione è peggiore del '29, figurarsi che cosa combinano commentatori con minori responsabilità.
Durante una crisi profonda non è semplice assumere posizioni pubbliche. Sbarellano giganti come Dominique Strauss-Kahn, direttore del Fondo monetario, che annuncia in una fase di panico che la situazione è peggiore del '29, figurarsi che cosa combinano commentatori con minori responsabilità. In Italia quello che ha fatto la maggiore figuraccia è Francesco Giavazzi che in una delle tante svolte della crisi finanziaria è arrivato a dire: guardate gli Stati Uniti come hanno messo a posto ogni cosa in quattro e quattrotto. La sacrosanta difesa dei principi del mercato diventa così, per arroganza, tragicomica. Mentre da Innocenzo Cipoletta ce lo si aspetta, è un peccato invece che un economista del valore di Guido Tabellini si sia infognato nell'infruttuoso gioco “ha più colpe la politica o il mercato”. Non è un caso che gli economisti che dicono le cose più sensate siano quelli con esperienza politica e più solide inquadrature storiche. I nostri foglianti: il fantastico Francesco Forte e i due eroici diaristi Giovanni Tria e Ernesto Felli. Ma anche uno come Siniscalco ha evitato forzature. E in qualche misura Mario Deaglio. Alberto Quadrio Curzio dimostra che quando si arriva alle fasi critiche, quando non bastano gli schemini per interpretare la realtà, la scuola della Cattolica è superiore alle istituzioni di ricerca centrate sul business.
Dalle parti del Foglio si è antielitisti e dunque il richiamo dell'opinionista conservatore David Brooks a fare i conti con l'establishment è visto con sospetto. Eppure la riflessione sui limiti dei banchieri che sono passati da una forte cultura umanistica, che consentiva di considerare le cose del mondo con respiro storico, a una tutta centrata sugli algoritmi mi pare convincente. Vi sono tanti ottimi operatori e studiosi economici in Italia e nel mondo. Che, spesso, però hanno una funzione da idraulici, far funzionare bene i flussi quando sono attivi. Su questa loro funzione sono in grado di dare lezione a tutti. Però quando c'è da costruire o ricostruire un sistema, quella cultura appare parziale. E diventa urgente trovare qualche architetto per ricostruire. Dotato anche di una fondamentale cultura umanistica. Le défaillance non mancano anche da parte dei politici. Anche il governo dovrebbe essere più disponibile alla discussione pubblica e con spirito aperto all'altezza della drammaticità della crisi.
Però il record delle sciocchezze mi pare spetti a Veltroni, che, invece di concentrarsi sulle scelte da fare, si sbraccia sulle colpe della cultura reaganiana. Poveri eredi del Pci che si sforzavano di interpretare lo spirito della storia e adesso si trovano alla coda delle esigenze di carriera di uno sbandato. Ragionare di “colpe” in questa situazione non è sbagliato, è ridicolo. E' evidente come lo scenario con cui ci troviamo a fare i conti è quello determinato dalla globalizzazione costruita negli anni '90, reso possibile anche grazie alla forzatura della finanziarizzazione dell'economia che ha consentito l'operazione. Poi ci sono gli errori degli uomini che hanno concretamente governato questa operazione. Ma lo scenario generale resta quello. In questo senso anche i ragionamenti dell'assai acuto Tremonti finiscono per essere fragili: bisognava ritardare, governare di più e così via. Al fondo il ministro ha una grossissima ragione: nelle vicende umane non contano solo le logiche astratte ma il governo politico delle “vicende”, che non deve (anche se può) andare contro il mercato ma che non può (e quindi non deve) essere risolto solo dal mercato.
Detto questo, c'è poi la storia concreta: che cosa si voleva dopo la fine della guerra fredda? Una Cina trasformata in un enorme Chávez? Un Brasile sulla linea del Venezuela? Discutere astrattamente sul fatto che si dovesse ritardare la globalizzazione è come dire che sarebbe stato meglio scoprire l'America qualche anno dopo o prima. Le osservazioni tremontiane rifulgono di una straordinaria saggezza rispetto a quelle di certi fondamentalisti del mercato che dicono come l'unico problema sia quello di far arrivare il mercato al suo fondo perché dopo si potrà ripartire. C'è il piccolo problema che i mercati, tra quando arrivano al loro fondo e ripartono, possono “combinare” alcuni problemi alla politica, come far decollare fenomeni come il nazismo, provocare guerre mondiali e far finire metà dell'umanità sotto il controllo di regimi illiberali.
Non mancano sciocchezze neppure su un altro tema: le carenze dell'Europa. Anche una persona per bene come Bersani non si sottrae dall'accusare il centrodestra per avere boicottato l'Europa che ora si rileva fattore essenziale per (tentare di) governare la crisi. Non è il momento delle polemiche, però è evidente come il problema dell'Unione europea non sia solo quello di affidarsi alle pur eccellenti tecnocrazie o di invocare il decisivo “spirito comunitario”, certamente da preservare ma non proprio irresistibile. Il centro della questione è costruire quel “rapporto politico” tra le nazioni fondamentali dell'Unione che è mancato in questi anni. Forse anche grazie a una dissennata e non fondata visione federalista priva di adeguate basi concrete. Non sono un esperto, so però che quando arriva una crisi della portata attuale la prima cosa da fare è un rigoroso esame (e autoesame) di buon senso.
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