La Cgil come il Pd
Tempi difficili per la nostra economia. Serviranno articolati interventi sociali e per lo sviluppo. E la sfida della produttività, malamente affrontata nell'ultimo quindicennio, diventerà ancora più urgente. Il tessuto di medie aziende che ha fatto miracoli in questi anni ha bisogno di una sferzata produttivistica che trovi una base nell'organizzazione del lavoro e quindi nelle relazioni industriali.
Tempi difficili per la nostra economia. Serviranno articolati interventi sociali e per lo sviluppo. E la sfida della produttività, malamente affrontata nell'ultimo quindicennio, diventerà ancora più urgente. Il tessuto di medie aziende che ha fatto miracoli in questi anni ha bisogno di una sferzata produttivistica che trovi una base nell'organizzazione del lavoro e quindi nelle relazioni industriali. L'orientamento della Cgil di considerare secondaria e da rimandare la riforma della contrattazione mirata a dare centralità ad accordi aziendali che leghino incrementi di reddito a quelli di produttività, contrapponendovi l'esigenza di discutere magari di tariffe, dà la misura di un'organizzazione allo sbando, che abdica al ruolo sindacale per aspirare, velleitariamente perché isolata anche dal Pd, a divenire soggetto parapolitico.
Il problema “Cgil” non consiste solo di orientamenti sbagliati ma di un vero e proprio stordimento. In parte simmetrico a quello del Partito democratico. Walter Veltroni che vuol salvare l'Italia “da e con” Silvio Berlusconi, è analogo a Guglielmo Epifani che considera “la trattativa esaurita ma non si alza dal tavolo”. Un vecchio amico paragona la coppia Epifani-Veltroni a quella Alessandro Natta-Antonio Pizzinato, ugualmente espressione di uno sbandamento profondo di Cgil e Pci a metà degli anni Ottanta dopo la morte di Enrico Berlinguer e dopo la sconfitta sulla scala mobile.
La differenza sta nel fatto che Natta aveva preparato una pessima successione, quella di Achille Occhetto (che certo cambiò il nome del Pci costretto dalla storia ma lo fece senza quello sbocco socialdemocratico che solo avrebbe dato stabilità all'Italia) mentre oggi gli eredi possibili di Veltroni (Enrico Letta, Pierluigi Bersani, Sergio Chiamparino) sono migliori di lui. La Cgil, invece, negli anni Ottanta aveva personalità carismatiche di riserva, da Bruno Trentin a Sergio Cofferati, mentre ora appare priva di figure sufficientemente autorevoli per gestire le difficoltà incombenti. Verrebbe da suggerire una mossa da vecchio Pci quando dopo la morte di Giuseppe Di Vittorio mandò in Cgil quel geniale politico e sindacalista che fu Agostino Novella. Magari si potesse in questi giorni inviare in Corso d'Italia uno come Cesare Damiano. L'attuale impasse della Cgil ha effetti più gravi di quelli prodotti dal pur groggy partito veltroniano. Non solo perché a badare alla politica c'è una solida maggioranza di governo ma anche perché forze diffuse della “sinistra” lavorano per dare coesione alla società al di là del malandato quartiere generale “democratico”: da sindaci e governatori di sinistra a banchieri già ulivisti, a larga parte degli imprenditori “liberal”, a una fetta crescente di opinionisti di sinistra.
Mentre le clamorose incertezze della Cgil non solo producono tensioni ma aiutano a coalizzare nuclei di resistenza conservatrice, obbligano ad esempio la Cisl per motivi di concorrenza a irrigidire le posizioni nel pubblico impiego, giocano di sponda persino con ambienti confindustriali che temono il cambiamento. C'è in questo senso una pattuglia in viale dell'Astronomia che resiste a eventuali accordi separati. Ha la testa a Torino nel responsabile delle relazioni industriali del Lingotto, Paolo Rebaudengo e in altri uomini Fiat come Giuseppe Gherzi, direttore di Unindustria di Torino e Roberto Santarelli, direttore di Federmeccanica. Si esprime in queste posizioni una cultura delle relazioni industriali concentrata sullo scambiare potere sindacale centralistico con salari mediocri. E una qualche “resistenza” la si avverte, poi, anche in quadri del “sistema” come Lorenzo Maggio, direttore dell'Associazione di Vicenza, nostalgici di un potere che era tale in quanto riflesso di quello della Cgil. Sono impostazioni che possono far danni anche se nel medio periodo non vanno da nessuna parte. Le contesta di fatto lo stesso Sergio Marchionne che indirizza la trattativa sull'integrativo Fiat puntando su soluzioni meritocratiche (qualità e fatica) piuttosto che cedere a spinte egualitaristiche.
Il 10 ottobre Confindustria, Cisl e Uil hanno trovato un'intesa ampia sulla riforma della contrattazione, combinando una previsione dell'inflazione su parametri statistici europei (depurati da alcuni elementi di inflazione importata) con una centralità della contrattazione aziendale (forse un po' rigida ma si tratta di aprire un processo che poi si autodeterminerà) e una compensazione per chi non tratta gli integrativi. Hanno, poi, dato ancora un po' di tempo a Epifani, partendo anche dalla considerazione che il leader cigiellino pare essere ormai in grado di “firmare” solo di fronte al baratro. Si è acconsentito così alla richiesta (quasi da Bertoldo che rimanda l'impiccagione chiedendo di scegliere l'albero) di allargare per un breve periodo il tavolo della trattativa.
Da un certo punto di vista questa è un'ulteriore scelta cigiellina masochistica come lo fu dare spazio ai sindacati professionali dei piloti nella vicenda Alitalia, logorando il ruolo delle confederazioni generali. Le associazioni di artigiani, commercianti e altre chiamate al tavolo infatti sono più rigide di Confindustria. Ma concedere qualcosa sui tempi alla Cgil, pur di avere un consenso più ampio, è una scelta opportuna. Purché nessuno scambi questo atteggiamento con la disponibilità a lasciare a Epifani un potere di veto. Il tempo dei veti è finito. Il segretario della Cgil rifletta bene sulle parole di Alberto Bombassei che a lungo ha invitato anche i suoi alla prudenza, e che ora ha spiegato come non si possa più decidere di non decidere.
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