Lib lib Krugman
Ciliegina sulla torta, il Nobel a Paul Krugman. I soldatini della Reale accademia svedese delle scienze sanno come decorare il dolce. Ma stavolta non è Dario Fo, non è una farsa di premio a un saltimbanco dal talento militante e ideologicamente grottesco.
Ciliegina sulla torta, il Nobel a Paul Krugman. I soldatini della Reale accademia svedese delle scienze sanno come decorare il dolce. Ma stavolta non è Dario Fo, non è una farsa di premio a un saltimbanco dal talento militante e ideologicamente grottesco. Stavolta il contagiato dall'atro morbo di Stoccolma è quell'economista di Princeton e columnist del New York Times che da molti anni scrive sempre in modo più brillante di noi il contrario di quel che pensiamo noi, piccoli servi della libertà di mercato (pagati per un terzo dallo stato). E adesso, con la crisi globale della finanza, con Bush e Cheney nel ruolo di prede dell'opinione pubblica mondiale, con il circolo harvardiano di Barack Obama a un passo dalla Casa Bianca e il populismo radical-conservatore della Right Nation ridisceso nella caverna del risentimento che anima le popolazioni più selvagge della frontiera, dall'Arizona all'Alaska; ecco, adesso, sottolineato adesso, questa bella faccia intelligente da rabbino dell'establishment sembrerebbe proprio avere la storia e la ragione, strane e capricciose bestie, un bel po' dalla sua parte.
I piani più spinti di parziale nazionalizzazione delle banche sono farina del suo sacco. E l'archivio delle sue rubriche di commento economico e politico sono il big stick, il grosso bastone nelle mani del potere che avanza e che ha bisogno di schiacciare Bush e il passato sotto il peso definitivo, capitale, di argomenti in apparenza poderosi e autorevoli. (Krugman è sicuramente una delle letture intelligenti del professor Tremonti). Parlano e scrivono già nuovi servi e nuovi cretini, pronti a sostituire i vecchi pundit liberisti e monetaristi oggi bolliti, speriamo con la stessa loro radicalità unita a dubbiosa grazia, nella postazione di comando delle idee correnti. Per adesso i Ruffolo e i Rampini inanellano platitudes sull'economista che difendeva l'economia reale, rifiutava la finanza creativa di Wall Street, si batteva fieramente contro la guerra e per un governo democratico della globalizzazione capace di salvare dalla distruzione non più creatrice del vecchio liberismo sfrenato e assassino i poveri, il mondo e soprattutto la coscienza dei liberal.
Eppure il pamphlet “La coscienza di un liberal” (in italiano da Laterza), che è la vera motivazione del premio, al di là degli studi sulla geografia del commercio nel mondo globale e altri algoritmi, è un libro interessante. Bisogna leggerlo per capire la stagione che avanza, così come il viaggio tocquevilliano di John Miklethwait e Adrian Wooldridge (in italiano da Mondadori) servì per interpretare la possente e lunga stagione social-conservatrice, da Goldwater a Reagan ai Bush. La verità dinoi liberisti assassini è che la finanza impazzita, nata nell'era clintoniana e bipartisan della bolla della new economy, del denaro facile e della deregolamentazione spinta dei mercati, è il prodotto di un'utopia socialglobalista: tutti ricchi e tutti proprietari nella sterminata classe media. Invece l'economia reale dell'era supply side, dove è stata sostenuta dai tagli fiscali, ha retto e ha prodotto la ricchezza produttiva e tecnologica immensa che il mondo oggi non sa dove mettere per eccesso di sfiducia. E per quel tratto ciclico dell'economia di mercato, ansiosa di un periodo di recessione come il corpo umano di un periodo di riposo (lo ha scritto il magico professor Forte, su questo giornale). Ma gli americani dicono che ciascuno ha diritto alle proprie opinioni, non ai fatti. Perciò, con i fatti che corrono, noi meritiamo oggi un posto d'osservazione dietro la lavagna, mentre a Krugman tocca il peso del Nobel. Auguri.
Il Foglio sportivo - in corpore sano