Crisi&calcio
Wall Street ora va al massimo, ma l'uragano ha già messo nei guai il calcio
Bisogna cominciare da Londra. White Hart Lane, casa del Tottenham. La crisi finanziaria mondiale s'incrocia con il pallone internazionale come la North Stand interseca la East stand. Dritto, preciso, frontale. Si parte dalla classifica per capire: due punti in sette partite.
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Bisogna cominciare da Londra. White Hart Lane, casa del Tottenham. La crisi finanziaria mondiale s'incrocia con il pallone internazionale come la North Stand interseca la East stand. Dritto, preciso, frontale. Si parte dalla classifica per capire: due punti in sette partite, ultima, come non succedeva dal 1932, sola come non succedeva dall'anno prima ancora. Meno due dalla penultima, meno quattro dalla salvezza. Una catastrofe sportiva che è tecnica o non solo: è questione di soldi, cioè quelli che mancano dalle casse di questa squadra londinese che una volta era considerata una cassaforte milionaria. I denari se li è mangiati tutti Bear Stearns, perché nelle perdite multimiliardarie della banca di investimenti americana aveva investito molto un signore che di nome fa Joe Lewis, di mestiere è il proprietario della Enic, cioè la società che ha la maggioranza del Tottenham. Vuol dire che il 17 marzo scorso, il giorno del crollo della BS, gli Spurs hanno visto cadere i sogni di creare una squadra che potesse competere con i nemici storici di Chelsea e Arsenal. Novecento milioni di dollari, per qualcuno un miliardo. In pochi giorni, Lewis ha visto bruciare praticamente la metà del suo patrimonio personale che Forbes aveva stimato l'anno scorso in due miliardi e 500 mila dollari. Che ha fatto? Ha cominciato a smantellare gli investimenti più difficili da gestire.
Il Tottenham non era il primo della lista, ma era nei primi cinque: l'inizio della sua fine è arrivato quest'estate, quando per fare cassa il club ha messo in vendita il bulgaro Berbatov. Liquidità, quello serviva. Sterline e obiettivi limitati: Coppa Uefa niente, sarà per la prossima volta; Champions manco a parlarne, ci mancherebbe. Salvezza, ecco. Quindi poteva anche non servire un attaccante da venti gol e da trenta milioni di euro. L'hanno messo sul mercato e ovviamente qualcuno se l'è preso: il Manchester United, che all'epoca manco sapeva che cosa gli potesse capitare. Cioè il fallimento sfiorato di AIG, il suo sponsor, la sua prima fonte di sostegno diretto e immediato. Perché i diritti tv li pagano a rate con pianificazioni pluriennali, mentre la sponsorizzazione sulla maglia è un assegno che arriva subito: è pubblicità perenne per chi vuole il suo nome, il suo marchio, il suo logo sulla divisa. Allora paga. AIG ha versato quest'anno, poi ha promesso anche tanti altri soldi per quelli futuri. Certo. A maggio non c'erano rischi, poi sì. Come l'hanno chiamata oggi l'assicurazione più grande del mondo? Gigante dai piedi d'argilla è stata la definizione più frequente e ovviamente la più banale. Eppure a Manchester hanno capito alla perfezione che i 56,5 milioni di sterline firmati da AIG per quattro anni sono tutt'altro che sicuri. Gli hanno permesso di prendere Berbatov, ma ora sono così incerti da creare un bubbone psicologico che i Red Devils sono poco abituati a sopportare.
La classifica racconta per la prima volta da decenni una squadra che deve guardare con gli occhi verso l'alto se vuole trovare il nome dei rivali di sempre, il Manchester City. Fatica lo United e fatica anche perché Nike perde a Wall Street e se perderà ancora ha fatto capire che potrebbe decidere di lasciar cadere il contratto di sponsorizzazione tecnica del Manchester. Potrebbe accadere anche per l'Arsenal, un'altra vittima del fuoco amico della crisi economica. Secondo la Uefa, i Gunners hanno 343 milioni di euro di debiti, che sono la metà dei 772 dei Red Devils, ma sono tanti comunque. Così tanti che tre giorni fa l'organizzazione calcistica europea l'ha minacciata: “Possiamo far fuori dai tornei europei i club che hanno situazioni finanziarie inaccettabili”. Significa che rischiano tutte e tre le inglesi che contano. “Sarebbero previste forme di comunicazioni, sotto forma di avvertimenti, prima di passare all'ultima sanzione, l'esclusione, ma è un provvedimento assolutamente plausibile. Gli investitori nel mondo del calcio sono i benvenuti, ma vogliamo che abbiano radici più solide e questo è un tentativo di trovare maggiore stabilità. Molti nuovi proprietari o investitori non fanno regali ai club. In molti casi il denaro che versano è sotto forma di prestiti”.
L'Uefa se ne fotte dei piccoli, però soffrono anche loro. Soffrono tutti. Il calcio inglese non riesce a contenere i costi: solo gli ingaggi sono aumentati del 12 per cento in un anno. E' il caos e qualcuno comincia a credere che il crac sia vicino. Lord Triesman è il presidente della Football Association e ha fatto capire che il calcio britannico avrebbe bisogno di più controllo politico. Una specie di nazionalizzazione. Possibile? Se l'hanno fatto con le banche, figuriamoci con il pallone. Barclays barcolla e crea allarme: ha sponsorizzato tutto il campionato e se va gambe all'aria fa cadere tutto il sistema. Tutti i club quotati a Londra, poi, vanno giù: nelle ultime settimane hanno perso tra il sette e il dieci per cento. Triesman se la prende con lo sbarco in Premiership di troppi proprietari stranieri, che stanno sostenendo investimenti enormi ma nel frattempo contribuiscono alla crescita incontrollata dei debiti. Se i numeri sono quelli che ha dato l'Uefa, il presidente della FA non sbaglia di molto. Il problema è che lui sa che senza gli stranieri la Premier sarebbe un campionato di livello infinitamente più basso. Non se ne esce. E non ne escono proprio le squadre con meno appeal. Prendi il West Ham di Gianfranco Zola, ovvero il club più inguaiato di tutti: il presidente Bjorgolfur Gudmundsson è uno dei principali azionisti della banca Landsbanki, la seconda per importanza in Islanda. La banca si sta sciogliendo e Gudmundsson non ha aspettato neanche un giorno per raccontare che la prima vittima sarà la squadra: non ci sono soldi da spendere sul mercato e a confermarlo è stato il vicepresidente Asgeir Fridgeirsson. Il West Ham non è in vendita, ma le garanzie date a Zola sulle future campagne acquisti non sono al passo coi tempi. Anche perché gli Hammers hanno perso pure lo sponsor. Sfortunati, perché questo non c'entra con i subprime e con Wall Street: sulle maglie c'era il logo XL, cioè la compagnia low cost britannica fallita meno di un mese fa. Aveva garantito 10 milioni di sterline in tre anni. Soldi fantasma, adesso. Spettri di assegni e bonifici che non arriveranno più, che non arriveranno mai.
Dici l'Inghilterra. D'accordo. Però il giro d'Europa del pallone racconta che la crisi è un virus che entra ovunque. Persino l'Ascoli ha fatto capire che non può pagare gli stipendi ai suoi giocatori di B. La connessione non è chiarissima, bisogna fidarsi della parola dei dirigenti marchigiani. E diciamo che uno si possa anche fidare, non per buonafede, per carità, ma per una specie di proprietà transitiva: non va in Inghilterra, può non andare anche nella serie B italiana, anche perché non va neanche in Spagna. Sei squadre della Liga lanciano allarmi: nessuno spende un centesimo per sponsorizzarle. Sono Racing di Santander, Almeria, Betis, Deportivo La Coruña, Malaga e Maiorca. Hanno tutte le magliette immacolate, mentre il Valencia un mese fa ha denunciato pubblicamente “Valencia Experience”, perché non gli aveva pagato i 6 milioni di euro previsti nel contratto firmato a maggio. Sponsor, allora. Poi i mattoni. Anzi prima i mattoni: nel caos internazionale la Spagna soffre la crisi immobiliare più grossa della sua storia. Il pallone la segue, perché i palazzinari spagnoli hanno succhiato quote su quote delle loro squadre preferite. El Pais, El Mundo, Marca, El Mundo Deportivo, ogni giorno raccontano di un padrone del futbol che vorrebbero vendere a qualche riccastro straniero. Non inglese, ovviamente. Nemmeno americano. Il modello per tutti è il City, acquistato dai fondi arabi dello sceicco Mansour bin Zayed al Nahyan. La Spagna si chiede se è possibile lo sbarco degli emiri e soprattutto se è giusto. Il Racing Santander e l'Alaves sono state le prime squadre a finire in mano a investitori stranieri. Con la crisi, il tentativo più simile allo sbarco degli Emirati arabi in Gran Bretagna è stato però paradossalmente quello di Paul Davidson, l'imprenditore britannico specializzato nella vendita di oleodotti ai paesi arabi, atterrato nella baia di Palma di Maiorca. Piterman è arrivato sulle ceneri provocate dal crollo del mattone, che ha presentato il conto a giganti del settore immobiliare come Astroc, Colonial, Llanera e Habitat, ma anche a medie imprese di ambito regionale, fra le quali la maiorchina Drac.
L'anno scorso il suo proprietario, Vicente Grande, ha dichiarato un buco che era una voragine: 600 milioni di euro. Il Maiorca ci è andato di mezzo praticamente senza neanche accorgersene: nel gruppo di Grande ci sono 14 società e una di questa è Binipuntirò, la società titolare del 93 per cento delle azioni del Maiorca Futbal Club. Il risultato? Un futuro fatto di incertezza, con una società in amministrazione giudiziaria. Ma Davidson, che è riuscito a precedere nell'offerta, stimata in 40 milioni di euro, il proprietario di Red Bull, un investitore russo e vari fondi di investimento arabi, secondo i bene informati starebbe aspettando che si esauriscano i termini previsti dal concorso di creditori per proclamarsi proprietario ufficiale del Maiorca. E ha già pronta una holding di produttori di tubi in PVC, di cui la squadra di calcio sarà il principale veicolo di promozione. Ai vertici delle grandi società, che gestiscono le principali squadre della Liga, assicurano però che il modello inglese, con gli stranieri che arrivano e prendono tutto, non è importabile. La ragione? La vicinanza e l'identificazione con il club, che sono valori pretesi dalla gran parte dei presidenti delle società. Detto in altro modo, non si immagina un presidente del Bilbao che non parli basco o uno del Barcellona che non sappia difendere la catalanità della frase “mes que un club” (più di un club). Però tutti sanno che senza i nuovi ricchi, la Spagna sta esattamente come l'Inghilterra e gli altri. Male. Si gioca lo stesso, ovvio. Ma forse ci si diverte di meno.
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