L'ex senatore è morto ieri a 98 anni
Un grande snob
Quando un uomo desidera vendicarsi del fascismo che lo ha sbattuto in galera a venticinque anni, e di una vita di minoranza, anche se spesa in certi bei conformismi ideologici e con qualche omaggio allo stalinismo, è allora che deve vivere novantotto anni sorridenti, come ha fatto Vittorio Foa.
Quando un uomo desidera vendicarsi del fascismo che lo ha sbattuto in galera a venticinque anni, e di una vita di minoranza, anche se spesa in certi bei conformismi ideologici e con qualche omaggio allo stalinismo, è allora che deve vivere novantotto anni sorridenti, come ha fatto Vittorio Foa, e sposarsi beneaugurante per tutti a novantacinque con la amata Sesa, e deve lasciarsi tranquillamente monumentalizzare come padre nobile della sinistra senza che questo gli costi niente, perché tanto lui è sempre lì che ragiona, miniaturizza le idee sue e quelle dei suoi amici, innova, taglia e cuce nella sartoria sociologica del marxismo moderno e postmoderno, e alla pomposità dell'ambiente politico minore che lo circonda risponde con la risorsa molto torinese e molto ebraica dello snobismo, dei calzoni troppo corti alle caviglie, del disinteresse totale, delle migliori qualità di un uomo la cui eredità è ovviamente discutibile (sarebbe lui il primo a riconoscerlo ex post, è stato lui il primo a dirlo, in vita).
Vittorio Foa è stato sempre un combattente e un ideologo, un uomo innamorato del problema del lavoro, della sua costituzione e retribuzione, del suo potere nell'insieme della società. Le sue idee e posizioni politiche spesso risultarono erratiche o fin troppo convenzionali, fu un laico giellino di Giustizia e libertà, il partito di minoranza che odiava l'Italia alle vongole e fu ricambiato dall'indifferenza delle masse, ma senza quella capacità di secolarizzare la cultura politica marxista che lo avrebbe salvato dagli equivoci come avvenne ai Chiaromonte e agli altri di Tempo presente appena raccontati da Massimo Teodori in un bel libro. Foa pagò il suo tributo, come molti di noi, alle mille stupidità o ambiguità del secolo scorso, tra Psiup e Pdup e Dp, sindacato classista e Sessantotto studentesco. In tutto viveva un elemento giocoso, gratuito, e al tempo stesso serissimo, fatto di studio ed eloquenza pubblica perfino pedante, di giovanilismo e spirito di innovazione.
Fu provocatore solitario, andava con la corrente ma la corrente risaliva spesso il fiume abbondante del conformismo dei tempi, prima di trasformarsi in un nuovo insopportabile correttismo ideologico. Il suo contributo maggiore fu sociologico, la teoria del lavoro in trasformazione. Cose estranee, nel bene e nel male, alla prevalente cultura storicista della parte maggioritaria della sinistra italiana, comunista e socialista. Una sociologia innestata sul concetto di potere sindacale, potere consiliare di controllo sulle condizioni del lavoro, prima nella fabbrica meccanizzata e poi nella rete dei nuovi lavori dell'epoca cosiddetta postfordista. Poca politica vera, poco senso della storia come trama del dolore umano e del riscatto del potere nella sua funzione di servizio alla coesione della società e al progresso della cultura. Una leggera inclinazione all'anarchismo, trasmessa senza darsi troppa importanza ai suoi molti allievi. Non era un padre della sinistra né un padre della patria. Fu padre difficile, burbero e affettuoso di Renzo, Bettina e Anna che ebbe dall'indimenticabile Lisa Giua.
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