Festival internazionale del cinema

Al Pacino a Roma spiega il segreto per fare colpo sui registi alle audizioni

Mariarosa Mancuso

Roma. “Tropic Thunder” di Ben Stiller uscirà venerdì nelle sale italiane, ma già sembra la parodia – affettuosa e garbata, mentre con i bersagli originali gioca pesante – di Al Pacino che viene al Festival Internazionale del Cinema Roma per ritirare il Marc'Aurelio. Uno degli attori che nella giungla devono girare il film definitivo sul Vietnam si chiama appunto Alpa Chino. Nome d'arte preso – in onore di “Scarface” – da un attore nero che viene dall'hip hop, è diventato famoso rappando “I Love Tha' Pussy”, produce il beverone “Booty Sweat” (più o meno “sudore di piedi”) e la linea di abbigliamento “Alpa Chinos”.

    Roma. “Tropic Thunder” di Ben Stiller uscirà venerdì nelle sale italiane, ma già sembra la parodia – affettuosa e garbata, mentre con i bersagli originali gioca pesante – di Al Pacino che viene al Festival Internazionale del Cinema Roma per ritirare il Marc'Aurelio. Uno degli attori che nella giungla devono girare il film definitivo sul Vietnam si chiama appunto Alpa Chino. Nome d'arte preso – in onore di “Scarface” – da un attore nero che viene dall'hip hop, è diventato famoso rappando “I Love Tha' Pussy”, produce il beverone “Booty Sweat” (più o meno “sudore di piedi”) e la linea di abbigliamento “Alpa Chinos”. Il premio celebra l'attore di “Un pomeriggio di un giorno da cani”, di “Serpico”, di “Donnie Brasco”, del “Riccardo III”, del “Padrino”. E celebra anche l'Actor's Studio, gran laboratorio di attori per cui il Festival – da quando si chiamava ancora Festa, e sembrava guardare a un modello più popolare, meno ricalcato su altre manifestazioni vicine – ha sempre avuto un occhio di riguardo. Complici Antonio Monda e Mario Sesti, che ieri hanno condotto l'incontro pubblico con l'attore (biglietti esauriti poche ore dopo la messa in vendita).
    Tra gli attori che in “Tropic Thunder” si ritrovano nella giungla, senza sapere di stare in mezzo a una guerra vera, c'è un certo Kirk Lazarus. La perfetta caricatura dell'attore che segue il metodo Strasberg (dal nome di Lee Strasberg, che fu maestro di Al Pacino e recitò con lui in due film). Quello che durante le conferenze stampa dichiara serissimo: “Non sono io che leggo il copione. E' il copione che legge me”. Quello che, australiano biondo e con gli occhi azzurri, entra in sala operatoria per farsi tingere la pelle di nero, onde risultare credibile nella parte del sergente afroamericano Lincoln Osiris (certo che era più semplice scegliere un attore già di colore, ma Kirk Lazarus mica si ferma davanti a uno stupido dettaglio). Quando il resto del cast, stufo di sentirlo parlare con l'accento anche nelle pause, chiede “Ma tu non esci mai dalla parte?”, la risposta è: “Non prima di aver registrato i contenuti extra per il dvd.
    Abbiamo visto Kirk Lazarus confondersi con Al Pacino quando – durante la conferenza stampa – è arrivata puntuale la domanda: “Da quale dei suoi personaggi ha fatto più fatica a uscire?”. Risposta: “Mi capitava da giovane. Con l'età e con l'esperienza sparisce. Perché non restare intrappolati, è importante avere una vita fuori dal set. Capita anche il contrario: che un personaggio svanisca nel nulla. A me capitò con ‘Quel pomeriggio di un giorno da cani'. Mi richiamarono qualche tempo dopo la fine delle riprese per rifare una scena, e il personaggio non c'era più”.
    A 68 anni, Al Pacino sembra ormai più interessato al teatro che al cinema (con tutto il rispetto, l'ultimo ruolo in “Sfida senza regole”, accanto al quasi coetaneo Robert De Niro, è un catalogo di vezzi e birignao). L'ultimo amore si chiama “Salome”, vista a teatro e messa in scena per il gusto di capire come funziona esattamente il testo di Oscar Wilde già portato sullo schermo da Carmelo Bene, con la modella nera Donyale Luna nella danza dei sette veli. Alla fine dell'incontro pubblico, fuori tempo massimo per darne conto su questo giornale, saranno proiettate le prime scene di “Salomaybe?”: e se siamo nella scia del magnifico “Riccardo III” – in originale era intitolato “Looking for Richard”, e iniziava con un grande Al Pacino nella parte del re storpio, “modellato – come scrive Shakespeare, solo a metà” – promette molto bene. Ci sarà anche “Chinese Coffee”, diretto da Pacino nel 2000 (da una pièce di Ira Lewis recitata nei teatri off Broadway negli anni Novanta) e mai distribuito neppure negli Stati Uniti. Mostra due romanzieri di scarso successo alle prese con un manoscritto, e i brevi cenni sull'universo che nessun intellettuale in crisi si fa mancare mai. 
    A chi gli domanda: “Come si riesce a farsi notare da un regista durante un'audizione?”, Al Pacino risponde “Basta non presentarsi”. Poi si fa serio: “Imparate le battute”, questo è il segreto. Insiste sulla bellezza delle prove e sulla forza del repertorio, che obbliga a passaggi veloci da un personaggio all'altro (se la memoria si inceppa, come sanno i vecchi animali da palcoscenico, un monologo buono per tutte le occasioni consente di riprendere il filo). A chi gli chiede “cosa le piace di più del suo lavoro?” risponde alla maniera di Laurence Olivier: “Il drink dopo lo spettacolo”.