Stato della musica
Ci tocca rivalutare John Legend, l'Obama della musica nera, così narciso e pop
Abbozzando un consuntivo dell'annata musicale italiana non c'è da stare allegri: citiamo le due nordiche fiammate di Baustelle e Afterhours, cosi estetiche, nervose e composte, il disco della raggiunta classicità dell'ottimo Cesare Cremonini, una lieve imburrata di Jovanotti, la sortita di Zampaglione a Sanremo e la nascita di Marracash.
Abbozzando un consuntivo dell'annata musicale italiana non c'è da stare allegri: citiamo le due nordiche fiammate di Baustelle e Afterhours, cosi estetiche, nervose e composte, il disco della raggiunta classicità dell'ottimo Cesare Cremonini, una lieve imburrata di Jovanotti, la sortita di Zampaglione a Sanremo, la nascita di Marracash e – per quanto ci riguarda – un po' di assurdo rap romano, che ci commuove nella sua solitaria altezzosità, tra Metal Carter, Gente di Borgata e l'“Orataria” di Chef Ragoo. Poco d'altro, e data la nazione di eroi navigatori e 60 milioni di stornellatori, pochino davvero. Perciò conviene stare attenti a intercettare i minimi segnali, neppure fossimo appassionati studiosi del fragile mondo delle formiche.
Così, non appena ce ne accorgiamo, mettiamo su la canzone che hanno inciso insieme Luca Carboni e Riccardino Senigallia, che fa da traino del nuovo album del cantautore bolognese, in uscita a novembre con un titolo che incuriosisce: “Musiche Ribelli”. Prima di tutto è interessante che due dei migliori esponenti di due generazioni successive di musica italiana – peraltro di aree geografiche e culturali diverse – come Carboni e Senigallia abbiano trovato il modo per lavorare insieme. Poi è ancora più sorprendente annotare che l'abbiano fatto resuscitando la composizione più celebre d'un altro autore che appartiene a una generazione ancora precedente, l'oggi 58enne Claudio Lolli, bolognese anch'egli, emblema d'una scrittura poetica e impegnata che rappresenta uno dei prodotti più (fin troppo) celebrati dei nostri anni Settanta. La canzone è “Ho visto anche degli zingari felici”, title track di un album settantasettino che conobbe grande popolarità per come rifletteva l'atmosfera del momento, coi suoi pesanti turbamenti e le sue pericolose turbolenze. Carboni e Senigallia ne offrono una rilettura quieta, sussurrata, privata degli slanci emotivi d'allora, ma fascinosa e incantata, neppure che a riguardarli di lontano quei tempi e quegli stati d'animo appartengano più a un sogno placato che a un passato a cui ancora apparteniamo.
Purtroppo, con supremo scorno dello scrivente, tocca riaprire la rubrica dei pentimenti, dei giudizi rivisti, in sostanza del mea culpa. Ci siamo passati con Norah Jones e finché non abbiamo scritto l'outing amoroso, mica ci dormivamo. Adesso continuiamo a dormire decentemente, però abbiamo voglia di restituire a John Legend, quello che è di John Legend, sorvolando perfino sul cacchio di nome che s'è dato. E guardate che abbiamo resistito, abbiamo cercato prove a carico, ci siamo perfino spulciati su You Tube il video amatoriale della sua formidabile erezione su un palcoscenico mentre si strofina con una ballerina. Macché, dando per assodato che il personaggio non gronda simpatia e che è un fanatico narciso, va sancito che il nuovo disco del 30enne di Philadelphia è una perla rara. Il titolo è “Evolver” e dentro ci pascola il gotha della new wave della black music, a partire dal boss, Kanye West, ma poi anche André 3000 degli Outkast, la Estelle che ci ha musicato l'estate (“American Boy”, ricordate?), i Neptunes, Will.i.am, Brandy.
John Legend è l'Obama della pop music americana: fa tutto bene, gli riesce tutto a perfezione, sta dentro i limiti, però è cool da morire, non pone confini alle proprie potenzialità, è circondato dal consenso e in sostanza piace a chiunque e attira quasi chiunque lo ascolti nella sua orbita. Il videoclip, con la sua rappresentazione di composto edonismo fighetto (ben dentro al sistema, altro che i tempi di Straight Out of Compton …) – e con Andrè 3000 che incarna la rivisitazione XXI secolo di Kid Creole – compone un quadro strano, decadente ma in fondo attendibile di un'America d'oggi annegata nelle contraddizioni. Il resto dell'album è puro piacere musicale, fantasioso, divertente e fatuo, che ha il solo torto di descrivere un mondo che ci sembra già non ci sia più.
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