L'alleato naturale
La battaglia berlusconiana contro l'ideologia verde, che scandalizza l'Europa, ha un alleato naturale negli Stati Uniti. Quando il premier ha definito il presidente americano “un grande presidente”, forse pensava anche alla sua resistenza contro il protocollo di Kyoto. Cosa accadrà, però, dopo il 4 novembre? Ufficialmente, entrambi i candidati hanno inserito il clima nei loro programmi.
La battaglia berlusconiana contro l'ideologia verde, che scandalizza l'Europa, ha un alleato naturale negli Stati Uniti. Quando il premier ha definito il presidente americano “un grande presidente”, forse pensava anche alla sua resistenza contro il protocollo di Kyoto. Cosa accadrà, però, dopo il 4 novembre? Ufficialmente, entrambi i candidati hanno inserito il clima nei loro programmi. Bisogna, però, distinguere le reali intenzioni dalle promesse elettorali. La questione non è tanto sulle credenziali verdi di Barack Obama e John McCain, che sono indiscutibili, quanto sull'opportunità di appesantire l'economia del paese con impegni che, in un momento travagliato, non può sostenere.
Le dichiarazioni dei rispettivi guru, il repubblicano Douglas Holtz-Eakin e il democratico Dan Esty, sotto la scorza ecologista nascondono sonore note realiste. Holtz-Eakin, per esempio, ha messo le mani avanti dicendo che saprà far “digerire i grandi temi” al Congresso, mentre Esty ha prudentemente affermato che “il Congresso non intraprenderà alcuna azione senza la partecipazione di India e Cina”. Non è molto diverso da una excusatio non petita.
Nel giugno 2008, il Senato ha bocciato il pacchetto clima del leader democratico Harry Read e appoggiato da tutto lo stato maggiore del partito (McCain si disse favorevole, ma non si presentò al voto). Peraltro, sarebbe difficile comprendere la linea bushiana senza guardare ai fatti. Nei due mandati che si stanno concludendo, non sono mancate le politiche “ambientali” (a partire dal generoso, e criticatissimo, sostegno ai biocarburanti). Lo scontro tra Washington e Bruxelles era piuttosto sulla ratifica del protocollo di Kyoto, preventivamente respinto dal Senato, all'unanimità, nel 1997. E' su questo che la Casa Bianca si è impuntata, forte del sostegno del Congresso: anche perché, nel sistema giuridico americano, un trattato internazionale, una volta ratificato, ha forza di legge, e quindi può essere utilizzato nelle corti contro l'amministrazione. Nessun presidente, attuale o potenziale, accetta volentieri la corda con cui potrebbe essere impiccato.
Quindi, dove andrà l'America? Molto dipende, naturalmente, dall'esito delle presidenziali. Se prevarrà Obama, è probabile che crescerà l'enfasi sulle rinnovabili ma questo non significa necessariamente che sarà creato un apparato di “cap & trade” analogo a quello europeo, per ridurre le emissioni. Alcuni parlano della realizzazione di schemi “volontari”, che potrebbero magari veicolare qualche sussidio o la concessione di crediti d'imposta. Ma, naturalmente, tutto ciò è ben lontano dal sogno europeo di un trattato globale con target obbligatori (che è improbabile venga mai accettato negli Usa, anche perché dovrebbe comunque passare per le forche caudine del Senato).
Anche con McCain, sarà difficile costruire un mercato delle quote di emissione – al massimo si tratterà, come con Obama, di uno schema volontario. E' possibile, invece, che si ragioni attorno all'introduzione di una carbon tax (che non si chiamerà “tax”, parola tabù in campo repubblicano), uno strumento che non sarebbe sgradito al fronte conservatore purché sia “revenue neutral”, cioè in modo tale da utilizzarne il gettito per tagliare altre tasse. Occhio, però: si dice che le deleghe energetiche saranno passate al vicepresidente, Sarah Palin, nota per le sue posizioni ecologicamente scorrette.
Da chiunque vinca, poi, ci si aspettano aperture sull'estrazione di idrocarburi dal sottosuolo americano, cosa che evidentemente collide con la retorica ambientale. La politica americana potrebbe forse cambiare nei toni, ma difficilmente subirebbe profondi cambiamenti nelle sue direttrici. Il Cav. non deve, comunque, temere l'isolamento: l'America resta un paese pragmatico, con un forte senso delle priorità e l'orrore della recessione, a cui si aggiunge l'antipatia per gli organismi internazionali che ti danno il compito a casa e poi ti giudicano (e ti sanzionano). A Washington, come ad Arcore, di fronte ai problemi si dice: ghe pensi mi.
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