L'analisi di Lodovico Festa
La pancia di Milano (e non solo)
Quando in una società democratica centinaia di migliaia di persone protestano, vanno ascoltate. Ascoltare, però, non significa inseguire il disperato conservatorismo di rettori e studenti in lotta. E neanche affidarsi a un Walter Veltroni, che magari un po' consolidato dai cortei prenderà nel futuro qualche iniziativa ragionevole.
Quando in una società democratica centinaia di migliaia di persone protestano, vanno ascoltate. Ascoltare, però, non significa inseguire il disperato conservatorismo di rettori e studenti in lotta. E neanche affidarsi a un Walter Veltroni, che magari un po' consolidato dai cortei prenderà nel futuro qualche iniziativa ragionevole, ma è incapace oggi di indicare una rotta, perso come è tra hostess e Colaninno. In tempi drammatici ogni sbandamento prepara una catastrofe.
La tenuta dell'Italia richiede di contrastare il mix estremismo-corporativismo espresso dalla protesta scolastica-universitaria e che attrae fatalmente la maggioranza stordita della Cgil. Nonostante tutto, oggi è possibile limitare i danni dell'estremismo perché il corporativismo su cui si sorregge è isolato nell'opinione pubblica. Però incombe un rischio: la radicalizzazione di opinioni in sé non corporative o estremistiche ma che scartano di fronte ai processi concreti per trovare soluzioni. Gli incazzati come li chiama Giampaolo Pansa. Persone che contestano la prassi riformista. E quel laboratorio di veleni che è il prodismo vorrebbe, come spiega Edmondo Berselli sulla Repubblica, saldarli all'estremismo-corporativismo. Alla fine lo scontro sarà quello classico tra radicalismo e riformismo. Una lotta non solo tra maggioranza e opposizione ma anche all'interno dell'opposizione. E come sempre il cuore dello scontro tra radicalismo e riformismo sarà a Milano. Città di mercanti dal grande pragmatismo, però anche dalle ventate radicali non solo laiche ma religiose (dai patarini in poi) determinate innanzi tutto dal conflitto con Roma ma anche dalla difesa di puri interessi di bottega.
E' Milano con la borghesia ottocentesca e con il socialismo turatiano che fonda il riformismo italiano possibile. Ma è anche la più feroce nemica di Giovanni Giolitti e apre così le porte al “milanese” Benito Mussolini. E' il capoluogo lombardo che, per rispondere alla follia – cresciuta nella sua pancia – radicale manipulitistica (cambiare l'Italia con le manette) inventa il pragmatismo berlusconiano e trasforma il populismo radicale leghista in forza di governo. Ma è sotto la Madonnina che circolano i germi di un radicalismo sempre esplosivo. E' qui che si inventa una forma di lotta alle Caste – all'inizio copertura di ebbri disegni politici di Luca Cordero di Montezomolo – tutto tranne che riformista. E' qui che un culto radicale del liberismo alla Francesco Giavazzi sta facendo precipitare nel ridicolo, come spiega Giovanni Sartori, un'impostazione economica per altri versi indispensabile.
E' a Milano che si cerca di attuare una sorta di linciaggio contro Cesare Geronzi a Mediobanca del tipo di quello riservato a Salvatore Ligresti negli anni Ottanta, con le stesse finalità di allora: nel caso Ligresti favorire proprietari fondiari fannulloni, oggi proteggere qualche banchiere dalla leadership vacillante o aiutare uno dei soliti pasticcetti finanziari debenedettiani. E' da Milano che il più giansenista dei cattolici Giovanni Bazoli ha cercato di disegnare d'intesa con Romano Prodi un neoilluminismo radicalmente bancocentrico. E' qui che il cardinale Dionigi Tettamanzi appare più dedito alle denunce che ad aiutare la sua comunità a trovare risposte.
Un grande riformista come Bettino Craxi sottovalutò i mal di pancia dei milanesi. Andò incontro alle peggiori tragedie. Sarebbe bene non ripetere gli errori. Innanzi tutto partendo da un esame delle forze riformiste in campo. A sinistra la situazione è desolante: il cervello (astratto) del riformismo milanese (Dario Di Vico, Michele Salvati, Pietro Ichino) è tutto e solo al Corriere della Sera. Enti locali, Lega delle cooperative, Camera del lavoro pur guidati quasi sempre da riformisti non producono cultura politica. Anche perché per lo più i protagonisti di questi mondi litigano tra loro. A destra, un problema lo pone Letizia Moratti, guida di Milano e cerniera con i suoi imprenditori. Il sindaco ha fatto cose “riformiste” eccellenti: l'ecopass, la fusione Aem-Asm, la conquista dell'Expo. Con coraggio. Ma non riesce a tradurre la sua opera in cultura politica. Il traffico milanese è grande questione economica e urbanistica, le scelte andrebbero sorrette da un dibattito. Unire le municipalizzate leader in Italia è miracoloso, ma servirebbe un orizzonte da parte dell'azionista fondamentale. Milano sul federalismo deve dire la sua ma con la cultura non con proteste da parrocchietta.
Sull'Expo i problemi non possono essere solo formali, il sindaco dovrebbe spiegare l'idea di città che persegue. L'ultima idea, poi, di scavalcare una Lega impegnata con stile riformista a costruire il federalismo fiscale, è sciagurata. E anche un po' autolesionista: il nome Catania ai milanesi più che richiamare la città etnea ricorda, infatti, Catania Elio, non proprio brillante presidente dell'Atm. Un serio riformista, d'altro verso, è Roberto Formigoni, nei tempi più recenti troppo concentrato però a mostrare il suo malcontento, pur giustificato dall'insensibilità berlusconiana nell'attribuirgli un ruolo nella politica nazionale. Il tempo del malumore, comunque, è durato abbastanza, dopo un paio di calci negli stinchi ben assestati, deve tornare la politica e – ancora più importante – la “cultura politica”. Per esempio Formigoni potrebbe impegnarsi di più a spiegare anche agli studenti ciellini anti Gelmini come il sistema pubblico-privato nella sanità lombarda abbia tagliato i costi, garantito l'efficienza e difeso la ricerca. Aiuterebbe così chi cerca la via per sfuggire alla morsa rettori corporativi-studenti estremisti.
Il Foglio sportivo - in corpore sano