Nel grattacielo del NYT

Perché l'elezione della svolta generazionale è senza idee

Christian Rocca

Secondo Tanenhaus, stiamo assistendo alla “fine di un'ideologia”, quella alla base della Right Nation conservatrice, anche se in realtà lui pensa che quell'era “sia già finita negli anni Novanta”. Da allora, spiega Tanenhaus, “i repubblicani hanno trovato machiavellicamente il modo di vincere".

    Sam Tanenhaus è il direttore del Book Review e del Week in Review del New York Times, gli inserti dei libri e dell'approfondimento domenicale del quotidiano liberal più influente del mondo. Tanenhaus è anche un intellettuale particolarmente attento alle cose che succedono nel mondo conservatore. Autore della biografia di Whittaker Chambers, l'ex spia sovietica diventato anticomunista militante e testimone chiave al processo per spionaggio contro il diplomatico Alger Hiss, Tanenhaus lavora da anni alla biografia di William F. Buckley, uno dei padri intellettuali della destra americana, scomparso all'inizio del 2008. “Bisognerà vedere come andrà a finire – dice Tanenhaus seduto dietro la scrivania del suo piccolo ufficio al quinto piano del nuovo grattacielo disegnato da Renzo Piano – ma sembra proprio che queste elezioni segnalino un cambio generazionale, come quello del 1968 e per certi versi del 1932”.

    Secondo Tanenhaus, stiamo assistendo alla “fine di un'ideologia”, quella alla base della Right Nation conservatrice, anche se in realtà lui pensa che quell'era “sia già finita negli anni Novanta”. Da allora, spiega Tanenhaus, “i repubblicani hanno trovato machiavellicamente il modo di vincere nel 2000, mentre nel 2004, anche per l'11 settembre, hanno avuto una presenza istituzionale sufficientemente forte a mantenere la Casa Bianca”.
    Nuove idee in giro non ce ne sono, né a sinistra né a destra: i liberal sognano un nuovo New Deal, i conservatori vorrebbero ancora abbattere quello originale: “Se si vanno a riprendere i memorandum scritti da Buckley quando cercava di organizzare la National Review, per dire di uno dei momenti fondanti del pensiero politico conservatore, si scopre che non contenevano assolutamente nessuna idea. Il punto centrale del movimento conservatore – spiega Tanenhaus – è sempre stato quello di tornare a prima del New Deal di Franklin Delano Roosevelt, a prima dell'intervento pubblico e della costruzione dello stato sociale americano, in pratica lo stesso argomento del presidente Herbert Hoover negli anni Trenta”.

    Non ci sono riusciti nemmeno con Reagan: “E' il paradosso dei conservatori: sono molto bravi a fare politica, ma detestano lo stato. Eppure quando arrivano al governo cominciano a capire che chi li ha eletti non vuole affatto tagli all'intervento statale, magari vuole smantellare lo stato sociale per qualcun altro, ma non per sé”. Così da Reagan a Bush, il quale ha ulteriormente ampliato la presenza dello stato, non sono state toccate né pensioni né la sanità per gli anziani. La crisi della Right Nation si estende anche alla politica estera: “Tutto risale al conflitto strategico tra i due tipi di anticomunismo che ha diviso il dibattito politico e intellettuale americano. C'è stato l'approccio di Harry Truman favorevole al contenimento della minaccia sovietica e l'approccio più aggressivo dei conservatori volto a forzare il nemico al ritiro. Quella battaglia è stata persa dai conservatori, ma quando Reagan è diventato presidente è sembrato che potesse seguire l'approccio più aggressivo”.

    In realtà, “Reagan è stato aggressivo soltanto retoricamente, non nelle azioni, anche se questa può essere considerata una tattica, se non una filosofia, diversa”. Dopo l'11 settembre, per la prima volta i conservatori hanno potuto applicare l'approccio muscolare e se si rilegge il famoso discorso bushiano di West Point del 2002, quello della guerra preventiva, si può notare che “è quasi identico alla retorica anticomunista di Barry Goldwater nel suo ‘Conscience of conservative' degli anni Trenta: porteremo la guerra in casa dei nemici”. Oggi la percezione è che la dottrina aggressiva applicata all'Iraq “non abbia funzionato, anche perché gli americani detestano contare i caduti e sono scettici, come Bush, del nation building”.

    Sam Tanenhaus sostiene che in America, grazie al sistema bipartitico, l'ideologia tende a scomparire, entrambi i partiti si muovono verso il centro”. Secondo il direttore degli inserti intellettuali del New York Times, “le ideologie forti confondono l'America”, anche perché votare un presidente è “un atto culturale, un voto sul carattere dei candidati”. Tanenhaus interpreta i sondaggi pro Obama delle ultime settimane come la prova che “l'America si sia abituata a lui, non tanto alle cose che dice o vuole fare, ma al modo in cui appare, a come scende dall'aereo, a come si aggiusta la giacca”. Obama ha “il grande talento politico di diffondere ottimismo nelle altre persone, è questo il suo dono, non tanto ciò che dice o che fa”. Ideologicamente, è il classico liberal favorevole al welfare stare, non molto diverso da Clinton: “Clinton è stato l'Eisenhower del suo tempo nel senso che ha accettato i cambiamenti dell'era reaganiana, governando all'ombra di Reagan, ma fermando anche gli eccessi ideologici di Newt Gingrich. Clinton ha governato dal centro, ben sapendo che il centro si era spostato a destra”.

    Obama, se sarà eletto il 4 novembre, arriverà alla Casa Bianca in una situazione diversa: “Il paese avrà rigettato la destra e c'è l'emergenza economica, queste due cose garantiscono a Obama la licenza di spostarsi a sinistra”. Tanenhaus non crede che il senatore dell'Illinois sia un ideologo di sinistra: “Sta a George McGovern come Reagan stava a Goldwater, renderà più accettabile la politica della nostra sinistra, che non è ideologica, ma liberale. Oggi il paese è più pronto rispetto al passato a essere governato in qualche modo da sinistra, e Obama è accettato come uno che potrebbe farlo”.

    I suoi primi cento giorni saranno fondamentali, dovrà dimostrare di essere un politico post partisan, di non farsi guidare dai sondaggi e capace di governare in modo pragmatico. Il rischio, dice, è che sia “come Kennedy un grande candidato, ma non un presidente di successo”. Il fratello di Tanenhaus, uno storico, sostiene che se Ted Kennedy, ovvero il campione della riforma sanitaria oggi con tumore al cervello, dovesse morire presto, “Obama potrebbe spingere sulla riforma sanitaria, proprio come ha fatto Lyndon Johnson con i diritti civili subito dopo l'assassinio di John Kennedy”.

    Sulla politica estera, “l'idea di Obama è la diplomazia e il multilateralismo, ma potrebbe entrare alla Casa Bianca nello stesso momento in cui diventa premier d'Israele Benjamin Netanyahu”. A quel punto, secondo Tanenhaus, Obama potrebbe avere problemi con una politica israeliana molto più aggressiva: “Obama si circonda di voci diverse, comprese anche quelle pacifiste, ma non sono sicuro – sostiene Tanenhaus – che seguirà quella strada, più probabile che anche sull'Iraq sarà flessibile”.
    Tanenhaus conclude la chiacchierata tornando sulla crisi intellettuale e di leadership della Right Nation. L'American Enteprise Institute, ovvero il centro studi più importante degli ultimi anni, “potrebbe perdere i fondi, perché le grandi aziende non sentiranno il bisogno di finanziare una guerriglia ideologica, visto che il paese non è interessato”. Il mondo conservatore, dice Tanenhaus, dovrà decidere se “perseguire l'approccio riformatore, ovvero rallentare i cambiamenti in modo da mantenere il più possibile principi e valori della tradizione”, oppure se “tornare al conservatorismo revanscista e irredento che reclama il potere e vuole una guerra culturale contro le elite liberal del paese”.