Festa malinconica per il caro amico Bush
George W. Bush se ne andrà il 20 gennaio. Oggi di presidente ne eleggono uno nuovo. Bianco o nero alla fine importa e non importa. Non importa, fino a un certo punto, se collaudato o inesperto. Se giovane o vecchio. Se cool o impulsivo. Se democratico o repubblicano. Quel che conta è che il nuovo presidente degli Stati Uniti prende in mano un paese che dice di voler cambiare radicalmente.
George W. Bush se ne andrà il 20 gennaio. Oggi di presidente ne eleggono uno nuovo. Bianco o nero alla fine importa e non importa. Non importa, fino a un certo punto, se collaudato o inesperto. Se giovane o vecchio. Se cool o impulsivo. Se democratico o repubblicano. Quel che conta è che il nuovo presidente degli Stati Uniti, chiunque egli sia, e sarà probabilmente Barack Obama, prende in mano un paese che dice di voler cambiare radicalmente o addirittura redimere dopo otto anni infausti di presidenza Bush.
Obama promette in realtà di mantenere al Pentagono Robert Gates, la scelta di Bush dopo le dimissioni di Donald Rumsfeld. Un suo candidato a ministro del Tesoro, il capo della Federal Reserve di New York Timothy Geithner, applicherà il piano finanziario bipartisan concordato con il ministro di questa amministrazione, Henry Paulson, e votato insieme, al Congresso, da democratici e repubblicani. McCain si fa un vanto di aver appoggiato energicamente il surge del generale Petreaus in Iraq, che Bush ha voluto quasi da solo e ha imposto contro l'opzione del ritiro sostenuta da tutto l'establishment politico-militare del paese, e vuole confermare il taglio delle tasse varato da Bush sette anni fa (contro la sua opinione dell'epoca). Sulla campagna elettorale non incombe più massiccio il problema del terrorismo e della guerra al terrore: da sette anni il territorio americano è protetto, e la controffensiva in atto su due fronti ha dalla sua due vittorie contro i Talebani e contro Saddam, e lo scompaginamento dell'organizzazione di Bin Laden, inseguita nelle grotte e nelle montagne del Waziristan.
Il passato dunque pesa, è significativo, è ineludibile, però entrambi i candidati cercano di definirsi il più possibile come alternative alla Washington di questi anni e al presidente che l'ha governata. D'altra parte il coro dei media vincenti e di quasi tutti gli establishment occidentali è praticamente unanime. Le eccezioni stimabili ma rarissime. Il più ovvio dei propagandisti ideologicamente corretti e purtroppo anche molta gente seria convergono in ogni parte del nostro mondo sul fatto che gli ultimi otto anni sono stati una sequela di errori, sconfitte, inganni e perfino tradimenti della Costituzione scritta più antica del mondo. Anni che hanno condotto l'America al declino economico, all'isolamento e alla debolezza sulla scena internazionale.
Siccome questo giudizio non regge alla prova dei fatti, e tantomeno reggerà il vaglio del tempo, è interessante che sia così diffuso. E che abbia dei precedenti illustri. In forza di disastrosi sondaggi Gallupp – alla Bush – che gli sconsigliarono la ricerca di un nuovo mandato, fu negata al presidente americano Harry Truman (1945-1953) una considerazione imparziale della sua eredità politica; molti anni dopo gli si riconobbe universalmente un ruolo di leader strategico del suo paese e dell'occidente nel fuoco vivo del secondo dopoguerra e all'altezza di quella grande storia.
Truman fu infatti il presidente democratico che annunciò la resa della Germania, bombardò Hiroshima e Nagasaki piegando il Giappone, si oppose alla invasione cinese della Corea con una guerra durissima e costosissima in eroismi e vite umane, costruì la Nato, decise il ponte aereo in difesa di Berlino, varò la strategia del containment e impose il piano Marshall per l'Europa e la dottina Truman ovvero il primato americano nella lotta al comunismo in regime di guerra fredda e di condivisione del potere atomico con l'Unione Sovietica….
Più in generale, come nei casi di Winston Churchill e Charles de Gaulle (ma anche, se volete, un Tony Blair), è difficile raccogliere eredità di guerra e reinvestirle in politica, almeno a botta calda. All'indomani di grandi stagioni di combattività politica e militare può succedere si preferisca scegliere un Clement Attlee, vincitore sbiadito delle elezioni inglesi contro il condottiero della Seconda Guerra mondiale, o una qualche rachitica quarta Repubblica, come nel caso del provvisorio ritiro postbellico del generale di brigata che si era messo a capo della Francia Libera. Oppure può succedere che si fissi la data di una ordinaria staffetta di partito, come accaduto a Westminster con la successione di Gordon Brown al premier che aveva combattuto Milosevic, Saddam e i Talebani. Analizziamo a parte in queste pagine il caso Truman e divaghiamo in altri articoli sui grandi caratteri guerrieri della storia ripudiati nell'immediatezza della successione, per essere ampiamente riabilitati nel tempo dal giudizio obiettivo.
Intanto, valutando la presidenza Bush e salutandola con un poster conservative-kitsch che trovate nel paginone centrale, bisogna dire poche cose semplici a lettori da tempo abituati a posizioni non troppo facili se non addirittura anticonformiste. Errori ne hanno fatti, quei due. La crisi di leadership e di consenso non può non essere anche responsabilità del presidente e del suo vice Dick Cheney con i loro staff. Errori nel management della ricostruzione irachena, una fatale lentezza nel trovare il generale giusto, errori domestici nel rapporto con il Congresso, nel governo della coalizione repubblicana della Right Nation in campi decisivi come la sicurezza sociale e l'immigrazione, nell'affrontare le conseguenze dell'uragano di New Orleans, nel controllo della prassi degenerativa di un certo lobbismo vicino ai vertici parlamentari del GOP (come nel caso Abramoff) o nella pratica dello scambio localistico e clientelare (il diffuso fenomeno degli earmarks o del pork barrel).
A tutto questo grandissimo casino non è estranea la responsabilità politica dell'amministrazione che vinse un secondo mandato appena quattro anni fa. Allora titolammo con oltraggiosa sicurezza, mentre i sondaggi rovinavano addosso a molti altri giornali persi dietro a John Kerry: PERCHE' HA VINTO GEORGE W. BUSH – il presidente che taglia le tasse e fa la guerra. Domani o dopodomani a seconda del flusso dei dati, salvo sorprese nella lotteria dei numeri, oggi imprevedibili, registreremo la vittoria di un nemico della guerra e dei limiti dello stato fiscale, con un rovesciamento di prospettiva politica e culturale molto ma molto pronunciato. Il paradosso dell'abile e tenace Obama è che vincerà un mezzo protezionista sponsorizzato anche dal giornale, l'Economist di Londra, fondato un secolo e mezzo fa per affermare il libero scambio. E il paradosso dell'inquieto e onesto McCain è che una sua probabile sconfitta sarebbe addossata al suo predecessore, alla debolezza strutturale del consenso repubblicano dopo otto anni di presidenza repubblicana, ma anche una sua improbabile vittoria sarebbe celebrata come una svolta rispetto ai due mandati di Bush anziché come il risultato della sua legacy, il frutto dell'azione storica del presidente dell'11 settembre.
A proposito dell'11 settembre c'è da notare che nei tre dibattiti nazionali e nella comune oratoria politica della campagna, come anche nelle primarie, la data è praticamente scomparsa. L'impressione è che gli americani abbiano privatizzato il ricordo del dolore e siano ferocemente determinati a cancellare il capitolo aperto sulla scena della decisione pubblica dal volo dei diciannove shahid islamici sulle due torri del WTC e sul Pentagono. Circola nelle librerie americane un libro di Douglas Feith, “War and Decision”, che racconta con abbondanza di documenti archivistici e vivi particolari drammatici la storia che va dall'11 settembre alla guerra in Iraq. Feith era un alto funzionario del Pentagono, le sue sono informazioni leali fornite da un insider. Si capisce dal suo racconto che Bush e Cheney e Rumsfeld, spesso in condizione di relativo isolamento e di strenua rersistenza da parte di pezzi consistenti dell'amministrazione, in sostanza remando sempre contro la Cia e il Dipartimento di stato, e spesso contro le alte gerarchie dell'esercito, hanno compiuto un miracolo politico, diplomatico e militare. Un altro libro (“Angler”), questa volta di un eccellente giornalista liberal del Washington Post, Barton Gellman, è dedicato al capolavoro politico di Cheney: la spericolata riforma del potere esecutivo, ricondotto a unità efficente a viva forza, e con le risorse dell'astuzia e le durezze del più spietato machiavellismo, dopo la lunga fase di indebolimento della funzione presidenziale seguita al Watergate.
L'autore del libro è contrario a quella riforma, che giudica ai limiti della Costituzione, ma nel suo racconto obiettivo trova posto la decisa convinzione che Bush e Cheney, nonostante dissensi e spettacolari drammi interni al circuito del loro potere, abbiano agito in base a una visione politica e legale inattaccabile sul piano della buona fede, materia civile cruda, tragica e nutrita di analisi realistiche commisurate ai rischi effettivi dell'offensiva terroristica internazionale dopo l'11 settembre. E che la loro manovra sia stata coronata, con qualche eccezione, da un sostanziale successo.
Ma non basta la questione delle due guerre vinte. C'è un altro mistero politologico straordinario da segnalare. Bush, e con lui McCain, paga la crisi finanziaria. Ma tutti sanno che Bush non è e non è mai stato un uomo di Wall Street. Che il circuito dei grandi investitori e banchieri d'affari, delle istituzioni finanziarie e dell'establishment politico che è in connessione con loro è piuttosto liberal, o comunque democratico. Tutti sanno che il fenomeno dell'easy money, con la diffusione universale del rischio immobiliare giocato nel mercato finanziario a costo zero, nasce negli anni del boom della new economy con Clinton e i consiglieri attuali di Obama, i Robert Rubin e i Lawrence Summers, segretari al Tesoro dei democratici e controparte politica di Alan Greenspan quando furono messe le basi della grande crisi dei mercati in settembre e in ottobre. Si sa che il mondo repubblicano, semmai, è quello del big business, dell'economia reale. E si sa, infine, che Bush l'economia reale l'ha premiata con otto milioni di posti di lavoro e una incredibile successione di tassi di crescita competitivi con il passo lungo dell'Asia. Si sa che il mondo della mutualità immobiliare è una tradizionale eredità del New Deal, e che le sue colossali agenzie all'origine della crisi, Fanny Mae e Freddie Mac, furono a lungo le vacche sacre della Great Society di Lyndon Johnson, l'avversario del padrino della destra liberista americana, quel Barry Goldwater, uomo del west, che perse le elezioni del 1964 contro Johnson ma nella sconfitta seminò le idee del manifesto della Right Nation per molti decenni a venire.
Il paradosso dei paradossi è che Bush ha vinto le sfide politiche che ha impostato e quelle ricevute dalla storia, non solo nella risposta all'11 settembre. Bush non si è limitato a vincere due guerre, a proteggere l'America, a mandare in pensione gli europei che l'avevano braccato a braccetto delle masse pacifiste, come Chirac e Schroeder, ristabilendo relazioni politiche solide con gli alleati e lasciando al suo isolamento la diserzione di Zapatero. Non ha soltanto bloccato la nuova Monaco occidentale, realizzando il disarmo di Gheddafi e di Kim Jong Il e le condizioni di un intervento drastico per impedire la nascita di un Iran nucleare. Fronteggiando e mettendo nell'angolo, fino a che è stato possibile con un linguaggio di amicizia, la nervosa e autoritaria Russia di Putin. Consolidando il rapporto con una Cina sfuggente, e avviando uno storico nuovo incontro con l'India.
Bush ha dato una risposta ai tremendi problemi dell'educazione in America, con il programma bipartisan “No Child Left Behind”, controfirmato da Ted Kennedy; ha realizzato un conservatorismo compassionevole con i sostanziosi programmi di lotta all'Aids e alla povertà, con una ragionevole estensione del welfare dove era necessario, con la tutela della vita nascente nel campo della legislazione e della ricerca biotecnica, varando leggi e nominando giudici che leggono la Costituzione secondo le intenzioni dei suoi autori, cioè un disegno di giustizia, invece di esprimere la loro personale “empatia” verso i deboli (come impone l'ideologia attivista e giustizialista di Obama). Malgrado questo la nazione oggi si libera di lui in modo brusco, votando due candidati che in modo diverso, e con conseguenze politiche diverse, prendono tuttavia entrambi le loro distanze da lui e dai sondaggi che limitano l'approvazione della sua politica a un misero 25 per cento. Come è possibile?
Nel mondo occidentale, piano piano, fin dai tempi di Truman e dei primi Gallupp, si è introdotto e insediato stabilmente un nuovo potere sottilmente manipolativo di tipo democratico e statistico (tra i due concetti c'è parentela). Parliamo del circuito dei sondaggi e del cosiddetto sistema del mainstream media ovvero il dominio delle comunicazioni di massa, e della tv e del Web in particolare. L'opinione pubblica sondata, presuntiva, è un'altra cosa rispetto al vecchio “plebiscito di ogni giorno”, che era l'opinione nazionale e nazionalista ai tempi della Prima guerra mondiale. Questa opinione non regge un presidente o un premier di guerra, sceglie per indole l'isolazionismo o l'appeasement, dimentica oggi il significato delle guerre che ha voluto appena ieri. Bush di questa opinione presuntiva dei sondaggi è la vittima sacrificale, e solo così – dicono alcuni – si spiega il rovesciamento logico di un presidente che vince tanto e perde altrettanto.
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